Quarantadue ghiaccioli

Caldas de Reis – Padron
Padron – Santiago

Ogni volta che concludo un viaggio avventuroso, che per me significa faticoso, mi ritrovo sempre più ricco di una cosa che viene sottovalutata e che si chiama fatalismo. Mi dico, anche stavolta è andata, nonostante la mia pericolosa (al limite del patologico) tendenza ad alzare l’asticella quando, come età anagrafica impone, dovrei invece ipotizzare una strategia opposta. Poi mi chiedo: fin quando potrò dar sfogo alla mia curiosità in questo modo non troppo ordinario? E lì entra in campo il fatalismo, forte anzi rinvigorito: il migliore modo di rispondere a certe domande è non porsele. 

Questo Cammino Portoghese, ancora più degli altri, non è stato solo un affare muscolare. Anche se senza allenamento 700 chilometri con 11 chili in spalla (acqua esclusa) ti portano a Santiago solo se fai il giro largo da Lourdes ed esce il tuo nome nella lotteria dei miracolati. Un coach parlerebbe di motivazione, io molto più semplicemente tiro in ballo l’atto più egoistico che dovremmo imparare a considerare senza timidezza, la determinazione. E non si tratta banalmente di voglia di vincere: qui non si vince un cazzo e anzi gli amici ti prendono affettuosamente per il culo dai loro ritiri vacanzieri umanamente normali, indecisi se trattarti da squilibrato o inserirti come pastorello ramingo in un quadretto naif.
La determinazione non è che funziona solo nei massimi sistemi cinematografici dove c’è quello\a che ce la fa nonostante tutto, e più il nonostante tutto è poderoso, più l’effetto sorpresa funziona. Nossignori, c’è una determinazione ordinaria che sta nelle piccole anzi minuscole cose e che si annida in preziosi angoli di resistenza.
Ad esempio sto scrivendo da un mese su una tastiera collegata al mio iPad mini che sovverte i canoni di una tastiera normale (nella posizione delle lettere, nell’uso di tasti funzione, nella dimensione e dinamica dei tasti). Per chi scrive per mestiere è come cambiare il martello a un fabbro, i fornelli a un cuoco, l’auto a un pilota. La pazienza non basta, serve determinazione. Ma questo è niente.

In queste ventotto tappe ho dormito (tranne che a Porto) ogni sera in un posto diverso. Mi sono trovato in alberghi affollati e in pensioni sperdute, ho dormito in antiche dimore nobiliari e in residenze per anziani dove ero il più giovane della compagnia, ho cenato in resort e in bettole, ho combattuto con gli scarafaggi in stanza e ho dormito in letti inutilmente grandi, ho bevuto grandi vini e per evitarne di pessimi mi sono strafatto di Coca Zero. 
Ho succhiato 42 gelati “Solero” (quasi uno e mezzo al giorno) e non mi chiedete perché. Io che detesto i gelati ho trovato la mia convergenza perfetta tra caldo, stanchezza e cazzi miei in questa specie di ghiacciolo dal gusto esotico indefinito: quando il cammino si faceva pesante e mi trovavo a corto di energie, al primo bar o emporio a tiro mi facevo un “Solero” (1,60 euro di succoso colorante). Ho svuotato e riempito lo zaino ogni sera e ogni mattina, come se sgranassi un rosario, cercando di smarrire solo il superfluo: alla fine ho perso solo un pezzo di sapone di Marsiglia e non ci ho dormito una notte come se fosse un’esclusiva del supermercato sotto casa mia. Un’altra volta ho dimenticato il portafoglio nell’unico taxi che ho preso e l’ho ritrovato senza che il conducente se ne fosse accorto.  
Nelle pieghe del mio corpo ho assorbito tanta di quella vaselina che per i prossimi mesi dovrò cenare con le cinture di sicurezza per non scivolare dalla sedia. Ho lavato magliette, calze, pantaloncini, mutande ogni santo giorno (per la precisione ogni santo pomeriggio) con la diffidenza di uno che, da single, a casa fa tutto-proprio-tutto ma che guarda la lavatrice come Salvini un senegalese: calze e mutande (tre e tre) pur essendo uguali ormai li riconosco e li chiamo per nome come una mamma coi suoi gemelli. Ho attuato un temerario e a volte complicatissimo piano di ricariche di aggeggi tecnologici (iPad, smartphone, iPods, orologio, tastiera, eccetera) in stanze che a stento avevano una lampadina e un interruttore. 
Ho cercato di rispondere a tutti i messaggi arretrati (al netto delle rotture di coglioni). Ho aggiornato quasi quotidianamente questo blog che ha fatto il suo discreto numero di lettori (grazie grazie!). Ho raccolto idee creative per l’anno che verrà e che sarà cruciale professionalmente. Ho resistito al contagio – nei rari momenti di connessione con la mia realtà – dalle miserie umane e fastidiosi affini. Ho tenuto pochi contatti costanti, ma buoni. Ho rivalutato i rami secchi che hanno un’utilità quando muoiono definitivamente, bruciando.

Ma soprattutto ho imparato che c’è un’importante eccezione per noi dilettanti della determinazione che tendiamo a impegnarci in tutto, anche in ciò che ci fa male. Dobbiamo imparare a lasciar correre: è inutile far bene qualcosa che non ci piace. Lì non servono né pazienza né determinazione: serve fermarsi, scegliere una destinazione e andare. 
Perché? Perché il miglior modo per rispondere a certe domande è non porsele. O al limite metterle in fondo a uno zaino e sperare di seminarle per strada, come un pezzo di sapone di Marsiglia.

P.S.
Per coincidenza arrivo (e torno) a Santiago nello stesso giorno in cui esattamente nel 2019 concludevo il Cammino del Nord. Quattro anni che sono un’era geologica con tutto quello che c’è stato nel mezzo. A chilometri esauriti mi piace pensare che le avversità siano un doping nella determinazione. Ma magari ne riparliamo più avanti quando acido lattico e vaselina saranno smaltiti…

25 – fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Fantascienza

Pontevedra – Caldas de Reis

Cominciamo dalla foto di questo post. È la tovaglietta di carta di una trattoria in cui ceno stasera. Sono a Caldas de Reis, in Galizia, a meno di quaranta chilometri da Santiago. La tovaglietta racconta i Cammini Compostelani e senza mezzi termini ci tramanda che il turismo è una cosa seria. Lo scorso anno vi avevo raccontato della mia esperienza sulla via Francigena e avevo dichiarato chiuso ogni rapporto coi cammini italiani. Troppa sciatteria, troppa disorganizzazione, troppi rischi (un paio di volte ho avuto paura di finire arrotato). La tovaglietta non è nulla di che, persino in Italia se ne trovano sui tavolini di bar e ristoranti. Ma questa è diversa. È un’idea territoriale, il puzzle completo di cui poi scegli le tessere. Ve l’immaginate nelle nostre lande la sfilza di fisime snervanti dietro un simile pezzo di carta: e chi la disegna? E perché lui? E chi la stampa? E chi la paga? E il mio logo? E perché quello è scritto più grande?

Io non lo so come fanno qui, solo solo che in molte località turistiche siciliane non riescono a mettersi d’accordo manco per le cartine geografiche 20 centimetri per 20. Quando arrivai al Teatro Massimo come direttore della Comunicazione e del Marketing, un po’ di tempo fa, ci misi un anno per fare arrivare regolarmente manifesti e brochure della Stagione ai centri di informazione turistica pubblica. E anche lì domande: e chi li porta? E chi li espone? E chi li appende? 
Lasciamo perdere.
Torniamo ai Cammini e al loro valore economico (che spagnoli e portoghesi hanno ben chiaro). La via Francigena in tal senso, se solo un giornale decidesse di fare un’inchiesta, è uno scandalo tutto italiano. Ma in tal senso io già dato. 
Invece vi dico cosa ho visto in questi giorni in Galizia. È chiaro che mi trovo nella zona calda del Cammino, più ci si avvicina a Santiago più cresce l’afflusso di pellegrini. I pellegrini sono gente strana, non a caso sto in disparte (non ho bisogno di importare stranezze altrui): dormono in mandria per pochi euro a notte, usano bagni e docce comuni, deglutiscono cibi da menù fisso, vanno a letto presto. Insomma spendono poco. È chiaro che c’è un che di intensivo in questa modalità di sfruttamento turistico. Però è l’offerta che mi colpisce. In città come Pontevedra ci sono negozi di abbigliamento, pedicure, erboristerie, barbieri, ristoranti per pellegrini. Identificato il target, l’offerta si adegua senza puntare a strozzare il turista, perché altrimenti lo perdi per sempre e queste sono terre in cui si torna dato che il pellegrino è religiosamente reiterante: sgrana passi tipo rosario e il rosario non è che si butta quando finisce.
Immaginate quanto fantascientifica può apparire una serata d’agosto chessò a Mondello, dove solo lo slalom tra posteggiatori abusivi e questuanti di vario genere è una roulette russa.
E poi la viabilità. Il Cammino portoghese, così come il Cammino del Nord, è coccolato dalle comunità perché è comunque un flusso economico importantissimo e inesauribile: non teme crisi economiche, inquinamento, riscaldamento globale. Bar accoglienti con sedie e ombrelloni ovunque possibile. Passerelle e vie pedonali per centinaia e centinaia di chilometri, senza soluzione di continuità (tipo per quasi tutta la Senda Litoral). Semafori intelligenti tarati sui pedoni con le auto che si fermano a distanza e non sulle tue caviglie. Nelle zone “calde” pattuglie di polizia sui sentieri e sui rarissimi attraversamenti di strade ad alto traffico: quando un pedone arriva, l’agente lo prende in consegna e lo conduce all’approdo dall’altro lato della carreggiata. Ditemi se non vi sembra fantascienza. 

24 – continua

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La tolleranza non è un muscolo, peccato

Vigo – Redondela
Redondela – Pontevedra

Sono entrato in quella detestabile zona di insofferenza che non riesco a controllare nonostante mi vergogni come un oste astemio e per la quale ci vorrebbe un investimento a cinque zeri presso uno psicologo bravo (anche se nei secoli dei secoli ho già dato). 
Sono ormai in vista di Santiago, mancano poche tappe, una sessantina di chilometri. E, come nel Cammino del Nord che pure viene dalla direzione opposta, questi ultimi giorni sono funestati – anzi mettiamoci le virgolette che lo shit storming degli imbecilli è sempre in agguato – “funestati” dalla moltiplicazione dei pellegrini. La maggior parte dei quali, cioè quelli improvvisati e che storicamente provengono da paesi tipo l’Italia, usano la locuzione “ho fatto il Cammino di Santiago” (come se ce ne fosse uno solo) per riscuotere un bonus di credibilità o uno sconto di pena al ritorno in patria nella loro ordinarietà cittadina più o meno esibita. Il loro Cammino di Santiago, espressione vaga quindi perfetta per un’audience distratta ergo maggioritaria, è tutto qui. Una sessantina di chilometri spalmati in tre, quattro anche cinque giorni tipo struscio in corso Umberto. E via raccontando: in fondo il migliore film che ci vede protagonisti è quello di cui nessuno ha mai visto un frame. 

E siamo alla mia complicazione psicologica. L’insofferenza.
Occhio, qui non c’è un briciolo di autocompiacimento, al contrario c’è disagio per un sentimento che non riesco a governare, come un’antipatia perniciosa che vorrei soffocare. Un prurito all’indole, diciamo.
Oggi per la prima volta in tre settimane e passa di salite, arsura, vento, sudore, polvere, solitudine ho sperimentato la prova più difficile, quella della socialità forzata. Truppe di giovani, anziani, chiacchieranti, schitarranti, adoranti di un dio prudente che tiene i tappi nelle orecchie, ciabattanti con calze, scalzi indecorosamente cingolati, puzzolenti che potevano non esserlo, ingombranti (camminano a quattro a quattro in un sentiero che al massimo consente lo spazio per due persone affiancate). Nella foto di questo post un esempio di scarso effetto.
E poi c’è questa cosa pittoresca in modo perfido per me: non so chi ha insinuato nella testa di questi aspiranti martiri l’idea che un cammino estivo si fa con gli scarponcini pesanti, alti, imbottiti tipo inverno siberiano. Sul tragico dualismo scarponi da un chilo o sandalo con calza da tedesco in vacanza a Venezia ci torneremo, perché l’argomento merita una trattazione approfondita. Insomma chi consiglia a questi disgraziati di camminare in agosto, in Spagna, con temperature simili a quelle italiane, su asfalto o sterrato, con scarpe corazzate spesso rigide come un’ingessatura o non capisce un cazzo di cammini o ha un contratto milionario coi poteri forti dell’ortopedia mondiale.

Saranno giorni difficili i prossimi, quelli che mi separano dall’arrivo a Santiago. Che, detto chiaramente, è la parte meno emozionante di questo viaggio. Però mi consolo: ho già messo dentro tutto quello che basta nel mio bagaglio privato di momenti perfetti e sono veramente felice per come sono riuscito a non deludermi, dato che ho una certa propensione ad appannare gli specchi in cui mi guardo…
Quindi da oggi sino all’arrivo, comunque vada, ogni passo in più sarà un centimetro geografico conquistato, un grammo corporeo abbandonato, un grado climatico neutralizzato. In fondo la folla dei pellegrini non è altro che una salita in più, solo più rumorosa. Ed è un vero peccato che la tolleranza non è un muscolo. 

23 – continua

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Pensieri da indossare

Baiona – Vigo

Da due giorni sono in Spagna dopo tre settimane di cammino in Portogallo, che ho percorso per i due terzi della lunghezza. E’ presto per tirare le somme, mancano ancora poco meno di 150 chilometri prima dell’arrivo a Santiago e ogni sportivo che si rispetti sa che alzare le braccia prima di tagliare il traguardo è poco conveniente oltre che da coglioni. Sto bene, fisicamente e mentalmente: e le cose sono evidentemente collegate. Per i muscoli non c’è problema, basta allenarsi. La verità è un’altra: non siamo abituati a stare da soli per lunghi periodi. La differenza concettuale e sostanziale tra persona solista e solitaria l’ho più volte affrontata su queste pagine e in tutte le occasioni pubbliche in cui mi è capitato di parlare di queste mie “sgroppate”. Mi pare anche una cosa intuitiva quindi evito di reiterare.

C’è una frase che faccio finta di tirare dal cilindro e che funziona abbastanza nella mia versione sociale, ed è questa: “Immaginate di avere il privilegio, ogni mattina, di svegliarvi, prepararvi per i vostri chilometri in solitaria e indossare un pensiero che nessuno disturberà, interromperà, influenzerà”. Uuuh, dal fondo della sala. Eeeh, dal fondo della mia anima.
L’ultima volta che ero stato in Spagna era il 2019, quando avevo fatto il Cammino del Nord, un’era geologica fa. Allora ero un’altra persona con le stesse esigenze. Ero disilluso e illuso con fattori shakerati come oggi. Ero più giovane e paradossalmente più esperto: sono un raro caso di essere umano che invecchiando si riconosce sempre meno nella categoria di quelli che hanno esperienza (che palle, l’esperienza!). Perché questa Spagna che accarezzo coi passi delle mie Asics Cumulus ha conservato gli influssi di quella del 2019 quando il mio pianeta risentiva di orbite diverse. Quindi ha fatto il suo meraviglioso mestiere: mi ha aiutato a indossare il pensiero della mattina. Un pensiero che credevo mi venisse stretto come una maglietta di qualche anno fa e che invece…

Credo – forse mi illudo – in una universalità delle emozioni, che non è la banalità del tutti amano, tutti preferiscono, tutti desiderano. No, credo che ci sia una matrice comune che possiamo riconoscere nella miccia delle vibrazioni positive. Il più grave peccato che un essere umano dotato di socialità sana può commettere è decidere di non accenderla, quella miccia.
Dopo il Portogallo, di cui infesterò queste pagine tra qualche giorno, quando poggerò le mie nobili terga sul sedile dell’aereo che mi riporterà nella mia Palermo cool, la Spagna è lo spunto prezioso e urente per ricordarmi che c’è stato un prima di questa vita qui. Durante il lockdown, di cui non parla più nessuno, ci ho pensato spesso. Come nell’ultimo sogno prima dell’incubo, un’immagine magari sopravvalutata dato che quel che segue è sfacelo.
Io e molti di noi da quell’incubo ci stiamo riprendendo con fatica: per motivi personali perché abbiamo lasciato per strada affetti importanti, professionali perché su quella strada ci siamo imbattuti in molta ingratitudine, politici perché quel che è stato non è più Stato.
Ecco, oggi il pensiero che ho indossato per 24 chilometri è stato questo: se è vero che non ci aspetta nessuno, spero almeno che all’arrivo ci sia il sole, che l’aria profumi di mare, e che al ristoro ci sia una accoglienza gastronomica come si deve.
P.S.
So che mia madre legge questi post e che ciò stimola la sua vocazione di cuoca. E non mi dispiace affatto visto il dispendio di energie che dovrò ripianare…

22 – continua 

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Chi te lo fa fare?

Viladesuso – Baiona

Non c’è giorno che passa senza che mi arrivi in modo più o meno testuale la domanda: ma chi te lo fa fare? Solitamente rispondo in maniera rapida: non so, io mi diverto così. Qui però ci voglio mettere qualche parola in più. Del resto in questo blog le narrazioni delle mie minime avventure su due zampe sono una parte corposa (c’è pure un podcast). 

Per spiegarmi faccio un passo indietro di cinque anni esatti quando, mentre scrivevo su queste pagine da un alberghetto finlandese di ritorno in moto da Capo Nord, davanti a me atterrò anzi ammarò un idrovolante e due tipi scesero per venirsi a bere una birra nel tavolo accanto al mio. Oggi, alla stessa ora e a una latitudine decisamente diversa, mentre mi accingo a inanellare una parola dietro l’altra nello stesso blog, ho davanti uno scenario che mi sorprende esattamente come quello di Inari, così si chiamava la località dell’ammaraggio causa aperitivo. La spiaggia di Baiona, al sud della Spagna atlantica, una spiaggia pubblica e naturalmente pulita, è ancora piena di bambini che giocano in acqua e di adulti in panciolle che bevono cerveza sotto gli ombrelloni, alle otto e mezza di sera, con un taglio di luce che dalla montagna filtra tra gli alberi delle barche a vela ormeggiate e che lambisce il mio tavolino.
Ecco chi o cosa me lo fa fare.

Trovarmi in prima fila dove posso ancora sorprendermi senza fare danni. Allontanarmi dal coro di rassegnazione che usualmente accompagna la quotidianità: non so voi, ma io sono circondato da gente orgogliosamente mesta, o imbottita di vuoto. Per carità non è la regola, ma è quella disgraziata eccezione che manda a puttane anche la regola più ferrea. E la mestizia colpevole mi è sempre più insopportabile, sarà la vecchiaia o forse il canto del cigno di una consapevolezza sfrontata (della serie, ma chi se ne fotte).
Sfiancarsi su due gambe non più giovani e attraversare città, regioni, nazioni non è un atto di eroismo. Al contrario, un atto di eroismo può essere quello di confinarsi in un 5 stelle con spiaggia, pranzo, aperitivo, cena ogni santo giorno finche dura la batteria dello smartphone e poi a letto finalmente perché la presa per la ricarica è accanto al comodino. Eroismo è accettare vacanze di cui non ce ne frega nulla, per abitudine o consuetudine. Eroismo è inventarsi un pensiero di lavoro anche a Ferragosto per non impegnarsi in pensieri senza alibi, quelli liberi. Eroismo è ubbidire facendo finta di scegliere, divertirsi facendo finta di farlo.
Poi nessuno qui potrà mai dire che faticare in ferie sia la scelta migliore, anzi sono convinto che non lo è sin quando la fatica è fine a se stessa. Ma se è mezzo per arrivare, raggiungere, superarsi, ritrovarsi, scoprirsi o mandarsi a fare in culo, allora è un buon affare. Non è necessario sfiancarsi. L’avventura, in fondo, è un pensiero giusto nel momento in cui non dovrebbe esserci.

Abbiamo vite complicate nella nostra ordinarietà composita, quel misto di pigrizia e di entusiasmo addomesticato col quale inganniamo il tempo che non sappiamo come riempire (o che imbottiamo di malavoglia con cazzate a buon mercato). Forse provare a scegliere di fare qualche passo senza guinzaglio può darci un’ispirazione. Perché ho imparato che la libertà è qualcosa di estremamente soggettivo: c’è chi la trova da solo e chi no, chi la cerca in sé e chi nell’altro, chi la pretende senza meritarla e chi la spreca senza valutarla. 
Non c’è niente di esotico o pittoresco nel fare qualcosa che spinga un altro a chiederti chi te lo fa fare. Piuttosto ogni volta che fate quella fatidica domanda provate a immaginarvi stanchi e sudati mentre camminate su una spiaggia assolata e deserta. Nulla intorno, borraccia a metà. Ecco se l’impulso che vi prende non è quello di voler fuggire con un elicottero che vi prelevi al volo, ma quello di mollare lo zaino, togliervi scarpe e maglietta e sdraiarvi sulla battigia a rubare il fresco dell’oceano senza guardare altro che il cielo avete già la risposta.
Questo me lo fa fare.

21 – continua

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Le bestemmie di Caronte

Vilar de Mouros – Viladesuso

Stamattina quando dalla mia stanza d’albergo ho sbirciato la pioggia battente ho pensato, dati i 27 chilometri in programma, che la maggiore difficoltà sarebbe stata rappresentata dall’acqua che cadeva dal cielo. Neanche arrivato a Caminha un sospetto mi si è insinuato nella parte asciutta del cervello dinanzi al rio Minho che avrei dovuto attraversare per raggiungere la Galizia, quindi per entrare in Spagna. Bisognava traghettare e, percorrendo la bellissima ecovia che costeggia il rio, ho seguito le indicazioni per il ferry boat. A un certo punto però la segnaletica si è fatta più insistente, meno istituzionale (e mi sarei dovuto insospettire se solo la pioggia non mi avesse annacquato le idee di prima mattina). Frecce gialle, come quelle del Cammino, indicavano deviazioni per un accattivante “Taxi Mar” e portavano a un bar che aveva i suoi tavolini proprio su un molo con un traghetto ormeggiato. Fatto il biglietto, ho chiesto alla signora del bar delucidazioni sugli orari dato che non c’era nessuna tabella, cartello, monitor, pizzino: niente di niente. Intorno a me il gruppo dei potenziali traghettati si era accresciuto secondo una delle leggi dell’effetto pecora, per cui se uno si ferma senza motivo altri troveranno motivo per fermarsi senza motivo. La signora ha risposto in modo vago, “vabbè vi chiamo io”: e anche lì il mio cervello latitava nel prevalente umido. 

Giunto il momento, cioè quando la signora ha battuto le mani due volte tipo maestra con scolaretti svogliati, un contingente di noi si è accodato a un tale con giacca a vento e calzoncini corti dall’aria rincoglionita. Costui ci ha contati più di una volta probabilmente più per confermare a se stesso il suo stato vigile che per una qualche ragione organizzativa o strategica. Sei, dovevamo essere sei. Gli altri attendano.
Lo abbiamo seguito sotto la pioggia battente sino a superare la banchina del presunto traghetto che, visto da vicino, ora mostrava la sua sinistra essenza di vascello fantasma. Nessuno dentro, nessuno intorno (a parte noi sei fantasmi e l’uomo in calzoncini e giacca a vento). Più avanti ci siamo impantanati nella sabbia fradicia e i tizi che condividevano con me questo capovolgimento di emozioni (da molo a fango, da traghetto a…?) cominciavano a dare segni di nervosismo dato che avevano anche le biciclette da trascinare. 
Senza guardarci, coi pensieri multilingue stile esperanto, siamo stati investiti tutti dalla stessa domanda: perché cazzo sei e solo sei?
La risposta si è materializzata in una specie di barchino arenato, anzi incagliato, in una zona remota della spiaggia. Nella foto di questo post potete vedere il Caronte in giacca a vento e pantaloncini che cerca di smuoverlo con l’acqua alle ginocchia. Per fortuna non potete sentire le bestemmie in dolby surround con le quali ha accompagnato le sue manovre maldestre. 

Alla fine siamo riusciti a salire, proprio mentre il cielo ci mandava un sinistro avvertimento rinforzando la pioggia, grazie a una scaletta fatta con le casse dell’acqua minerale. Stringendoci tutti, uomini e biciclette, anime e zaini, siamo sopravvissuti a una corsa forsennata da una costa all’altra, da una nazione all’altra (qui un frammento video dove sembriamo solo turisti incoscienti). Poi, toccata terra spagnola, abbiamo maledetto il nostro scafista e ci siamo lasciati consolare da un tranquillo temporale sulla terraferma. 

20 – continua

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Viventi resistenti

Esposende – Viana do Castelo
Viana do Castelo – Vilar de Mouros

Siamo cresciuti col mito della dritta via smarrita, imbottiti di metafore da Dante a Vasco Rossi. In realtà, come tutti sappiamo e non tutti ammettiamo, smarrirsi (o perdersi) ogni tanto non è male. Anzi è consigliabile se non addirittura prescrivibile. Ma non è questo il caso.

La premessa è un appiglio al tema degli ultimi due giorni, “sbagliare strada, come e perché”. Il come è semplice: basta essere stanchi come uno che ha percorso oltre 500 chilometri a piedi e se lo nasconde perché ammettere una debolezza quando ci si crede forti è difficile come dire “la Meloni può fare anche cose buone”. Il perché è imbarazzante dato che in un caso, quello più complicato, ero distratto dal male assoluto, lo smartphone. La mia netiquette da camminatore è chiara in tal senso: nessun estremismo, ma un certo rigore. Mi muovo senza il telefono in mano, spesso lo spengo, spesso è fuori campo, in casi estremi è utile per la geolocalizzazione. Capita però che ci sia qualcosa di interessante da fotografare.
E questa va raccontata poiché è proprio da primo capitolo del manuale “come non si fa”. 
Ero in un posto molto bello con un ponticello di pietra sospeso sull’acqua (il video lo trovate nei miei account social e la foto è quella di questo post). Ho deciso di riprendere quel passaggio perché era davvero suggestivo. E nel farlo, alla fine del ponte, ho seguito proprio l’indicazione che la mia guida e le mie mappe mi avevano raccomandato di non seguire. Era una freccia gialla, come quelle che ci sono nel Cammino portoghese, ma indicava un percorso diverso, interno e soprattutto montuoso. Puntava a destra, invece dovevo andare a sinistra (e anche qui metafore…). Risultato: anziché godermi una passeggiata sulla sabbia, mi sono ritrovato a scalare montagne e a scarpinare su pietraie con pendenze da stambecco.
Non contento, anche oggi mi sono messo di impegno per sbagliare strada. A mia discolpa va detto che il tratto da Viana do Castelo a Vilar de Mouros, ultima tappa portoghese prima di entrare in Spagna, consente un’abbondante dose di improvvisazione quando, dopo i primi 10 chilometri, non ci sono più sentieri di riferimento e le frecce scompaiono. Insomma l’importante è tenere la direzione e la direzione è nord, fortissimamente nord. Indicazione molto relativa se pensate che il nord ti indica verso dove muovere i tuoi passi ma non su cosa mettere i piedi. Un concetto dirimente per i camminatori che macinano chilometri, per i quali oltre ad arrivare, l’importante come arrivarci. Ma su questo ci vorrebbe una assise mondiale, non ristretta ai camminatori, ma allargata ai viventi resistenti. Da secoli ci incartiamo sul fine che giustifica i mezzi, pure in totale assenza del primo e dei secondi. Forse è il caso di metterci qualcosa nel mezzo, tra fine e mezzi: impegno, predisposizione, formazione, resistenza, motivazione, cultura insomma.

19 – continua

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La prima volta

Pòvoa de VarzimEsposende

Vi ho già parlato del cronocentrismo, cioè di quella sensazione di vivere sempre in tempi eccezionali in barba al passato soprattutto quando il passato ci sbugiarda. Tipo non ci sono più le canzoni di una volta oppure ai miei tempi la morale sì che contava. Ho fatto due esempi banali e pertanto parecchio attaccabili per evidenziare l’aspetto più evidente del cronocentrismo. Cioè il vedere le cose solo in valore della nostra età: tutto era migliore, tutto era profondo, tutto era vero. Ieri o l’altroieri.
Si tratta ovviamente di una visione miope come abbiamo imparato solo qualche anno fa col Coronavirus: credevamo di avere a che fare con la peggiore epidemia della storia solo perché non l’avevamo studiata, la storia.
Questo modo parziale di raccontarci le cose, sottolineo raccontarci, può essere aggirato facendo realmente esperienze diverse che quindi sfuggono alla smania del confronto coi “nostri tempi”. Io sui Cammini mi sono cimentato in tarda età dopo aver fatto tante altre cose tipo le maratone, ma mi guardo bene dal dire e dirmi: “Certo prima cinque chilometri li facevo in meno di 25 minuti, oggi li faccio in un’ora. Uè, non esistono più le gambe di una volta!”. Non vi sfugge l’anacronismo logico di una tale affermazione giacché il passato non lo si prende per il collo per buttarlo in campo, ma lo si invita garbatamente nel teatro della storia.

Ci pensavo oggi mentre attraversavo spiagge nebbiose (l’oceano ha dato spettacolo in tal senso) per la prima volta e mi veniva in mente un gioco che avrei proposto ai miei amici il prossimo inverno (poveri loro): progettare prime volte. Ovviamente cercando di elevare il livello della discussione al sopra della cintola con la contestuale eccezione delle gambe, dei piedi e di altre appendici non sospettabili.
La prima volta fa cadere gli alibi su cui il cronocentrismo poggia. E vi svelo un segreto: la migliore prima volta è quella di cui non avete contezza sin quando non si è dipanata interamente. Non si progetta, altrimenti è appunto un progetto e ha requisiti che possono fondarsi sul paragone col passato (e non va bene): è una prima mela offerta o trovata o conquistata all’improvviso, mai coltivata.
Quindi partire, provare, scovare, liberarsi.
Dffidate delle persone che pur potendolo fare non viaggiano mai, che parlano solo del loro lavoro , che non sognano mondi in cui finalmente sono quello che non sono.

P.S.
Saldo brevemente il debito col post di ieri (ma ci torneremo a bocce anzi a gambe  ferme). In questo Cammino i portoghesi mettono garbatamente in mostra la loro raffinata civiltà. Ogni lido, ogni spiaggia vicina a un centro abitato (quindi la maggior parte di quelle lungo la Senda Litoral), ha i suoi wc, le sue docce, le sue fontanelle pubbliche. E soprattutto ha le sue “biblioteche da spiaggia” (nella foto sopra) dove chi vuole entra, sceglie un libro e si accomoda nei tavolini sistemati all’ombra: è un’iniziativa aperta a tutti dai primi di luglio a metà settembre. Di certo è qualcosa per me perfettamente al riparo da qualsiasi tentazione di  cronocentrismo: mai ai miei tempi e nelle mie lande si sognò tanta polluzione di saggezza.

18 – continua

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Il vento dell’infinito

Porto – Vila Chā

Non saprei come definirlo diversamente. Io lo chiamo “il vento dell’infinito” e lo riconosco al primo alito non appena mi affaccio sull’oceano Atlantico. Non ha una direzione, mi avvolge e basta. Basta si fa per dire, nel senso che dal momento in cui mi prende è invece l’inizio di un sentimento che conosco bene e che non finisce mai di impressionarmi. Non ha temperatura, non scompiglia i capelli, non gonfia vele e non agita alberi. Accoglie solo me tra le sue braccia e mi culla in pensieri non recensibili. Se ho caldo mi rinfresca, se ho freddo mi scalda, se mi sento oberato mi alleggerisce, se mi sento vuoto mi riempie. So per certo che molti di voi sanno di cosa parlo: ognuno di noi ha sistemi di riferimento o, in modo più romantico, magiche convergenze che risolvono, fluidificano, benedicono, purgano, rivelano, accarezzano, trascinano, sanano. Che sia geografia, arte, storia, astronomia, fondi di caffè o altro è un dettaglio ininfluente.

Il mio “vento dell’infinito” probabilmente è la somma di passioni e aspettative, è il placebo di tutte le sindromi che mi invento quando non so dare un nome alle mie colpevoli debolezze. Ci penso sempre quando sono lontano, un po’ come accade con la montagna e con la neve. Solo che qui, sulla Senda Litoral, è una cosa più complessa, più intima. Vento è, e il vento indossa i vestiti di tutte le anime che incontra non per mimetizzarsi, ma per spogliarle.
Per questo probabilmente non riesco a spiegarmi come vorrei. Anche perché mentre scrivo, in un bistrot orgogliosamente di quart’ordine, un tale abbastanza strafatto si è seduto accanto a me e vuole fare conversazione nel suo portoghese alcolico: ci siamo messi d’accordo, con la complicità della proprietaria del locale, tu non mi rompi troppo i coglioni e io ti offro la birra. Ha capito subito e si è chiuso in un mutismo soddisfatto.

Per dare un senso definitivo al pippone sul “vento dell’infinito” potrei dirvi, banalizzando, che è una specie di doping dei pensieri. Li catalizza e li guida, indubbiamente li influenza e forse se ne porta qualcuno appresso come topini dietro al pifferaio. Io me lo chiedo: dove vanno a finire tutti quei pensieri?

16 – continua

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Porto bella

Porto

Ero tentato di ammorbarvi di foto per raccontare la bellezza dirompente e graffiante di una città come Porto. Poi ho fatto il ragionamento più scontato: chi minchia sono io per recensire storia, tradizioni, cultura di un posto così unico nel mondo? E chiedendomelo ho trovato la risposta. L’unicità di un racconto è l’insieme di sensazioni di chi ci è dentro: quindi di quelle vi dico.
Nessuna presunzione di essere guida, del resto neanche io in generale so bene dove vado (forse manco mi interessa troppo), e anzi qui il Cammino è un raro momento di coscienza in tema di direzione, volontà, impegno a lungo termine. 

Porto è l’unica sosta programmata in questi 28 giorni di scarpinata ininterrotta. Una sosta non proprio comoda dal momento che dalle ultime rive del Douro, sul quale la città è adagiata, al centro c’è un dislivello che gli ottimisti chiamano scarpinata e la restante parte del mondo chiama scalata. Nulla ha comunque inficiato l’unico momento in cui una mattina mi sono svegliato (pur non avendo cantato “Bella ciao”), non ho consultato mappe, non ho ricomposto a bestemmie lo zaino, non mi sono strafatto di Vaselina: mi sono alzato, ho fatto colazione come una persona normale e mi sono concesso l’ebrezza di fare il turista. Mi sono detto: oggi riposo. Eppure dopo tre ore di giri ininterrotti mi sono reso conto di aver guardato l’orologio con l’ansia improvvisa di sapere quanto mancava alla destinazione. Ma è stato un attimo. Poi mi sono immerso nuovamente nei miei pensieri e nelle considerazioni di cui vi sto dicendo.

Vista da siciliano, Porto è più affascinante di Parigi, più graffiante di San Francisco, più ammaliante di Londra, più efficiente di Oslo. Perché gli occhi di un palermitano vedono in questa città il riflesso di mille occasioni mancate. In fondo noi meridionali di tutto il mondo siamo anche quel che ci è stato tolto. Siamo orfani di città imperfette che affascinano gli imperfetti: e gli imperfetti, che piaccia o no, sono la maggioranza della popolazione dello zoo umano.
Porto ostenta l’abbandono e la criminalità che non mi sono estranee, ma ha soprattutto un’altra faccia orgogliosamente diversa. Il tema dell’orgoglio è fondamentale per capire questo popolo. L’orgoglio portoghese non è l’orgoglio francese o quello italiano. Loro, i portoghesi, sono pacificati col passato: dopo aver esplorato (e conquistato) il mondo si sono ritirati su una striscia di terra nella quale vivono senza rompere i coglioni a nessuno. Accolgono ma non hanno la pretesa di darti lezioni (come invece facciamo noi, i francesi, i tedeschi, eccetera). Hanno un’attenzione per la qualità che noi ci sogniamo.
Stasera ceno in uno dei posti più incredibili in cui sia stato. Ho comunicato di essere vegetariano e mi hanno mandato un tale che è esperto di cucina vegetariana e che ovviamente ha saputo accoppiare il vino giusto ai miei piatti. Ho pagato poco più di che in un medio ristorante di Palermo dove avrei potuto trovare un cameriere svogliato e una cassiera che con una mano ti scodella il conto e con l’altra si masturba di social network sotto il bancone. Insomma ho pagato un conto a gente perfettamente consapevole di quel che ti sta chiedendo: che è un tema, dal momento che la consapevolezza è il buco nero di una parte (la più scarsa e diffusa) dell’offerta commerciale delle nostre lande.

In generale, come ho spiegato, qui non hanno il feticismo della pulizia. Una cartaccia in un vicolo può scappare, ma una piazza la mattina deve essere linda senza eccezioni. 
Qui si capisce che c’è un’idea di amministrazione pubblica (non so manco di che ispirazione politica sia e il fatto che non me lo chieda vuole dire che non è importante saperlo) che non cerca i giochi di prestigio ma solo un minimo di risultato. Di domenica tutto aperto, tutto sorvegliato, tutto spiegato in almeno due lingue (anche il più raccomandato dei bigliettai di bus, metro, musei parla l’inglese, sorride per contratto e sta al suo posto senza eccezioni).
Ecco perché, in soldoni, per un siciliano Porto non è solo bella. Ma è drammaticamente bella.

P.S.
Da domani oceano e pensieri conseguenti. Ameno spero.

15 – continua

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