Novembre è per me un mese particolare. È la porta di accesso all’inverno, la mia stagione preferita. Ma è anche un contenitore di ricorrenze: alcune liete, altre decisamente no. Sulla mia devozione nei confronti della stagione invernale, causa passione sciistica, vi ho già detto troppe volte. Sulle ricorrenze vale la pena di soffermarsi.
Molti anni fa, in uno degli immancabili naufragi della vita, raccolsi il coraggio a due mani e decisi di cambiare tutto. Ma proprio tutto. Lavoro, casa, compagnia, prospettiva. Stavo per dimettermi dal giornale in cui avevo lavorato per vent’anni, ero senza una lira, avevo troncato un sodalizio complicato, e per una indescrivibile convergenza non avevo neanche un tetto sotto cui dormire. Insomma per qualche giorno mi ridussi a passare le notti in auto: scorta di panini, sigarette, birre, ottimismo. Una sera, era domenica, decisi di mettere da parte i miei pregiudizi, feci un compromesso col mio orgoglio e chiesi aiuto. Nel frattempo un paio di cose che avevo scritto si erano fatte strada da sole ed ero riuscito a prendere quota nel mercato editoriale.
Insomma ce la feci grazie a un combinato di affetto (genitori) e fortuna (senza sponsor).
Mi presi tre mesi, nel corso dei quali mi trasferii a casa dei miei genitori tipo sedicenne, e investii tutti i soldi che avevo, e che avrei avuto di lì a qualche anno, in una casa che oggi è la mia tana. Ci misi dentro tutti i miei sogni e le mie follie: porte nascoste, librerie che non sono solo librerie, muri trasparenti, pareti che cambiano colore, una cucina-salotto e tecnologia a go-go. Rinacqui tra quelle mura, ricominciai alla grande su quella lunga scrivania a elle disegnata una notte sul tovagliolino di carta di una pizzeria immonda, ripresi quota senza sforzare le ali, perché quando il vento è quello giusto c’è un dio che probabilmente soffia per te e per quello che ti sei meritato. In tre mesi trasformai una casa degli anni sessanta in una casa mia (grazie ai miei).
E il risultato fu talmente entusiasmante che, per favorevoli convergenze astrali, scoprii lo smart working con un discreto anticipo.
Era il 2007.
Era novembre.
Un decennio dopo mi accorsi di una cosa che potrebbe sembrare sgradevole, ma che a pensarci bene può essere fisiologica dato che il vero problema dei viaggi non è l’itinerario, ma la compagnia. Ebbene sì, sbagliai compagnia e me ne accorsi bruscamente. Il dolore fu grande ma a poco a poco fu alleviato dalla certezza di essermi tolto una spina dal piede. Capita.
Quando capii che la spina non faceva più il suo mestiere (anzi non lo aveva mai fatto dato che più che spina era un rovo) perché incolpava il piede di fare il piede, feci i miei calcoli. Rasi al suolo il rovo.
Adieu a quelle spine e a tutti i piedi che le avevano calpestate (cazzi loro).
Era novembre.
Un anno fa se ne andò mio padre. E qui potrei scadere nel legittimamente lacrimevole. Ma dovreste sapere che le lacrime le frequento con discrezione, se non altro perché con l’età che avanza la differenza tra commozione e rimbambimento è impercettibile come un rimbrotto della prostata (cioè dà un minuscolo avviso per un tremendo, possibile, effetto). Pino, o D’Artagnan come si faceva chiamare da queste parti, non era un uomo perfetto. E questo lo faceva diventare il padre perfetto. Era l’inventore dell’invadenza affettiva, il primo motore immobile della fiducia nel futuro, era il migliore compagno di viaggio e il peggiore interlocutore di politica, era un gran buongustaio e un pessimo pessimista, era buono e cazzuto, accogliente e non scontato. Se non gli andavi a genio ti mandava a quel paese, se lo affascinavi con un pensiero o con una lettura ti veniva a cercare a casa. Si spense in una mattina inutilmente assolata, esiliato da una pandemia feroce, nella solitudine che non meritava.
Era novembre.