Non ci fu niente

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Quindi questo depistaggio non fu manco roba di quattro amici al bar. Ed è un peccato che l’ex questore La Barbera e l’ex procuratore Tinebra siano morti senza veder riconosciuta la storica importanza del loro operato con adeguata medaglia di innocenza. L’ennesima innocenza in quella che credevamo fosse una nefanda macchinazione e che invece, stando alla giustizia italiana, è solo un’illusione ottica. Forse, di questo passo, potremmo scoprire che manco i morti erano morti e che il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta non sono stati dilaniati da un’autobomba, ma semplicemente inghiottiti da un buco spazio temporale di Stranger Things. Lo stesso buco che ha risucchiato, annullandole, le responsabilità dei magistrati coinvolti in questo gioco di prestigio – dove dal cilindro si tirano fuori pentiti come conigli – salvando però le loro carriere.

Alla fine scoprimmo che nessuno depistò o se lo fece fu a fin di bene: per porgerci una verità semplice, comoda, prêt-à-porter. Lo stesso Scarantino andrebbe ringraziato per lo spirito di sacrificio con cui ha interpretato il ruolo del provetto pentito: una via di mezzo tra un pupo di Mimmo Cuticchio e l’”Allegro chirurgo” che dove lo tocchi suona. Insomma tutti i protagonisti del depistaggio della strage di via D’Amelio, presenti o assenti, prescritti o coscritti, con distintivo o senza, vanno omaggiati per lo spettacolo avvincente e per la passione con cui continuano a recitare anche a show terminato. Purtroppo i morti non possono applaudire, ma restano i parenti delle vittime a sbracciarsi per loro. A brancolare in una vicenda di cui non gliene frega niente a nessuno, nel mainstream che elargisce successi di critica e di pubblico a chi nega la realtà e che stronca chi la afferma.
Non ci fu niente.

Via D’Amelio e la verità monca

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

È una sgradevole sensazione quella che ci prende quando ascoltiamo parole appassionate come quelle del pm Luciani che al processo di Caltanissetta tiene la sua requisitoria contro i poliziotti accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. È sgradevole non solo perché l’idea, la sola idea che uomini delle forze dell’ordine abbiano tramato per deviare l’inchiesta sulla morte di loro colleghi è urente come una coltellata in un corpo già ferito. Ma anche perché ci ricorda che quella che si sta ricostruendo con un ritardo inammissibile, proprio nel trentennale quell’eccidio, è una verità monca. Chiediamocelo senza infingimenti, come del resto fa da anni Fiammetta Borsellino: è mai possibile che il più grande depistaggio d’Italia sia stato orchestrato da quattro poliziotti senza che nessun magistrato si sia accorto di nulla? O meglio: è mai possibile che chi doveva controllare la regolarità delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia non lo abbia fatto e oggi se la passi liscia, senza manco una ramanzina?

Il sistema che ha mandato in tilt le indagini sulla strage Borsellino per 16 anni e che ha condizionato trent’anni di processi non può dipendere esclusivamente dalla libera iniziativa di un manipolo di uomini dello Stato: ce lo dice la logica. La realtà processuale che certifica implicitamente un “liberi tutti” per quei magistrati che potevano fermare in tempo le mefitiche panzane di Scarantino non può bastare per sanare la sete di verità dei familiari delle vittime e di tutti gli italiani che hanno a cuore la certezza del diritto: ce lo dice la buona creanza.
Via D’Amelio ci insegna che un megafono non parla da solo. C’è sempre una voce dietro. E finora ci hanno voluto far credere che a parlare siano stati solo i fantasmi.

Falcone e le illusioni da evitare

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

In questo 23 maggio che sa di primavera sociale, di luce che allontana il buio, di vita da riabbracciare dopo i patemi del Covid, Palermo si sveglia immersa in una mostra che vuole ricordare altri inverni, altri tempi bui. I murales e le installazioni del progetto di memoria “Spazi Capaci” è un moltiplicatore di simboli: opere simbolo in luoghi simbolo in un giorno simbolo. Nel ricordo delle vittime delle stragi di Capaci e via d’Amelio i volti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino veglieranno sulle strade che portano all’aula bunker. L’opera, “La porta dei Giganti” di Andrea Buglisi, prevede due enormi ritratti su parete, uno che è già piazzato sulla facciata di un palazzo in via Duca Della Verdura, l’altro che sarà realizzato in estate su un edificio in via Sampolo. A Brancaccio, in quella che è stata per anni una periferia urbana e di legalità, c’è il polittico urbano “Roveto Ardente” di Igor Scalisi Palminteri che ritrae don Pino Puglisi e un enorme  fiammifero spento che “ha appiccato il fuoco eterno della vampa del coraggio”. In via Notarbartolo, davanti all’Albero Falcone, la statua di Peter Demetz intitolata “L’attesa” rappresenta una giovane donna che aspetta: il ritorno a casa di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, il compimento di una qualche giustizia terrena, il riscatto di una terra che pure disprezzò i suoi simboli, quando ancora la distrazione civile era un modo di vivere al passo coi tempi.

E poi i cani dell’aula bunker dell’Ucciardone. Un’imponente installazione di Velasco Vitali dal titolo “Branco”, con 54 cani a grandezza naturale, in ferro, cemento e persino uno in oro ci ricorda che i simboli non si giudicano, al limite quando si fanno arte si recensiscono. E non è questo il momento di interrogarsi sull’efficacia del mood dell’artista, ma di trovarci un’allegoria, un link, uno spunto di riflessione. O almeno di provarci.

In una terra dominata per anni oltre che dalla mafia, da un’antimafia pubblicitaria che ragiona per spot e slogan e che ripropone sempre le stesse messe cantate di una resistenza immaginaria, un coinvolgimento così totale dell’arte è una buona notizia. Tornano i lenzuoli – c’è l’immagine stilizzata dei due magistrati uccisi realizzata dai laboratori di Brancaccio del Teatro Massimo che è stata esposta in venti luoghi di cultura italiani – ed è un appiglio per la memoria. Ventinove anni fa il movimento dei drappi bianchi nacque da un volantino, altro che social, è funzionò. Forse perché c’era un contesto drammaticamente forte, forse perché i circuiti analogici della coscienza civile non risentivano di certe vacuità della partecipazione digitale: allora per esserci bisognava esserci e basta, niente clic e like. Oggi la rarefazione dell’emergenza mafiosa, che c’è ma non si vede, che trasuda ma non allaga, alimenta le illusioni. Che tutto sia passato. Che i simboli servano solo a ricordare. E che l’esercizio della memoria ci assolva dalla nostra disattenzione quotidiana.
Ecco, l’arte serve a questo: a ricordarci non chi siamo, ma chi diventeremo.  

Borsellino e la storia senza storia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Non si può chiedere alla magistratura di (ri)scrivere la storia: del resto quando si è pensato che la vera storia d’Italia dovesse essere narrata nei verbali di polizia il risultato è sempre stato pessimo. Ma la vicenda del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio impone una piccola eccezione. Ai giudici che, nel dedalo di competenze incrociate e di indagini infinite, hanno dipinto un quadro in cui gli unici colpevoli sarebbero quattro poliziotti mai sgamati da nessuno e sopravvalutati da tutti, andrebbe chiesta una parvenza di idea su cosa è realmente accaduto all’indomani dell’eccidio in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Insomma da anni agogniamo una ricostruzione plausibile – laddove il termine “plausibile” certifica la nostra impotenza dinanzi a una congerie imbarazzante di menzogne e mistificazioni – e non verità insulse e smozzicate. E da anni sbattiamo contro un muro narrativamente illogico: perché se fosse un film nessuno sceneggiatore si rischierebbe a firmare una trama che parte tragica e infischiandosene del plot finisce esilarante. Qui non ridiamo solo per rispetto ai morti e alle loro famiglie, ma che un’intera Procura sia rimasta all’oscuro di uno dei più gravi depistaggi dell’Italia repubblicana e che non servano ulteriori indagini per scoprire ciò che è rimasto tragicamente nascosto, strappa un sorriso amaro. Quindi serve una storia, magari una qualunque, per trovare un senso a questa beffa. Una storia in cui chi sbaglia paga e non viene premiato, in cui chi è distratto è punito e non promosso, in cui chi è tenuto a controllare e non lo fa non se la cavi con un’alzata di spalle. Una storia che almeno abbia rispetto di chi la ascolta.

Andate al post scriptum

Quando ho saputo della richiesta di archiviazione della Procura di Messina nei confronti dei magistrati accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio, come d’istinto sono andato a fare una ricerca nei miei archivi. E mi sono perso. Zigzagando tra articoli, libri, opere teatrali, interventi televisivi e affini  mi sono ritrovato, esausto, con un senso di vuoto.
Da anni cerco di capire cosa veramente accadde a ridosso delle stragi del 1992. Per questo, vincendo la mia detestabile vocazione solistica del mestiere (e combattendo contro una certa indole di cui non vado fiero), mi sono fatto accompagnare e in alcuni casi guidare in questa missione impossibile da colleghi come Salvo Palazzolo, da registi come Giorgio Barberio Corsetti, da musicisti come Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri, da attori come Ennio Fantastichini e Gigi Borruso. Abbiamo suonato la carica dappertutto, sui giornali e nel più grande teatro d’opera d’Italia (il Teatro Massimo), nelle scuole e nelle piazze, in tv e alla radio, sul web e nelle università.
Il nostro obiettivo è sempre stato semplice: la verità, non una verità.  
Addirittura nel raccontare il singolare fenomeno, tutto siciliano, della moltiplicazione dei processi abbiamo riscosso la risata amara del pubblico quando abbiamo messo in scena l’incredibile accavallarsi del procedimenti per la strage Borsellino. Probabilmente perché dinanzi a certi drammi la risata è l’atto più rivoluzionario.   
Ora la procura di Messina ci viene a dire che l’inaudito depistaggio che porta fuori strada per sedici lunghi anni la macchina giudiziaria delle indagini sulla strage di via D’Amelio è stato opera solo di quattro poliziotti, il capo dei quali è ovviamente morto e sepolto da tempo, e di nessun altro. Ergo che una missione criminale di tale livello è stata architettata in modo talmente artigianale o sopraffino (dipende dai punti di vista) da escludere tutti – ripeto TUTTI – i magistrati in servizio alla Procura di Caltanissetta coinvolti nelle prime indagini. I quali, secondo la versione ufficiale che ci viene fornita, si bevevano tutte le minchiate che quei poliziotti gli servivano. E soprattutto se le bevevano incolpevolmente.
Questo post è pieno di link che rimandano ad approfondimenti quindi vi risparmio i tecnicismi. Tuttavia è bene incorniciare i dubbi di Fiammetta Borsellino, illustrati da Repubblica.

Perché i pm di Caltanissetta furono accomodanti con le continue ritrattazioni di Scarantino e non fecero mai il confronto tra i falsi pentiti dell’inchiesta (Scarantino, Candura e Andriotta), dai cui interrogatori si evinceva un progressivo aggiustamento delle dichiarazioni, in modo da farle convergere verso l’unica versione?
Perché non fu mai fatto un verbale del sopralluogo della polizia con Scarantino nel garage dove diceva di aver rubato la 126 poi trasformata in autobomba?
Perché i pm non ne fecero mai richiesta?
Perché nessun magistrato ritenne di presenziare al sopralluogo?
Chi è davvero responsabile dei verbali con a margine delle annotazioni a penna consegnati dall’ispettore Mattei a Scarantino? Il poliziotto ha dichiarato che l’unico scopo era quello di aiutarlo a ripassare: com’è possibile che fino alla Cassazione i giudici abbiano ritenuto plausibile questa giustificazione?
Perché furono autorizzati dieci colloqui investigativi della polizia con Scarantino, quando già era iniziata la collaborazione con i magistrati?  

A questi dubbi ne aggiungo uno io.
Perché questa verità di comodo – furono solo quattro poliziotti ispirati da un’insana anarchia a insaputa dei poveri magistrati – non fa saltare sulla sedia nessun ministro, nessun premier, nessun presidente della Repubblica?
È come se qualcuno volesse sfiancare la memoria di chi ha memoria, seppellire sotto una coltre di tempo inutile la voglia di capire, sfidare la buona creanza e la pazienza dei sopravvissuti con una architettura complessa di coincidenze, di illogici corto-circuiti. Nel nostro piccolo noi ne abbiamo trovati molti, troppi, durante il nostro cammino nel sottovuoto spinto di verità. Ora cercano di spegnerci prendendoci per noia con la loro litania di “non so”, “non ricordo”. È la famosa strategia di distrazione collettiva di cui abbiamo spesso parlato.

P.S.
Tutti i magistrati coinvolti nell’inchiesta sul depistaggio sono stati promossi. Ovviamente.

L’antimafia neomelodica

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Sono da sempre favorevole alla cultura pop. Penso che il vero rimedio contro i sepolcri imbiancati non sia cambiare il colore, ma scoperchiarli: e in questo la decontestualizzazione di un messaggio di alto valore civile può essere utile. Ma ci sono dei codici ineludibili da rispettare: una qualunque cosa non è cultura pop, può diventarlo se si riesce a renderla differente da una cosa qualunque.

La partecipazione di Gigi D’Alessio al dibattito nel chiostro della questura di Palermo, nel giorno delle commemorazioni per la strage di via d’Amelio, suscita qualche perplessità proprio perché è fuori da quei codici. Perché se è vero che pur di veicolare un’idea di antimafia moderna è lecito ricorrere a personaggi simbolo, è pur vero che l’idea ci deve essere a priori e deve essere chiara. Soprattutto nel sancta sanctorum dell’investigazione e nel giorno in cui ci si stringe sul ciglio del cratere di Palermo.

D’Alessio era stato invitato in quanto esponente dei cosiddetti neomelodici, dopo il caso di un suo meno noto collega che in tv aveva detto che Falcone e Borsellino se l’erano cercata. Eppure non ha parlato né di mafia, né della strage Borsellino, né di legalità, non ha nemmeno condannato l’improvvido neomelodico di cui sopra. Ha attirato fan, certo: ma basta il “successo di pubblico” per definire l’evento come una missione compiuta?

La ricerca di nuovi modelli non deve far perdere di vista l’obiettivo che è quello di spiegare ai giovani cosa non gli è stato spiegato. O peggio ancora, cosa gli è stato raccontato male, magari con narrazioni storte, deviate. E per fare questo non credo che il personaggio migliore sia uno che qualche mese fa ha dichiarato: “Alla camorra ho regalato un sacco di canzoni”.

La cultura pop è un valore aggiunto non è il “liberi tutti” delle idee.

Depistaggio, il colpevole perfetto? Un morto

L’articolo pubblicato qualche giorno fa su La Repubblica.

L’inchiesta sull’infame depistaggio per la strage di via D’Amelio sta finalmente cercando di far luce su come e perché a un certo punto, nel pieno dell’emergenza mafiosa, si è deciso di prendere uno pseudo-pentito, il meno attendibile dell’universo, di trasformarlo da scadente comparsa in protagonista assoluto, e di raccontare un romanzo di minchiate (inanellate in maniera scientifica). Solo che c’è una cosa che frulla nelle teste di noi astanti sul bordo di quell’enorme cratere mai richiuso che sono le stragi del ’92: se fu depistaggio (e depistaggio fu) ci deve essere stato qualche magistrato che ha dato indicazioni, che ha autorizzato ciò che non doveva essere autorizzato, che c’era e magari faceva finta di non esserci o che c’era e si mostrava in tutta la sua telegenia. Ecco, su questo aspetto dopo 26 anni c’è ancora una prudenza alquanto grottesca. Perché abbiamo sopportato di tutto in questa storia di orrore mafioso e scelleratezza istituzionale. Insomma diteci che è tutta colpa del maggiordomo, ma evitateci la farsa del colpevole perfetto: cioè un morto. Grazie.

Buon compleanno

Undici anni fa “Progetto Legalità”, la fondazione costituita in memoria di Paolo Borsellino, mi chiese un racconto: me ne ero quasi dimenticato sino a oggi, quando cercando una cosa nel mio computer mi sono imbattuto in questo file. Che evidentemente si era scocciato di sonnecchiare tra appunti, fatture, articoli, aborti di idee, e voleva essere tirato fuori. Il racconto si intitola “Buon compleanno”.

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                                              Palermo, 30 settembre 2005

Buon compleanno, Paolino.
Sette anni sono un traguardo importante. E tu, figlio mio, sei destinato a grandi cose. Si capisce dagli occhi, dall’avidità di conoscere, dal sorriso, persino dai capricci.
Ormai leggi benissimo e questa lettera voglio che la conservi.
La Playstation nuova sarà già vecchia il prossimo anno, i tuoi vestiti durano una stagione, come lo zaino per la scuola e certi amici. Invece ci sono cose che non passano, per questo ti chiedo di ascoltarmi: metti questo foglio in un cassetto – magari il terzo del tuo comodino, sotto quello delle mutande, dove solitamente getti la carta delle merendine che hai mangiato di nascosto – e lascialo lì. Stanotte ho fatto un sogno che ti devo raccontare.
Ho in mano un telecomando, come quello della nostra televisione grande, quello con la gomma intorno e con una dozzina di opzioni che nessuno conosce. Questo aggeggio ha un tasto speciale che lo rende unico al mondo, anzi in tutto l’universo. È in grado di fermare il tempo!
Io premo questo tasto.
Clic.

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Il morto di troppo

Un magistrato in politica criticato da altri magistrati non in politica si rifà durante la campagna elettorale a un illustre magistrato morto suscitando le ire di altri magistrati vivi che lo rimproverano di richiamarsi a un magistrato che non solo non c’è più ma che non è mai entrato in politica e tuttavia il magistrato in politica rincara la dose citando un altro illustre magistrato morto e innescando la reazione dei parenti della vittima che gli dicono di non pararsi dietro ai morti per scopi politici pur avendo alcuni di loro utilizzato i nomi dei propri morti per motivi elettorali.

Morale: il morto insegna a soffrire, ma non insegna a vivere.

Falcone, anzi Borsellino

I ragazzi fanno un po’ di confusione con le date e il parlamentare del Pdl Annagrazia Calabria dà loro una mano, retwittando senza nemmeno leggere.