Mafia, il teatro delle evanescenze

L’articolo pubblicato su Il foglio.

Sentenze, libri, cortei, convegni, navi, musei, orazioni civili, ricordi, comparsate in tv, slogan sferraglianti, impegni solenni. E ancora “pentiti”, suggeritori, veggenti, traditori, impuniti troppo impuniti e colpevoli perfetti troppo perfetti. Nel labirinto di via D’Amelio ci si illude di intravedere l’uscita e invece ci si rende conto, anno dopo anno, di aver sbagliato addirittura l’entrata.
A trentadue anni, celebrati proprio ieri, dalla strage in cui morirono a Palermo il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina poche certezze lambiscono una cronaca nota, cristallizzata nel tempo.

Schematizzando.
Il depistaggio ci fu.
I finti “pentiti” hanno tutti nome e cognome.
I magistrati e i poliziotti che li hanno creati, gestiti e difesi sono stati tutti prosciolti e/o promossi o comunque se la sono fatta franca.
Gli unici colpevoli sono due morti: l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e l’ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra.
A oggi il più grande depistaggio della storia della Repubblica italiana (definizione dei giudici di Caltanissetta) non ha un colpevole punito tra i viventi, ma solo (soliti) noti impuniti.

Ci sarebbe da armare rivoluzioni, da stendere catene umane. Eppure questa strage non interessa a nessuno. A parte qualche sporadico titolo di giornale, perlopiù nelle pagine interne o nei dorsi locali, quel boato riecheggia solo nelle orecchie dei pochi sopravvissuti e dei parenti delle vittime che ci ricordano che non c’è democrazia nel dolore, non c’è una livella delle ingiustizie.
La verità è che se fregano tutti. E non solo a Palermo che è la capitale mondiale dell’amnesia organizzata, ma nell’Italia intera di ogni governo, di ogni colore, di ogni riforma. 

Falcone e Borsellino. Nel binomio partorito dalla cronaca e ancor prima dalla crudeltà degli uomini (perché siamo anche ciò che non ci è stato permesso di essere) c’è tutto il sottotesto di un’antimafia di sussurri, di carriere, di protagonismi, di ingenuità, di coraggio, di forza interiore, di sangue acido, di lavoro silenzioso, di ostentazione, di modestia, di vita con le virgole che ognuno sa darsi.
È un teatro delle evanescenze in cui una scena si apre, un’altra si chiude e una si perde. Come si è persa non solo la ragione di dare un senso definitivo a quei boati, ma anche il tentativo di un racconto diverso oltre che dei caduti in questa lotta tremenda contro Cosa Nostra, dei loro seguaci, degli epigoni, dei parenti acquisiti (le vittime di mafia sono un territorio di grande saccheggio), degli orecchianti che sul ricordo hanno costruito business, politiche, show.
Eppure l’epopea era lì, davanti ai nostri occhi, pronta per essere narrata.

C’era Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia inventato da La Barbera e Tinebra che mandava in tilt la macchina giudiziaria per 16 anni, cioè fin quando non veniva smentito da Gaspare Spatuzza, un “pentito” assassino ma non farlocco. Eppure Scarantino, ragazzotto della Guadagna senza arte né parte, poteva essere stoppato subito. Cioè ben prima che le sue fandonie portassero a tre processi con altrettanti gradi di giudizio (centinaia e centinaia di udienze) su un presupposto falso. Lui non sapeva nulla della strage di via D’Amelio ed erano La Barbera e suoi a imbeccarlo affinché desse le risposte che il pool di Tinebra si aspettava. Nella storia del nefando traccheggio dal quale scaturisce il depistaggio c’è una data cruciale: 13 gennaio 1995. In quel periodo Scarantino stava accusando alla cieca, ma sempre sotto dettatura. Nei mesi precedenti era stato irritualmente sottratto alla cura del Servizio centrale di protezione dei pentiti e affidato a un’entità creata ad hoc: il “gruppo Falcone e Borsellino” di La Barbera. Già allora Scarantino era stato subito sbugiardato da altri collaboratori di giustizia come Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera (soltanto omonimo del capo della squadra mobile) e Santo Di Matteo, padre del piccolo Giuseppe strangolato e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca per ritorsione contro il pentimento. Quindi il depistaggio poteva morire in culla già nel 1995. Ma quel 13 gennaio i pm di Caltanissetta fecero qualcosa di inspiegabile. Decisero di non depositare gli atti in cui il pentito farlocco risultava sbugiardato e di conseguenza nulla di quelle contraddizioni venne reso noto ai difensori degli imputati. Ergo, niente di tutto ciò che poteva disinnescare per tempo la bomba Scarantino entrò nel processo che si aprì il 4 ottobre 1994: il processo Borsellino, che allora era ancora il processo Borsellino e basta, e che pochi mesi dopo diventerà il Borsellino primo, per via di una strana sindrome tutta siciliana, quella della moltiplicazione dei processi. Qui comincia l’ottovolante delle udienze e bisogna aggrapparsi al calendario per non perdersi. Il Borsellino primo arriva a sentenza di primo grado il 26 gennaio 1996. Quello stesso anno, a ottobre, inizia il Borsellino bis. Ma nel frattempo inizia l’appello, cioè il secondo grado, del Borsellino primo e un processo nuovo nuovo, il Borsellino ter. Intanto arrivano anche la sentenza di appello del Borsellino primo e la prima sentenza del Borsellino ter. Mentre nel dicembre del 2000, c’è la sentenza di Cassazione del processo primigenio, il Borsellino primo. La Cassazione: uno pensa, finalmente un punto fermo. Macché, tutta la macchina giudiziaria per i primi tre processi è impantanata nelle fandonie costruite ad arte dal falso pentito.
La mitosi giudiziaria non si ferma. Sempre nel 2000 arrivano le sentenze di appello del Borsellino bis e del Borsellino ter. Tre anni dopo tocca alla Cassazione dire l’ultima parola su questi due processi. Ultima parola che non sarà l’ultima.
Infatti bisognerà attendere altri dieci anni per assistere all’inizio di un ennesimo processo, il Borsellino quater, nato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che, mentre ci aggrovigliavamo in primo bis ter e via numerando, aveva svelato il depistaggio e indicato i veri responsabili della strage: era lui che aveva rubato la 126 fatta esplodere in via D’Amelio e non Scarantino, con quel che ne consegue.
Solo il 20 aprile 2017, cioè 25 anni dopo la strage, si arriverà a una sentenza di primo grado che finalmente non è drogata. Sarà solo l’inizio, un nuovo inizio dopo nove false partenze (primo bis e ter per tre gradi di giudizio) e altrettanti finali fasulli. Nove processi, centinaia di udienze, nessuna verità.

Un labirinto di numeri.
Cento, centodieci, centoventuno.
Avrebbero potuto essere metri, chilometri. O chili, quintali, tonnellate. Avrebbero potuto essere peso o distanza. Invece cento, centodieci, centoventuno sono i “non ricordo” pronunciati da tre dei quattro poliziotti che testimoniarono al processo di Caltanissetta per il depistaggio che ha visto imputati l’ex dirigente Mario Bò, gli ex ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tutti prescritti nel processo di Appello. La sentenza, come tutto in questa storia, offre una lettura bifronte e racconta che i poliziotti concorsero a depistare ma che comunque andavano rimandati a casa perché era passato troppo tempo, che guaio ci fu ma non ci possiamo fare niente. 
È così la vicenda della strage di via D’Amelio. Appena si mette a fuoco una soluzione spunta una lettura di senso opposto. Appena si tira un respiro, un nuovo cappio stringe il collo.

Nel dedalo giudiziario attraversato da verità vaganti spunta periodicamente il dossier “mafia e appalti”. Si tratta un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Quel dossier, indicato tra le cause di un’accelerazione degli attentati a Falcone e Borsellino, sembra un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per esaminare o per cancellare, per indagare o per proteggere. A cominciare dai carabinieri che lo stilarono, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente dopo un estenuante calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con l’ex pm del pool antimafia di Palermo Gioacchino Natoli finito sott’inchiesta a Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Lui si è difeso dicendosi estraneo alla losca vicenda, e ha persino incassato la stima di Maria Falcone.

Gira la giostra, tra coraggiosi e traditori, tra nudi e puri e pataccari. Ed è molto difficile orientarsi senza prendere cantonate.
Il caso di Massimo Ciancimino è emblematico. In principio considerato attendibile dalla Procura di Palermo, ma non da quelle di Caltanissetta e Firenze, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo tentò di accreditarsi come collaboratore di giustizia. Fu così che, tra una decina di comparsate in tv e un libro autobiografico, la sua pulsione dichiaratoria strabordò sui grandi misteri. Si esibì su tutto, dalla morte di Calvi alla strage di Ustica, dagli eccidi del ’92 alla famosa Trattativa, il suo vero capolavoro, finito però, come abbiamo visto, con assoluzioni a raffica. Insomma quella che per un certo momento fu salutata come una messa cantata si rivelò, qualche procuratore dopo, cabaret.

Il labirinto non risparmia nessuno, neanche le figure dolenti che meriterebbero migliore sorte. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, ha intrapreso da anni una crociata sulla strada della verità, anzi di una sua verità. Questa missione solitaria lo ha messo in dura contrapposizione con Maria Falcone che non replica più alle sue argomentazioni: “Meglio ignorarlo”. Persino i suoi nipoti, i figli di Paolo – Lucia, Fiammetta e Manfredi – e il loro avvocato Fabio Trizzino sono finiti nelle sue invettive. La loro colpa? Aver criticato aspramente i magistrati, come ad esempio Nino Di Matteo, che invece lui difende a spada tratta. L’emblema della crociata è una foto del 2014: Salvatore Borsellino abbraccia Massimo Ciancimino in via D’Amelio in quella che Giuseppe Di Lello, ex membro del pool antimafia, definì “l’immagine più distruttiva dell’antimafia”.

Al netto delle indagini a colpo freddo, delle rivelazioni tardive e dei tentativi di filtraggio delle acque torbide in cui uomini delle istituzioni e uomini della mafia si mossero indisturbati, non si può non tenere conto che a quei tempi c’erano due procure che si davano battaglia, tenendosi in ostaggio a vicenda, mentre una guerra vera, terrorizzante, infuriava a Palermo e non solo: la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato. Su ogni cosa la procura di Palermo di Gian Carlo Caselli la pensava all’opposto di quella di Caltanissetta di Giovanni Tinebra. Sui “pentiti” cruciali soprattutto: Caltanissetta aveva uno Scarantino telecomandato, Palermo aveva una pattuglia di collaboratori di giustizia che lo smentivano. Perché Palermo non intervenne per tempo? C’erano patti da rispettare? C’era forse un filo di tensioni incrociate che imbarazzava i due uffici giudiziari?
La battaglia non si limitò al 1992, ma arrivò sino ai giorni nostri quando, ad esempio, nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia, Palermo ipotizzò che la strage Borsellino potesse essere stata accelerata proprio da quella trattativa. Ma se così fosse stato, non avrebbe dovuto occuparsene la Procura di Caltanissetta che proprio su quella strage indagava?

Un labirinto. Un sistema di domande che ne figliano altre, un complicato intrico di persone e personaggi impossibili da recensire.
Come Bruno Contrada, alto esponente del Sisde, irritualmente chiamato a collaborare alle indagini sull’eccidio di via D’Amelio che dice, oggi, che se allora gli avessero affidato Scarantino avrebbe “scoperto subito che si trattava di un cialtrone”. Eppure lui stava lì e le dichiarazioni di Scarantino le conosceva, cosa ci voleva per smascherarlo, una presentazione ufficiale, una cena aziendale?
Come i “signori nessuno” estranei a Cosa Nostra che si materializzarono nei luoghi in cui si custodiva l’esplosivo delle stragi e che suscitarono perplessità persino tra i mafiosi.
Come i due colpevoli perfetti, perché deceduti. L’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che di mafia ammetteva serenamente di sapere poco e l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, al soldo dei servizi segreti, che invece sapeva troppo e che si curava di sceneggiare la storia a modo suo: famosa la sua preveggenza sul tipo di auto usata per la strage Borsellino con cui anticipò di un giorno il risultato di una perizia tecnica.

La verità processuale, labirintica anch’essa, ci dice che il depistaggio c’è stato, ma non si sa bene perché. Il succo è che in una congerie di situazioni spesso grottesche si inventò un castello di falsità per trovare in fretta una soluzione qualunque e che il tutto fu agevolato dalla scarsa qualità professionale dei magistrati che ci lavorarono.
Poco importa se, al netto del mistero dell’agenda rossa scomparsa, nulla si è mai saputo di quali carte avesse con sé Borsellino il pomeriggio del 19 luglio 1992. E soprattutto non si sa ancora cosa gli inquirenti prelevarono quel giorno nel suo ufficio perché non fu mai prodotto un verbale di sequestro dei documenti. Di certo sappiamo che di quelle carte a Riina e compari non gliene fregava nulla.

Ascolta il podcast sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio

La foto è di Franco Lannino.

E vissero volgari e contenti

Sono a casa, costretto da un problema di salute. Fuori è bello, dentro è bello incasinato. Come incasinati sono stati gli ultimi mesi in cui i miei attributi sono stati limati al limite della frantumazione da personaggi inaffidabili e congiunture astrali che sembrano architettate da un negazionista in crisi di astinenza di chip sottopelle. Leggo i giornali, come ogni giorno: solo che oggi è un po’ presto per un non mattiniero come me.
Caffè, musica. Metto da parte un bel libro che mi ha fatto compagnia in una notte selvaggia, ma solo di lettura (ahimè) in questo momento.
Oggi, per via della limatura di cui sopra, me la prendo comoda e così sarà ancora per un po’ almeno sin quando il capo della mia Centrale Operativa Corporea non deciderà di togliere il limitatore di potenza alle macchine.
Plano sulla timeline social e atterro sulla notizia che è morto un caro collega col quale ho condiviso venti-anni-venti di Giornale di Sicilia, lui capo della Cronaca di Palermo io capo della Cronaca Siciliana, migliaia di riunioni, pagine, telefonate, discussioni, sigarette (lui fumava il sigaro), nottate di lavoro.
Si chiamava Nino Giaramidaro e non ho voglia qui di fare il suo panegirico anche perché dovrei raccontare una mezza dozzina di episodi esilaranti (e istruttivi) che lo videro protagonista e che oggi preferisco tenere per me. E poi c’è in giro una buona quantità di ricordi di altri amici e colleghi che rende omaggio all’uomo e al professionista.
C’è però qualcosa che mi colpisce. Un pensiero. Un pensiero catalizzato da Nino e dal suo non esserci più. E non è una questione di ricordi, ma di presente, di attualità.
La sua gentilezza.
Nino Giaramidaro era una persona gentile: non era uno che sbrodolava, anzi era spesso tranchant nei giudizi, ma era di buoni modi. Ed era il bersaglio preferito di un condirettore che lo trattava talvolta con deprecabile prepotenza. Lui non ha mai reagito con una parola fuori posto: assorbiva il colpo e dato che non era un buon incassatore ne portava i segni per lungo tempo.

Mi faccio un altro caffè e mi metto comodo davanti al computer. Apro un foglio di Word e scrivo. Scrivo quello che adesso state leggendo.

Diciamo spesso che la verità non esiste. Invece esiste, esiste eccome.
Però quando se ne va una persona gentile, un granello di verità si perde. Perché la verità esiste in contrapposizione alla menzogna, e se la prima può essere sia buona che meno buona, la seconda è perlopiù cattiva.
Se si perde gentilezza, per omeostasi etica e sociale, ci guadagna la malvagità quindi per effetto diretto la menzogna.

È così che decido di riaprire i giornali e di rimettere mano ai miei appunti di cassettista maniacale per trovare ciò che so già che troverò: a conferma del fatto che non sempre un pregiudizio è un aborto di ragionamento.
Atterro sulle cronache di Cateno De Luca, leader di Sud chiama Nord la cui sguaiataggine è lo specchio fin troppo lucido di una politica di volgarità e di violenza verbale che non merita troppe parole: come la bellezza è un principio fragile, la bruttezza è refrattaria al ragionamento, quindi risparmio pensieri e punto e a capo.

C’è la scenetta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni che si vendica della “stronza” datagli dal presidente della regione Campania Vincenzo De Luca: uno scontro al vertice del minimo gusto.     

C’è il reflusso acido della “frociaggine” di Papa Francesco: a conferma che il vento in chiesa non spegne solo le candele, ma anche certe fiammelle interiori.

C’è un ennesimo capitolo della saga che vede protagonista Gianfranco Miccichè, uno il cui massimo ragionamento politico verte sul “ce la possono sucare altamente”. Ora pare che il suo pescivendolo sia stato assunto come consulente per la pesca al Senato: a conferma che esiste anche una volgarità silenziosa del sistema, grottesca e paradossale.

C’è la storia dell’eurodeputato di Fratelli d’Italia Giuseppe Milazzo incluso tra gli impresentabili della Commissione parlamentare antimafia alle prossime elezioni europee. E anche qui l’effetto Giaramidaro ha i suoi effetti per contrappasso quanto a gentilezza. Uno dei più significativi atti politici di Milazzo risale al dicembre scorso quando l’esponente di FdI saltò fisicamente sul banco della presidenza del Consiglio comunale di Palermo, strappando il microfono dalle mani del vicepresidente Giuseppe Mancuso “per la mancata discussione del regolamento sulla movida, mentre le notti di Palermo venivano segnate dalla violenza”, scrive Repubblica. Insomma Milazzo nelle sue battaglie contro la violenza non è proprio un gandhiano (e mi viene l’urgenza di comunicargli, a scanso di equivoci, che Gandhi non è la marca di una pastiglia per lavastoviglie, quindi non gli ho dato del detersivo).

Ci sono altre notizie che l’enzima messo in circolo dalla scomparsa di una persona gentile mi colpiscono, ma a questo punto temo di arenarmi in una secca di pregiudizi dai quali sarebbe difficile tirare fuori un ragionamento non contundente. Non si può essere allo stesso tempo a favore della democrazia e tolleranti a lungo. Vorrei urlare di cacciare questi signori dal posto in cui si trovano, di non votare nessuno che non pratichi la gentilezza, di rifiutare ogni contatto coi protervi di potere. Però poi mi fermo e mi arrendo all’ultima riga, quella che segue.

La verità (come l’amore) non dipende dal giudizio, ma dalla decisione di sospendere il giudizio.

La fortuna di saper essere tristi

Tutti quanti abbiamo momenti difficili. E per non darvene uno a tradimento vi preavviso che questo post fa degnamente parte della categoria long form. Quindi leggete solo se avete tempo e voglia di mettere mano a un argomento che inesorabilmente ci riguarda tutti, ma altrettanto inesorabilmente è nascosto e/o mascherato da molti.
Premessa dello scrivente in nome e per conto dello stesso, a scanso di equivoci: parlare di difficoltà, di sentimenti urenti, di tristezza non significa necessariamente essere in difficoltà o avere le zampe impantanate nelle sabbie mobili della vita.
Si può, e si dovrebbe, discuterne senza remore, senza aver paura di disvelarsi o di schermarsi. Quindi io ci provo e mi tolgo subito il dente delle questioni personali: sono un Doc (da disturbo ossessivo compulsivo), ho avuto la fortuna di trovare una psicologa che mi ha illuminato e non disdegno di vivere appieno i miei momenti difficili. Inoltre, sbagliando, non condivido i miei problemi se non quando ho trovato una soluzione: non fatelo, è un atto di presunzione di cui aver vergogna.
Non sono mai stato un depresso, anzi la mia condizione vira esattamente verso l’opposto (e ciò non significa automaticamente che vada verso la felicità, eh).

Qualche anno fa la Pixar ambientò un cartone animato dentro il cervello di una ragazzina di undici anni. Ne venne fuori “Inside Out”, un’opera geniale e coraggiosa. Perché ci vuole genio per trasformare le emozioni umane nei personaggi di una storia. E ci vuole coraggio per rivendicare, tra queste emozioni, il ruolo fondamentale della tristezza, raffigurata come una bambina occhialuta, goffa e blu: blu, il colore dello spirito. Quante volte ci siamo sentiti inutilmente blu…
In pratica per buona parte del film la tristezza si accompagna alla gioia come un intralcio, una sabotatrice dell’ottimismo e della felicità. Ma alla fine la sua importanza viene riconosciuta.
Non è così nella vita vera, dove la tristezza è stata espulsa da qualsiasi discorso pubblico e privato. Trattata come un segnale di debolezza, una forma di sabotaggio.
Oggi come sempre il nostro sforzo quotidiano di giovani, vecchi, genitori, amici, figli, sopravviventi consiste nell’allontanare da chi ci è caro il fantasma della tristezza, quasi fosse una condanna a morte anziché un’occasione di crescita. È una questione culturale, frutto anche di una lunga epoca di imbonitori della politica che ci hanno sempre voluti pervasi da un entusiasmo ilare e beota. 
Per il pensiero comune e purtroppo dominante la tristezza è una iattura, è nemica dell’ottimismo nazionale, del negazionismo dei problemi, della sterilizzazione a uso social dei guai, insomma è un peso economico e sociale. In realtà basterebbe dare ascolto a un buon psicologo o a un’insegnante illuminata per rendersi conto che un essere umano incapace di accogliere la tristezza non è un essere umano, ma nel migliore dei casi un automa. Io la tristezza l’ho sempre vista come uno squarcio nel buio che ci permette di avere una visione delle nostre cose dall’interno, sotto una luce diversa, con una preziosa prospettiva. Talvolta mi sono rammaricato di non aver saputo essere triste abbastanza. Perché saper essere tristi significa essere consapevoli. E la consapevolezza è un buon grimaldello per le serrature dei momenti difficili.

Brevissima parentesi didascalica: ogni tanto serve, sennò discutiamo del sesso degli angeli. Oggi sappiamo che le emozioni fondamentali sono sette:
Gioia
Rabbia
Disgusto
Disprezzo
Tristezza
Sorpresa
Paura
Secondo gli psicologi servono a recapitarci dei messaggi. Come dei fedeli messaggeri, le nostre emozioni hanno uno spiccato senso del dovere: non accetterebbero mai l’idea di rinunciare alla loro missione. Quindi ogni volta che cerchiamo di intralciare la strada dei messaggeri, loro faranno in modo da trovarne una nuova: facendosi largo con ogni mezzo, scavando strade nuove, scavalcando muri e magari facendo qualche danno. Tutti abbiamo contezza di cosa significhi vivere una rabbia sempre più bruciante, oppure lasciare che una tristezza si tramuti, incontrollata, in un dolore sempre meno sopportabile.
Nel mio piccolo io adotto un metodo abbastanza semplice. Ogni volta che mi sto incasinando (e non immaginate quanto ciò accada spesso) cerco di riconoscere il messaggio, e soprattutto il messaggero, e di capire che minchia vuole.
Nei momenti difficili ad esempio ho decrittato che la tristezza incarna l’incontro tra il desiderio e i suoi limiti. E in particolare, spesso nel mio caso, non è l’esterno che in qualche modo delimita il desiderio, bensì è il limite stesso che è elemento costitutivo del desiderio. Quindi provare ad accettare la mia limitatezza aiuta in qualche modo a superare la tristezza. Ho detto provare, eh. Mica qui vendiamo le pozioni di Vanna Marchi.

E siamo alla parte più creativa del ragionamento: il rapporto tra tristezza e malinconia.
Victor Hugo scriveva della malinconia che è “la gioia di sentirsi tristi”. Non piace, ma è vero. A me non piace per niente, ma è innegabile che la malinconia genera creatività: non scriverei queste righe adesso se non fossi alimentato da una preziosissima malinconia, pur nella invidiabile serenità di casa mia.
Charles Baudelaire parlava di spleen: quel piccolo miracolo che si realizza quando la malinconia si traduce in una fertile produzione artistica e la sofferenza si trasforma in creatività.
Ecco, credo che solo se non viene scacciata subito, la malinconia può liberare questa energia ispiratrice. Poi c’è sempre un efficace termometro dell’umore facile da usare, ma questa ve la dico in un orecchio: quando siete felici vi piace la musica, quando siete triste capite i testi. Sssst!

Per finire vi riferisco di un’altra domanda che mi pongo quando il mio cervello rasenta il surriscaldamento: possibile che siamo prevalentemente chimica?
Qualche studio psichiatrico di cui ho letto (e di cui non trovo il link, mannaggia, ma fidatevi perché questa cosa l’avevo messa nei miei appunti di cassettista) è arrivato alla conclusione che un po’ di tristezza è utile alla nostra salute, mentre qualche altro, corroborato dalla nuda cronaca, ci dice che il mal d’amore può davvero uccidere.
Molti di noi conoscono il disagio o addirittura il dramma della depressione, pochi (io vorrei ardentemente essere tra questi) sanno leggere tra le righe del libro che scriviamo, giorno dopo giorno, con i nostri entusiasmi, le nostre incazzature, le nostre passioni e le relative delusioni. Siamo chimica, ci ricordano gli scienziati, siamo il frutto di un complicatissimo dosaggio istantaneo di ormoni, neurotrasmettitori, enzimi e chissà cos’altro. Dietro un sorriso c’è uno schizzo infinitesimale di serotonina. In una porta sbattuta c’è una mano dell’adrenalina. La visione biochimica delle emozioni mi ha consolato in qualche momento difficile, eppure mi ostino a valutare il calore di un abbraccio o l’incanto di un tramonto come qualcosa di estraneo ai composti del carbonio. Che la tristezza sia una tappa ineludibile nel lungo cammino verso la felicità ce lo insegnano i grandi artisti. Dietro un’opera memorabile c’è quasi sempre uno stato di insoddisfazione: uno scoppio propulsivo verso il meglio che si cerca e che non si trova. E – arrendiamoci – è questa tensione che ci regala il bello che non teme il tempo.

Soundtrack creata appositamente dalla mia amica Sarah

Angeli, demoni e manganelli

Nel caso delle manganellate agli studenti di Pisa e Firenze (ma anche negli altri, perché i manganelli rompono ossa in ogni tempo) oltre agli errori innegabili di chi ha picchiato ragazzi inermi, di chi ha stabilito le regole di ingaggio, di chi ha comandato la carica, di chi la difende e di chi la ispira, ci sono alcuni passaggi chiave per capire che se persino Mattarella si è incazzato la situazione è davvero grave.
Il problema infatti non è il singolo evento, che non è singolo, ma l’ambito. Che poi influenza i modi.

L’ermeneutica del diritto a manifestare ve la liquido in poche righe, giacché il tema è talmente inscalfibile e ampiamente spalmato sulle cronache da stimarlo come assodato (almeno tra noi). È giusto tutelare il diritto di dissenso, ma è anche giusto attenersi alle regole che garantiscono questo diritto: ergo se manifesto per la foca mancina non devo rompere le vetrine dei fochisti destrorsi, non devo uscire dal tracciato concordato con chi tutela l’ordine pubblico, e magari non devo inventare che la foca mancina è vegetariana quando invece quattro pescioni se li mangia.

Il mondo in cui si muovono i giovani oggi è molto diverso da quello in cui ci muovevamo noi, quando comunque le violenze dei poliziotti esistevano già da tempo (i cortei operai degli anni Cinquanta e Sessanta non erano passeggiate turistiche). Oggi i ragazzi vagano in una rarefazione sociale polarizzata in modo grottesco. Pensate alla vecchia distinzione tra destra e sinistra e guardate come appare oggi desueta.
I ragazzi di questi cortei non sono in bilico tra fascismo e comunismo, ma tra guerra e pace, tra il divanismo e l’attivismo, tra l’informazione e le fake news, tra professori illuminati e professori cialtroni, tra chi li gasa di videoclip e chi li rincoglionisce di stories, tra esserci e selfarsi, tra ragione e microchip, tra verità e passaparola.
Di fronte hanno uno Stato che è sempre meno sensibile alle oscillazioni del sentire comune, sempre più blindato nella sua intransigenza gretta e retrograda.
È fin troppo scontato che quando queste due entità vengono a contatto, detonano.
Anche perché dall’altro lato, in quello che un tempo era il palazzo del potere e che oggi è il potere del palazzo, vige l’egemonia della cazzata al servizio della prepotenza e dell’incultura.
Dire, come è stato detto, che si sta sempre e comunque dalla parte delle forze dell’ordine perché rischiano la vita per pochi euro al mese equivale a difendere chiunque guadagni poco e rischi molto a prescindere dalle minchiate che combina: insomma un operaio che sbaglia con la ruspa e abbatte una palazzina pretende che si stia con lui sempre e comunque. Per non dire dell’incommentabile Salvini che si tira fuori dal cilindro frasi decontestualizzate come questa.

Dopo le inaudite violenze del G8 di Genova si cambiarono le regole per evitare al massimo il contatto tra manifestanti e forze dell’ordine proprio per arginare gli abusi e per limitare la violenza di impeto. Oggi la sensazione è che l’impeto sia instillato da chi crede che la violenza sia l’unico modo di guidare una Nazione. È un concetto che ha avuto una sua evoluzione nel ventennio Berlusconiano dove però lì il pifferaio magico faceva ampio uso di fascinazione: insomma c’era della delicatezza nella brutalità dei temi e delle azioni.
Oggi no.

Diciamolo con chiarezza. Nessuna persona di buona creanza può tollerare che si inneggi ad Hamas, una banda di terroristi crudeli, o che si bruci il manichino che raffigura la premier. Siamo al famoso vegetarianesimo della foca mancina di cui sopra: bisogna aver cura di manifestare per una verità, non per una menzogna, anche se si è minorenni. Ed è bene che ovunque si spieghi, senza risparmiarsi, che Hamas è una cosa, il regime di Netanyahu è un’altra, la Palestina un’altra, Israele un’altra ancora.
Leggo appelli di insegnanti in difesa della libertà e della tolleranza. Il problema è che una buona parte rischiano di essere catene di Sant’Antonio al collo incipriato dei social.
La realtà è cruda e inequivoca.
Serve cultura. Serve informazione. Servono libri e dipinti. Servono cantori e scienziati, filosofi e storici. E servono menti da nutrire.

Il mondo migliore lo ha costruito l’arte ed è quello senza polarizzazioni, ma con sfumature, chiaroscuri, infinite scale di grigi. È dall’arte che abbiamo imparato la saggezza di un paradosso cruciale contro tutti gli squadrismi, i totalitarismi, i fascismi: esistono angeli all’inferno e diavoli in paradiso.

La libertà non è una preda

Settore long form, al confine tra la regione dei cazzi miei e quella della mobilitazione civile. Ieri a Palermo c’era un appuntamento delle Famiglie Arcobaleno alle quali sono particolarmente affezionato per motivi che qui è inutile spiegare.
Per loro ho scritto un breve monologo – recitato da Gigi Borruso per le parole, e da Fabio Lannino per le note – liberamente ispirato all’opera “L’altro” che andrà in scena al Teatro Massimo di Palermo, il 22 giugno prossimo.
Per chi non c’era, e per chi c’era ma ama pensare di non esserci stato perché riassaporare è gustare due volte (ah, che meravigliosa debolezza!), ecco il testo.

Avete presente l’estintore del supermercato, incorniciato nella sua vetrinetta col megafono e la scritta: “Usare solo in caso di incendio”?
Ci avete mai pensato che in realtà vi sta dicendo: “Minchia, ho detto solo in caso di incendio!”
Ecco, il concetto è quello.
Il problema del “tempo di pace” è che funziona solo in funzione dei “tempi di guerra” in cui è incastonato, quindi si porta appresso una vagonata di incomprensioni.
Domande.
È giusto pensare al peggio quando si sta benissimo?
Esiste una zona franca delle intenzioni?
Chiunque si dia dato la pena di sopravvivere sa che il filo sul quale ci muoviamo, da acrobati improvvisati quali siamo, è solido.
Che il vero problema è la nostra capacità di rimanere in equilibrio. E l’equilibrio è solo un artifizio metaforico che non garantisce un bel nulla: esistono persone infide e disequilibrate che se la passano infinitamente meglio di esemplari umani corretti e ottimamente bilanciati. Questo è il labilissimo confine tra ingiustizia e figata, tra religione ed epopea della bestemmia.
Quando ci sono problemi che non ci interessano, nel senso che manco lambiscono il nostro orticello, generalmente ci rifacciamo a una parte intermedia del nostro corpo, che non è né capo né piedi, né arto né vessillo: le spalle.
Alziamo le spalle.
Voltiamo le spalle.
E ci trinceriamo dietro alle cinque parole più pericolose del nostro universo.

Non
Può
Succedere
A
Me

Credere nel “non può succedere a me” è come comprare le azioni di una società di cui non si conosce il prodotto, come salire su una macchina del tempo che ha le marce bloccate.
In realtà le cose accadono a tutti, nessuno escluso, e quelli che si ritengono in salvo, o sono incauti e lo sanno, o sono defunti e non lo sanno.
Se io non ho figli e non ho intenzione di averne, se sono eterosessuale e strafottente, se sono omosessuale ed egoista, se sono bianco o nero, alto o basso, vero o falso, se mi piaccio come normale in un mondo anormale o come anormale in un mondo normale, posso misurare tutti i passi incauti che mi separano dal mio pregiudizio, posso alzare o voltare le spalle e gridare:

Non
Può
Succedere
A
Me

Ma una cosa sola non posso fare: usare la libertà come una preda.  
I custodi della tradizione con la T maiuscola, i detentori del libretto di istruzioni della vita con la V maiuscola hanno un problema col tempo.
Il tempo non passa invano. E rendersene conto è già un bel regalo che possiamo farci.
Loro, quelli del libretto delle istruzioni, del manuale Cencelli applicato al sentimento non sanno che comunque sia, qualcosa ci ha lasciato detto, il tempo.
Non sanno che non è vero che si stava meglio quando si stava peggio: quando si sta peggio ci vuole poco a sentirsi meglio e non c’è vergogna a spogliarsi delle solite, trite, visioni nostalgiche.
La nostalgia è il vizio dei pigri: i pigri usano il passato per riverniciare gli ostacoli che non sono riusciti a superare e spacciarli per buone intenzioni.
Ci hanno fatto credere che servono nemici per mostrarsi uniti: che sia famiglia, religione, coalizione politica.
Qui a Palermo abbiamo una grande fortuna che sta proprio nelle nostre contraddizioni. Viviamo in una città in cui accadono cose complesse e semplici al tempo stesso, e non c’è da stupirsi di questa mistura logica in salsa agrodolce perché complessità e semplicità sono categorie soggettive della nostra visione sociale. L’una non esclude l’altra. Come altre categorie meno soggettive: la munnizza e la cultura, il traffico e la libertà di manifestare, lo straniero e il nativo. Siamo terreno fertile per far germogliare la preziosa pianta delle differenze.
Bambini e amore. Servono anime nuove e sentimenti antichi.
Per dipingere un nuovo mondo non basta requisire tutti i pennelli e pasticciare qualcosa sulla tavolozza davanti alla folla plaudente, sui balconi del potere. Servono piuttosto una sana allergia alla noia e la felicità intellettuale di chi sa che l’unica uguaglianza alberga nelle diversità. In tutte le diversità.
C’è un’espressione molto in voga in questo presente storto dove, ironia della sorte, ci riempiamo la bocca di parole inutili come “intelligenza artificiale” (una cosa che non è né intelligenzaartificiale).

L’espressione è “Veri Genitori”, degna scempiaggine di chi confonde la biologia con gli affetti, la scienza con il sentimento.
Non c’è peggior forma di controllo (governativo e non) di quella costruita sulle bugie.
I bambini sanno benissimo che i “Veri Genitori” sono una scemenza di alcuni adulti che vogliono mettere le mutande alla loro felicità, senza sapere che la felicità è nuda, che la felicità non tollera finzioni e travestimenti.
Esistono solo bambini che crescono nell’amore e bambini meno fortunati: il resto è grottesca ipocrisia.
Ecco perché alzare le spalle e fottersene dinanzi a un diritto negato agli altri e non a noi, dinanzi a un’ingiustizia che non sporca il nostro tinello è un peccato grave (in religione per chi ci crede, o in cuor nostro, per chi un cuore ce l’ha).
Se non siamo in grado di amare, perché purtroppo la borsa dei sentimenti non ha sempre i cordoni allentati, si può sempre provare a godere di riflesso dell’amore degli altri per gli altri. Vietarlo per decreto è una forma di violenza strisciante che non riscatta nessuno, ma fa solo ostaggi innocenti.
Vi siete mai chiesti da dove deriva la prosperità?
Io un’idea ce l’ho: la prosperità deriva dall’uguaglianza e dall’istruzione. Dalla libertà di guardarci allo specchio che ci spia dall’anta dell’armadio, di leggere i libri che non abbiamo scritto, di ascoltare frasi che non abbiamo pronunciato, di visitare luoghi che non abbiamo conosciuto e di esplorare emozioni che abbiamo fatto finta di conoscere, di guardare l’altro che fa cose che tu non sai fare, che dà baci che tu non hai dato, che accoglie chi hai lasciato fuori.

La libertà non è una preda.

Long form

Le cose cambiano, lo sappiamo bene anche se ce lo diciamo raramente. Questo blog ha più di sedici anni (è più vicino ai diciassette) ed è una sorta di creatura che ho sempre cercato di trattare bene, anche perché grazie ai contenuti di queste pagine ho cambiato vita e/o lavoro almeno quattro volte.
Le cose cambiano, dicevo. Negli ultimi tempi, direi a partire dalla pandemia, ho notato che in molti lettori c’è l’esigenza di trovare qualcosa di più sostanzioso da leggere: come se non sempre la rapidità di un post potesse soddisfare la curiosità di chi ama il confronto, di chi coltiva il miracolo della curiosità. Analizzando i dati (ci sono vari strumenti per capire gradimento, distrazioni, insofferenze, eccetera) mi sono accorto che alcuni dei post più lunghi, quelli che richiedono un tempo di lettura superiore ai due minuti, sono quelli che restano tra i più graditi: restano, nel senso che c’è chi torna a leggerli, chi ci inciampa più volentieri.
Non l’avrei mai detto sino a quattro anni fa: la rapidità di esecuzione è uno dei pilastri della comunicazione via web, anche se nel blog c’è molto materiale che arriva dalla carta, dal teatro, dalla radio, dalla tv.
Per questo ho deciso di creare una sezione “long form” che troverete nelle “categorie” (qui a sinistra) nella quale sono raccolti questi contenuti di maggiore approfondimento, o semplicemente meno brevi.
Inoltre, presto, molti di questi post diverranno podcast in modo che li possiate ascoltare e non soltanto leggere: un vantaggio per chi ha poco tempo e per chi si annoia in auto, nel traffico o con un compagno di viaggio noioso…
Grazie a tutti e buona lettura.

Sedici

Arriva un momento in cui può capitare di aver bisogno di cambiare. Di cambiare tutto.
A me accadde sedici anni fa, nel modo più tranciante. A un certo punto mi resi conto che non ero più soddisfatto di quello che facevo, non mi divertivo più e anzi, a dire il vero, mi rompevo abbastanza le scatole per ogni giorno che il Signore mandava in terra. Decisi così la mia personale rivoluzione, una rivoluzione nella quale – va detto – fui molto fortunato giacché partivo, lancia in resta, con molte possibilità di fallire e addirittura di farmi male.
Nel giro di pochi mesi mollai un posto da viceredattore capo al Giornale di Sicilia (un posto di quelli ritenuti allora sicuri, ben retribuito), chiusi porte e portoni di ogni genere e finii a gambe all’aria. Vi dico solo che per una settimana dormii in auto, dato che non avevo più neanche una casa in cui stare.
Non sono mai stato ricco, provengo da una famiglia borghese ma di certo non ricca, quindi la situazione era abbastanza complicata. Fu così che una sera decisi di andare a casa dei miei genitori, fino a quel momento all’oscuro di tutto, e di metterli al corrente dei miei casini. Mi ero preparato al peggio, i miei mi avevano sempre ritenuto (almeno sino a quel momento) una testa calda ed ero pronto se non allo scontro, a sorbirmi una ramanzina.
Invece andò diversamente. E credo che lì, quella sera, tutto cambiò davvero.

Non appena cominciai a raccontare degli sfaceli che deliberatamente avevo scelto come estemporanea filosofia di vita (perché accade che le migliori scelte siano quelle che a prima vista sembrano le peggiori, ma lo veniamo a sapere sempre troppo tardi) mio padre aprì una bottiglia di vino mentre mia madre si mise ai fornelli. Eravamo tutti e tre in cucina ed il loro modo di ascoltare fu un misto di attenzione e cura; volevano fare con semplicità quello che sino ad allora non gli era riuscito facile, prevalentemente per colpa mia, cioè darmi una sensazione di sicurezza.
Fu così che in una sera feci il più importante giro di boa della mia vita.
Decisi di farmi una casa tutta mia, niente più affitti, convivenze in proprietà altrui, falso godimento della provvisorietà. Volevo mettere radici in un mondo in cui vivere soddisfatto. Imparai mestieri nuovi, grazie sempre alla scrittura: scoprii che c’erano pochi ghostwriter in Italia e riuscii in pochi mesi a trovare lavoro in un paio di importanti gruppi editoriali; scrissi da perfetto fantasma di tutto per tutti, dalle radio alla carta stampata; condussi una rivoluzione web in un paio di periodici nazionali; scrissi qualche libro e così via.
Ma soprattutto affrontai la prova delle prove: vivere a casa dei miei genitori, con i miei genitori, per sei mesi. In pratica a 43 anni mi ritrovai ragazzino, alle prese con riti che avevo dimenticato, con antiche usanze domestiche (tipo che si pranza e si cena sempre a una certa ora). Dovetti riprendere confidenza con la cura culinaria di mia madre che, pensandomi sempre denutrito nonostante la testimonianza inoppugnabile del girovita, alle 8 di mattina assieme al caffè serviva il menù della cena per il quale si era messa ai fornelli già alle 5 (perché certe cose se non le cucini all’alba non sono buone…). Imparai a condividere i cazzi miei con mio padre, il quale con amorevole candore riteneva naturale sedersi accanto a me quando ero al computer e commentare tutto, ma proprio tutto, ciò che scrivevo mentre lo scrivevo: soprattutto le cose più personali (la curiosità spudorata deve essere un tratto genetico). Insomma ero un figlio ritrovato e mio padre, affamato di storie, esercitava legittimamente il meraviglioso diritto all’invadenza affettiva.

Questa storia ha un paio di passaggi che, ancora oggi, mi sembrano irreali: sapete, quei ricordi che col tempo diventano un film e vivono per decenni in un limbo tra fantasia e realtà…
Una mattina, la prima in cui mi svegliai in quella casa nella rinnovata veste di figliol prodigo, rimarrà memorabile negli annali della mia famiglia.
Mi alzai ed ero solo poiché i miei avevano programmato una gita fuori porta. Poco male, mi dissi, così mi ambiento senza rompere le scatole a nessuno (ovviamente i miei sensi di colpa erano alle stelle). Feci colazione con vista sul mare, poi stancamente fumai la prima sigaretta. Dopo andai a lavarmi i denti nel bagno dei miei. Mentre agivo di spazzolino sentivo qualcosa di strano, ma pensai che era colpa di quella sigaretta prematura (solitamente non fumavo mai di mattina, ma in quei giorni ero incasinato, preoccupato, scazzato e fumavo il fumabile sempre e dappertutto). Quando mi accorsi che l’impasto tra i denti aveva assunto una preoccupante consistenza oleosa decisi di inforcare gli occhiali e presi il tubetto.
Crema per i piedi.
Così imparai la prima regola del manuale del figliol prodigo più figliol che prodigo: casa che vai stranezze che trovi e più non dimandar.
I miei genitori nella loro categorizzazione delle cose tenevano in buon conto quella dei tubetti, a prescindere da ciò che essi contenevano. Quindi la crema per i piedi stava insieme al dentifricio, e non ho mai avuto l’opportunità – perché da allora misi attenzione (e occhiali) prima di compiere un’azione in cui c’era da spremere un contenitore – di verificare altre coesistenze balzane: chissà, con un po’ di impegno un giorno avrei spalmato della maionese per contrastare le occhiaie o avrei usato del Lasonil per lucidare le scarpe. Comunque ci misi un’ora per sciacquarmi la bocca e cinque sigarette per riacquistare lucidità. Poi, data la bella giornata, decisi di mettermi al sole.
Sparai musica a palla dalla radio dell’auto parcheggiata vicino, e chiusi gli occhi.
Uno spruzzo in volto.
La sensazione di qualcosa che viene giù dal cielo.
“Cazzo, piove!”
Apro un occhio ma il sole è abbagliante.
Altra roba addosso. Frammenti umidi, sempre di più.
Non era pioggia. Ma… sardine.
Sì, sardine. O comunque pesciolini che venivano giù dal cielo.
In un paio di minuti dovetti fuggire perché ero tempestato da una pioggia di animali (io, vegetariano!).
Ci misi un bel po’ a razionalizzare come accade quando ci si trova dinanzi a un evento che si annuncia figlio (indegno) del paranormale.
Alzai gli occhi e vidi una battaglia di gabbiani che si disputavano qualcosa proprio sopra la mia sedia a sdraio. Capite bene che il passaggio dal “tubetto selvaggio” al “piovono pesci” fu traumatico. E soprattutto indelebile.

Tutto ciò accadde nel primo giorno della mia emancipazione da una vita insoddisfacente. E, ne sono certo, ci fu una “mano de Dios” per darmi una lezione: della serie impara a vivere, non ti meravigliare troppo per ciò di non sai e non rompere il cazzo con ciò che credi di sapere.
Da lì la convivenza coi miei fu una discesa. Mi abituai a discutere di pasta coi broccoli arriminati e di peperoni ripieni appena sveglio, e a rispondere a mio padre che all’una di notte, allarmato perché non ero ancora rientrato a casa (a 43 anni!), mi telefonava e affettuosamente si diceva preoccupato: “Tranquillo pa’, sto bene. Tra poco torno”, biascicavo da un pub la cui unica attrattiva era la birra era che costava poco.
La cosa che ho imparato da quell’esperienza – che qui ho riassunto togliendo il 90 per cento degli aneddoti (alcuni dei quali mi riservo di raccontarvi) – è che non è mai troppo tardi per tornare sui nostri passi, che i pregiudizi non sono giudizi anticipati ma cazzate definitive.

Soprattutto mi preme dirvi perché vi ho raccontato questa storia.

Sedici anni fa, in quel ciclone di follie, mi inventavo una casa virtuale mentre costruivo una casa reale.
Esattamente sedici anni fa nasceva questo blog. Con una consapevolezza: che avrei vissuto giorni da radice e giorni da foglia in un’esistenza, virtuale e reale, che è sia albero che vento.
Per ora, buon vento.

Siamo zaino

Siamo zaino e portatori di zaino. Viviamo per caricarne uno e svuotarne un altro. Lo teniamo in spalla ma ci siamo anche dentro. Perché uno zaino è casa, e una casa è vita.
Chi ha mai viaggiato con uno zaino con dentro tutto tranne che le mura e il letto di casa, conosce il livello di amore e odio che si instaura con un manufatto del genere. Parliamo di una cosa che ti metti in spalla come una croce, che ti trascini come un peccato originale, che proteggi come un tabernacolo.
Per la maggior parte di quelli della mia generazione lo zaino è protesta, controcultura, passato che non ritorna. Per quelli che sono venuti dopo è perlopiù un attrezzo desueto, quasi da barboni o comunque una cosa poco pratica, poco igienica, da tenere nel ripostiglio.
Per me invece – e per un manipolo di altri viaggiatori di ogni latitudine generazionale – lo zaino è un raro esempio di simbolo che diventa catalizzatore: libertà è la parola che mi viene, e non so se a voi ne viene una migliore (minchia, meglio di “libertà” cosa c’è nella vita?).
Ora che la mia porzione di Francigena è terminata ho chiare alcune cose.
Innanzitutto che la mia esperienza con questo cammino italiano è conclusa. La Francigena è un itinerario di persone più che di luoghi, è bistrattata da chi si occupa di turismo e cultura, ed è bellissima malgrado tutto. Ha passaggi di traffico pericolosissimi, ha Comuni che se ne fottono delle sue potenzialità, ha tappe dove non c’è nulla da mangiare e da bere in agosto mica a dicembre. Ma ha soprattutto un patrimonio umano pazzesco, tanti piccoli centri arroccati in posti impossibili, un campionario di ospitalità ineguagliabile, un assortimento di storie, sacrifici, scommesse che diventano tesoro non appena varcano la soglia del ritegno familiare, della discrezione paesana. Io mi sono immerso, per delicata volontà dei miei interlocutori, in storie memorabili. Ho camminato nel buio della notte senza luna senza mai aver paura di perdermi e ho goduto di una pizza nel posto più improbabile per una pizza, ho costeggiato ettari di terra coltivata a pomodori e ne ho mangiato il giusto per rimanere al di sotto della quota umana possibile, ho trovato chi voleva ascoltare le mie storie in una piazza improvvisata (che gioia, che emozione!) e chi invece voleva raccontarmi le sue all’ombra di un castagno, ho scalato con fatica l’ignoto e mi sono confessato con sincerità con ignoti (più difficile la seconda).
Poi con la mia amica Sarah (la trovate qui) abbiamo imbastito, nei rari momenti di connessione social, un parallelismo di Cammini: io sulla Francigena, lei sul Cammino Portoghese. E lì ho stravolto la mia bibbia sociale applicata a queste cose. Lei che è molto cattolica, e altrettanto femmina, va in chiesa con la naturalezza con cui va dal parrucchiere. Che, se ci pensate, è un bel messaggio: non è mai troppo tardi per una bella messa in piega dell’anima. “Perché ‘sta storia che la pellegrina deve essere pulciosa deve finire…” dice, e lì ci sarebbe da ricostruire tutta un’iconografia del sentire comune soprattutto della sinistra italiana, con ampia licenza di metafora.
Nella conclusione del mio cammino oggi ho affrontato una salita tremenda – quasi sette chilometri di scalata, più che salita – e da qualche migliaio di chilometri lei ha confermato a proposito dei suoi dislivelli: “Ho visto più bestemmiatori su queste salite che allo stadio” ha scritto dal Portogallo. Conoscendola, so che dio non smentirebbe e, magari, convocherebbe il suo CDA in sessione estiva.
Di questo cammino mi resta, a parte la felicità di tutti queste centinaia di chilometri (manco li ho contati), la consapevolezza che col sapone di Marsiglia ho lavato tutto e di tutto, tranne che i denti. Che siamo abituati a detestare le zanzare solo perché non conosciamo il potere demoniaco delle formiche e soprattutto delle mosche. Che con certe temperature nell’estate padana (ed era il caso di fargliela fare a Bossi e Salvini ‘sta Padania a patto che col caldo restassero tutti confinati nella loro bella repubblica indipendente/rovente), ti stupisci di scegliere se l’ultimo goccio della borraccia deve andare sulla testa rovente o nella gola arsa. Che, se provi a usare Google Maps cedendo alla pigrizia tecnologica anziché fidarti delle mappe su carta, nella maggior parte delle volte finirai in un sentiero cieco, meritatamente sperduto.
Insomma ridiamo, scherziamo, rubiamo tramonti a posti che abbiamo visto di striscio, citiamo autori che mai abbiamo letto, ci impadroniamo di musiche che non conosciamo, usiamo “Easy” dei Commodores per le storie di amore senza sapere che la canzone parla di un amore di cui l’autore si è finalmente liberato, e via condividendo. Alla maggior parte di noi di queste cose non gliene frega niente.

Ecco perché alla fine di questa cronaca – che è sì telematica ma soprattutto umana, ergo analogica – mi piace pensare che siamo zaino e portatori di esso. Perché il giorno in cui ci sarà il liberi tutti, senza zaino non si salverà nessuno.

10-fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Katia (e non è una donna)

Questa è la storia di una vita, ma non basta una vita a raccontarla. Perché è la storia in cui una vita si incrocia inevitabilmente con un’altra, con un’altra ancora e così via: figlia mille rivoli di situazioni, mille deviazioni da esplorare, mille bivi da affrontare, mille e mille squarci di umanità che nasce, cresce e muore senza mai saziarsi di un sentimento, che sia odio o amore, invidia o altruismo.
È una storia che provo a scrivere dal 2007 e che è ferma, pressoché completa, in una cartella del mio computer che si chiama “Katia”.
“Katia” non è il nome di una donna, né di un uragano, né di un virus cibernetico.
È il nome di un bar. Un bar della Palermo degli anni ’70 che stava dietro casa mia, nel quartiere Resuttana San Lorenzo (di cui ho narrato proprio quest’anno qui).
Vi ho più volte parlato del mio cassettismo, cioè di quella mania di scrivere e conservare, ritagliare cose scritte da altri e conservare, imbastire idee e conservare, che mi inscrive contemporaneamente in due gironi di moderni dannati: quello dei parsimoniosi delle emozioni e quello degli inconcludenti tout court.
Mi è tornata in mente oggi, questa storia (anche se mai se ne era andata per i fatti suoi), quando ho appreso della morte del più caro dei miei ex amici. Sono andato a cercare nel ripostiglio tra le foto, impolverandomi le gambe con i vecchi album, distendendo tra le mani carte spiegazzate dal tempo. E poi, ripresomi da questa operazione sentimentalmente analogica, ho riaperto il file della famosa cartella “Katia”.
In quel preciso momento ho capito che almeno per una volta dovevo vincere il mio cassettismo e tirare fuori lo scheletro di questa storia. Solo lo scheletro perché se non basta una vita per raccontarla, figuriamoci un blog. Ora scrivo questo post avvertendovi che è più lungo del solito e che non mi offendo se lo abbandonate adesso ma se sbadigliate durante, sì.

La Palermo degli anni ’70 non era soltanto la Palermo del “sacco” edilizio della mafia, dei delitti impuniti e delle censure ai manifesti dei jeans, era anche la Palermo delle comitive oceaniche.
Noi stavamo al Katia, appunto. Ed eravamo migrati lì, davanti a quel bar anonimo e diciamolo anche un po’ scarso, perché c’era un grande marciapiede e perché la strada non era centrale, quindi garantiva il giusto riparo alle attività lecite (più o meno) dei ragazzini.
Il nostro era un gruppo stratosfericamente assortito. C’erano il figlio del professionista e quello del mafioso, c’erano il fighetto benestante e il poveraccio dignitoso, c’erano i fighi e gli sfigati, c’erano drogati e virtuosi, c’erano musicisti e gli sciatori (sì, sciatori come vi ho raccontato qui). Tutti insieme senza sussulti.
Perché il succo nobile della storia è proprio questo. In questo melting pot di anime più o meno inquiete non c’era spazio per i pensieri inutili, per i rovelli che non fossero benzina emozionale per il gruppo. Se uno sapeva fare una cosa, tipo andare sullo skateboard, stappare la Coca Cola coi denti, fare lo slalom speciale sullo “Sparviero” di Piano Battaglia, impennare con la Vespa, raccontare barzellette, la faceva e nessuno – ripeto nessuno – lo sminuiva. Perché era parte del servizio di consolidamento della comunità. Lì, davanti a quel bar assolutamente inutile dove nessuno di noi comprava niente.
Anzi, chi aveva una specializzazione veniva iscritto in una specie di sottogruppo: io ad esempio facevo parte di tre “commissioni”, sci, skate, impennate e stavo fuori in modo tassativo da barzellette e, tipo, calcio. Ma mi andava bene così. Perché c’era un criterio di valorizzazione democratica perfetto.

Il succo meno nobile della storia è nella narrazione trasversale che una narrazione vera impone. Così come i bambini sono crudeli, gli adolescenti sono traditori.
È nella loro natura, nell’imposizione biologica del loro stesso divenire. Dell’infanzia per fortuna poco ricordiamo, per l’adolescenza invece il discorso è diverso. Soprattutto per un cassettista che ha una storia dentro che spinge come un calcolo renale, con relativo dolore.
Noi ci tradivamo con gioiosa leggerezza. Non solo con le ragazze (e le ragazze coi ragazzi… allora non ci rompevamo i coglioni con queste parità di genere stentoree), questa è la parte più banale tipo “Tempo delle mele”, bensì con l’incoscienza di voler un panorama sempre più ampio, con la voglia di uscire da quel budello di quartiere, con la speranza di liberarci dal gioco di eterni comprimari (la comitiva era la culla potenziale del pari merito immeritato) e diventare finalmente protagonisti. In fondo eravamo inconsapevolmente figli della filosofia aberrante dei “6 politico”. E a noi di una sufficienza non ce ne fotteva niente.
Così ci fu quello che sposò il lavoro a tempo pieno, quello che deragliò nella droga, quello che si mise a caccia di latitanti, quello che lo aiutò dall’interno, quello che bluffò e ce la fece, quello che partì e finse di ritornare ricco, quello che impegnò beni non suoi, quello che rise anziché piangere e quello che spergiurò vendendosi gli affetti più cari. Tutti i colori del tradimento in un patto non scritto di eterna fedeltà stilato all’ombra di quell’insegna brutta come un bar di periferia.

Quando nel 2007 iniziai a scrivere questa storia, la maggior parte dei protagonisti erano in vita o comunque galleggianti. Mettendo insieme realtà e fantasia mi resi conto che la somma di tutti questi deragliamenti era la cifra di una generazione.
Col tempo, negli ultimi quindici anni, molte di queste sensazioni ve le ho trascritte in queste pagine: del resto non a caso questo è il blog di uno che “ha vissuto sei-sette vite sempre sbagliando da solo”. Oggi scommetto più sulle ultime tre parole che sulle precedenti poiché non sono un gatto e i conti da pagare si affastellano sul tavolo della mia esistenza anagrafica.
Però sono certo che c’è una forma di eroismo persino nelle anime qualunque, sopravvissute agli abusi della cronaca di quartiere e alla violenza sociale degli anni ’70. Sta tutta nella capacità di guardare alle differenze con occhio anacronisticamente umano. Noi eravamo tutti diversi in quella adunata di anime capellute e strascicate, e mai questa diversità fu un ostacolo.
Ancora oggi gli amici sopravvissuti a quella epopea sociale sono ben stratificati nel tessuto connettivo di questa città, alcuni stanno altrove, altri non hanno mai abbandonato le loro difficoltà e altri ancora ne hanno incontrate di nuove, drammatiche e impellenti. Alcuni ce l’hanno fatta, altri si sono arresi, umanamente e senza obbligo di vituperio. Io sono un fortunato e ogni volta che incontro un amico di quei tempi lo abbraccio con la forza di una disperazione che avverto solo io: come dire, grazie di avercela fatta, non era scontato in un’epoca di citofoni scassati e telefoni a disco.  
Col tempo che passa siamo più deboli, ma la nostra forza sta nel capire – e non è facile – che nella spiaggia della nostra memoria un ricordo non deve essere un granello di sabbia nell’occhio, anche se la lacrima scende lo stesso.

Per questo, anche per questo, la storia del file “Katia”, che non vi racconto, finisce qui.

Il futuro se ne fotte del bilancino

Non potremmo concludere la nostra riflessione sulla rivoluzione obbligata del futuro senza parlare dell’informazione e della politica. Due argomenti che, in piena epoca di qualunquismo destrutturato e di superficialità al potere, destano sbadigli se non accoppiati a improperi, maledizioni e slogan manettari. Ma proviamoci.

Il grande errore dell’informazione negli ultimi due decenni è stato quello di cercare di domare la realtà. Che detta così sembra una cosa che ha a che fare con il sacrosanto dovere di stare alle calcagna della cronaca. Invece è diverso. Le aziende editoriali italiane non si sono dimostrate capaci di offrire una proposta flessibile, non sono state in grado di declinare il prodotto nelle infinite versioni a disposizione. Prendete il rapporto tra carta e online. Ci sono giornali che per salvare il cartaceo hanno sacrificato il loro contributo sul web: una follia peraltro perpetrata da anni in redazioni in cui i siti sono stati affidati a service o a collaboratori di scarsa qualità, quasi come se si trattasse di materiale di risulta. È un tema sul quale in queste pagine si dibatte da troppo tempo, quindi la faccio breve.
Il futuro del giornalismo è tutto nel saper guardare oltre la cronaca: e questo va bene come slogan.
Nel cogliere la rarefazione degli attimi in un fatto e nell’analizzarla come si fa con un video al rallentatore: e siamo più dentro la questione, no?
Ma affondiamo la lama.
Il futuro del giornalismo è tutto nel sottrarre una quota di tempo alla cronaca, quindi nel non dimenticare ciò che è stato ieri e nel non sforzarsi in vaticini fatti a pelle magari sulla scia dell’ennesimo sondaggio (e i sondaggi sono quanto di più distante ci possa essere dal futuro). Nel togliersi dalla testa ogni velleità di controllo delle masse (il “controllo delle masse” ricorda più un film di Woody Allen che un programma politico-editoriale) e nello sposare con orgoglio una forma di narrazione: soggettiva, parziale, non equidistante.

Il futuro se ne fotte del bilancino, le rivoluzioni si fanno con gli squilibri, cazzo. E di squilibri culturali, di scontri di idee, di collisioni di proposte c’è bisogno in quest’era di finti dibattiti, in cui la scelta è prevalentemente tra una constatazione di ciò che è reale e un anelito negazionista, tra un’ovvietà (però reale) e una palese cazzata.

Infine siamo alla politica.
La politica è il terreno di coltura di tutto questo. È il punto di partenza e quello di arrivo, è il battesimo e giorno del giudizio. Anche qui il fattore tempo conta. In politica la nostalgia è sconsigliata dato che il passato ha sempre una brutta sorpresa per chi vuole scavare. Ma manco il futuro scherza. Le recenti cronache ci insegnano che nemmeno il trito “largo ai giovani” funziona più: in Italia abbiamo deputati e ministri imberbi che sono riusciti a fare più casini dei vecchi democristiani incatramati di convergenze parallele e di polvere massonica.
Perché? Perché conta la visione, anzi la visuale, anzi la vista a corto raggio. Perché la rivoluzione obbligata del futuro dà al futuro mandato pieno per giudicare: e per arrivare al futuro è vincolante dichiarare che il presente è un investimento che può avere costi altissimi.
È come costruire una metropolitana in una città dalla mentalità medioevale (ce ne sono, uh!): anni di scavi, sacrifici per i cittadini, disagi tremendi, polvere, clacson, soloni urbanisti, cialtroni urbanisti, cialtroni e soloni senza specializzazione. Si paga oggi per ciò che servirà domani. E la verità è che il politico che si impegna a prendersi i fischi e gli improperi per quei lavori si sta curando del futuro di quegli stessi cittadini che lo maledicono. Ma è complicato da spiegare se non esiste una mentalità che inquadra le cose nel loro divenire e le fotografa e basta.

È la politica che ci dice chi siamo, non viceversa. Il movimento più avveniristico che la sorte ci abbia elargito, proprio in questi giorni, si è arreso dinanzi alla più antica delle cause di separazione, i soldi. Ecco il Movimento 5 Stelle è l’esempio di come non si fa, quando si parla di futuro. Perché è un fenomeno costruito sulle peggiori (e pericolose) illusioni: che una cosa nuova sia ontologicamente migliore; che la tecnologia al servizio della democrazia sia una garanzia di qualità; che il sapere sia una palla al piede per volare verso il domani.
La rivoluzione obbligata del futuro parte dove finiscono le certezze, anche fondate, dietro le quali ci siamo messi al riparo sino a oggi.
Non è una scommessa, è una scelta consapevole. Soprattutto non si fa a piccoli passi, ma con falcate decise. Non serve coraggio, ma conoscenza. E consapevolezza che i soliti noti faranno le solite cose. Gli altri – inclusi quelli che sbaglieranno – faranno cose interessanti.

Il futuro è un delizioso mostro che si nutre di cose interessanti.        

3 – fine

Prima puntata.
Seconda puntata.