Al limite provo coi disegnini

Come ho più volte scritto non sono uno che si strappa le vesti per l’indipendenza della cultura dalla politica: ma solo per realismo, per smetterla di intasarmi con pensieri molesti. Abolire il ricorso al manuale Cencelli in Italia è impossibile giacché la cultura del merito, il trionfo della specializzazione sono pratiche inconsulte (seppure non ancora proibite per legge). Quel che continua a colpirmi è la pervicacia con cui tutta la catena di personaggi che deve decidere le nomine in un teatro risulta totalmente estranea al mondo del teatro stesso. Nel senso che va bene l’indicazione politica (ce la facciamo piacere), va bene la divisione tra partiti (un direttore a te, un sovrintendente a me), va bene tutto. Ma nei consigli dei teatri (sempre di nomina politica) metteteci non dico un esperto, ma uno che in un teatro c’è entrato almeno una volta per vedere un cazzo di spettacolo vero, quindi esclusi convention di partito, manifestazioni culinarie a ingresso gratuito o saggi scolastici.

Il vero dramma è questo, altro che strepiti di indipendenza, raccolte di firme, petizioni online e via copiaincollando. Perché io o un artista o un tecnico devo essere giudicato da chi non sa nulla del mio lavoro? Perché in cima alla piramide ci deve stare uno che sta lì per grazia ricevuta? Perché il rito delle nomine e degli incarichi – tutte le nomine e tutti gli incarichi – non deve avvenire secondo buona creanza (chi ha fatto bene sta, chi ha fatto male se ne va)? Perché se oggi voglio lavorare devo andarmi a cercare un amico che ha le entrature giuste quando la sola idea mi fa rizzare i quattro peli che ho in testa?
Se non sono stato chiaro provo coi disegnini.

Un ergastolo di libri

Non so se la sentenza di condanna per i giovanissimi autori dello stupro del Foro Italico a Palermo sia congrua o meno. Di certo tra lo sconto per il rito abbreviato e altre imperscrutabili afferenze giuridiche mi pare giusto che ci sia una sentenza chiara e inequivoca. E soprattutto che questa serva da monito non tanto per futuri aspiranti stupratori (oddio) quanto per una generazione (non più fatta solo da giovanissimi, ahimè) che ritiene la vita reale un succedaneo di quella virtuale. Sin dall’inizio di questa storia gli smartphone e la smania di riprendere le gesta immonde del branco sono stati determinanti, come se un fatto non esistesse se non lo si può immortalare. Di più, anche dopo lo stupro alcuni protagonisti di questa storia terribile hanno continuato a imperversare sui social. E non era senso di onnipotenza, ma stupidità potentissima: e per quella non c’è pena che tenga, servono libri, libri, libri, un ergastolo di libri. Per questo non è il tintinnar delle manette che oggi conta (orribile vestigia di un passato crudele come la perversione di Torquemada senza coscienza) ma il suono antico della campana del diritto. Ciò che è sbagliato va punito senza fanfare, ciò che è giusto non consente di infierire su colui che sbaglia.

Il teatrino dei teatri

Sono in un loop dal quale non so quando potrò uscire. Palermo proviene da una fase di stallo molto grave, e senza precedenti, sulle nomine del Teatro Massimo Palermo e del Teatro Biondo Palermo, importanti realtà artistiche italiane (con gli adeguati distinguo, il Teatro Massimo è una realtà internazionale che spesso Palermo mostra di non meritare). Il parterre del tifo militante si muove perlopiù a sensazione. Nel mio minuscolo qualcosa so e però, pur nell’esercizio del mio mestiere di giornalista, non posso dire: per tenere lontano ogni possibile conflitto di interessi e per un minimo di buona creanza che la maturità impone. E siamo alla prima metà del loop: chi sa non può parlare perché è giusto che siccome sa in virtù di un mestiere, non possa dire quel che sa in virtù dello stesso mestiere. Risultato: ovunque parla solo il parterre con quel che ne consegue.

Piccola parentesi. Sono fuori da questo gioco dall’inizio dell’anno e ho scelto di farmi da parte proprio perché a una nazionale della cultura, come dovrebbero essere i nostri teatri, non servono tifosi, ma bravi allenatori e giocatori forti. Sono rientrato negli spogliatoi, ho guardato la partita soffrendo in silenzio. Chiusa la parentesi.

La seconda metà del loop è più complicata e riguarda il rapporto tra l’audience e la sostanza delle cose. Se si chiedono, giustamente, nomine di merito che garantiscano l’indipendenza della cultura dalla politica (un miraggio, giacché l’unica cultura indipendente è quella che celebriamo a casa nostra, o nel nostro teatrino privato) non si può ipotizzare che un direttore o un sovrintendente vengano approvati in pratica dagli artisti, dal sindacato variegato, e da tutti noi che lavoriamo nei teatri. Perché sarebbe un’altra violazione dell’indipendenza: c’è sempre qualcuno a nord di noi, fin quando esiste la geografia delle regole, che piacciano o no (io stesso ne sono stato vittima, ma magari ve la racconto un’altra volta).

Sono sempre stato contrario alle celebrazioni coram populo. Mi sono sentito a disagio in contesti di finta democrazia in cui, quando si deve prendere una decisione, più ampio è il consesso più giusta sarà la strada decisa. Le imprese più fallimentari alle quali ho assistito sono quelle ultra concordate, spalmate su teste spesso inconsapevoli pur di fare numero.
Perché? La risposta che ho io è quella che viene dalla mia piccola esperienza. Perché l’innovazione si fa senza facili consensi, costruendo sulle barricate nemiche, sfidando la consuetudine delle maggioranze. Si fa in pochi, quelli giusti, quelli che hanno coraggio: non c’è altro modo di dirlo, si vince o si perde. L’innovazione non piace a tutti, ontologicamente (e qui Giuli godrebbe;) ).

Servono direttori di teatri forti e preparati. Non importa se li appoggia il Sopra o il Sottosopra. Del resto la cronaca ci ha consegnato infiniti casi di trasversalismo e cambi di casacca in corsa. Servono specialisti ma non troppo, razionali ma non troppo, visionari ma non troppo, sganciati sia dalle segreterie di partito che dai salotti (che in una città come Palermo sono ben più mefitici). Servono coagulatori di idee, indipendenti perché se uno ha un’idea e la baratta con una notte serena, non ha un’idea ma un blister di Xanax. Per rimboccarsi le maniche servono le braccia. Non importa se la camicia è intonsa o meno perché, come diceva il sulfureo Andreotti, la camicia è come la coscienza, per mantenerla pulita basta non usarla.
Da qui si deve ricominciare. E taccio, al momento, perché pure dagli spogliatoi è giunto il momento di sloggiare.

P.S.
Nella scrittura di questo post nessun precario è stato maltrattato, del resto l’autore è un discreto rappresentante della categoria.

La crisi dell’accappatoio

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

A leggere le cronache della politica siciliana pare che il tempo nei palazzi di governo si sia fermato, anzi bloccato. Ci sono parole con cui siamo invecchiati, tipo rimpasto, verifica, asse, coalizione. Parole innocenti che però rimandano a beghe di partiti che poco o nulla hanno a che fare con la ragione pubblica attorno alla quale dovrebbe coagularsi l’azione di un’amministrazione. Parole antiche, desuete. Fare le cose e farle bene: un concetto molto semplice, ma lontano dalla politica novecentesca che prevede di farle solo se sono funzionali all’immagine di chi le fa. L’ultimo caso palermitano è da manuale: tutto per un accappatoio. Il governatore Schifani, offeso dalla protesta del dirigente di “Italia Viva” Davide Faraone che si è mostrato come se fosse appena uscito dal bagno per criticare la gestione della crisi idrica da parte della Regione, ha chiesto la testa dei renziani in Consiglio comunale. I quali, dopo giornate di trattative estenuanti (quindi giornate di lavoro), si sono spogliati della responsabilità politica dicendo che loro in Comune ci stanno a titolo personale e che quindi “Italia Viva” può farsi gli accappatoi suoi. Ora, se ci fosse stato un minimo di collegamento tra i mondi di questa politica del Sottosopra e il mondo reale tutto si sarebbe potuto risolvere con un’alzata di spalle (o con una risata). Dal broncio di Schifani ai patemi di Lagalla per una protesta innocua e manco troppo originale, l’unica consapevolezza che si rafforza nel mondo plebeo non racchiuso nel Palazzo è che questi equilibrismi pacchiani non smuovono di un millimetro le sorti di una città. La trattativa per un capriccio, l’estenuante spiegazzamento del Manuale Cencelli per valutare quanto pesa una nomina in un teatro o in un aeroporto, il fingere di ritenere il rimpasto un cruciale espediente di governo, sono tutte mosse di una strategia meravigliosamente studiata per allontanare i cittadini senzienti dalla politica.  
È stupido, oltre che desueto, pensare che l’equivalenza buon governo-armonia tra alleati risolva il problema di una efficace amministrazione: lo dimostrano i fallimenti su cui questa terra ha sperimentato una nuova e triste tecnica di sopravvivenza, il disinteresse. Dal senso comune al senso del ridicolo il passo è già stato fatto.

La barba che non fu mai tagliata

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

C’era un uomo che si chiamava Vincenzo Agostino. Molti lo conoscevano per via di una storia nota che in realtà non è mai stata abbastanza nota. A quell’uomo, il 5 agosto 1989, avevano ammazzato sotto gli occhi il figlio Antonino e la nuora Ida Castelluccio: erano sposini, lei era incinta da cinque mesi. Antonino era un agente di polizia e stava conducendo indagini delicatissime che, se non ci fosse di mezzo una tragedia, sarebbero state perfette come plot di un thriller cinematografico. Quell’uomo, Vincenzo Agostino, aveva sopportato la peggiore tortura alla quale un essere umano può essere sottoposto: sopravvivere a un figlio. Aveva lottato fino alla fine dei suoi giorni per sapere chi aveva spento la luce nella sua vita, lo aveva fatto dal basso contro silenzi e depistaggi altissimi.
Di quell’uomo, tuonante nel suo essere disarmato, abbiamo imparato una cosa. Che si può essere solidi quando si è in un baratro.
Conoscevamo la sua barba, ogni giorno più lunga nell’attesa non di una verità, ma della verità. Una verità inseguita come un miraggio nel vuoto di mille ragioni giudiziarie.

Nella città in cui i simboli sono spesso frutto di tardivi rimorsi diffusi, Vincenzo Agostino incarnava l’icona di un dolore eterno, di una sconfitta che giorno dopo giorno – come in un grottesco ossimoro – appariva sempre più annunciata.
Per decenni lo abbiamo visto in prima fila in tutti i luoghi in cui si poteva immaginare una rivalsa sociale: tribunali, cortei, commemorazioni. Lui e la sua barba bianca come la cenere della memoria, lunga come una richiesta d’aiuto che si perde nel vuoto.
Vincenzo Agostino aveva giurato di non tagliarla, quella barba: “Non lo farò sino a quando non avrò giustizia”. Oggi, dopo la sentenza di condanna del boss Gaetano Scotto come mandante ed esecutore del duplice omicidio, avrebbe finalmente potuto svelare il suo viso senza quella cornice candida se solo non fosse morto quasi sei mesi fa.

Agostino se n’è andato senza la consolazione di vedere puniti i colpevoli di quel delitto che gli aveva sconvolto l’esistenza. Nell’evitare i luoghi comuni che vedono la giustizia “trionfare” solo perché, dopo anni di estenuante attesa, si arriva a una sentenza, quel che ci resta è la figura di un uomo semplice e determinato, indebolito dalla malattia eppure combattivo, cosciente di un ruolo fondamentale per ricordarci che anche se quando perdi la terra intorno si fa arida, esiste un semino che può crescere nelle lande della sconfitta: dipende dalla fermezza e dalla dignità col quale lo annaffi.
Siamo il Paese delle mille trame e del più grande depistaggio rimasto impunito, quello della strage di via D’Amelio. Nonostante l’impegno di molti magistrati coraggiosi e determinati, restano troppe zone colpevolmente tenute al buio. Sappiamo che sono spesso i familiari delle vittime a mettersi fisicamente in gioco per cercare di ottenere un barlume di risposta.

La storia di Vincenzo Agostino ci illumina anche sull’insondabilità di un sentimento doloroso che spinge un padre a scegliere come atto estremo per la sua protesta un gesto onesto e modesto: farsi crescere la barba. In un mondo di urlatori a sproposito, di complottisti patentati, di esibizionisti senza ritegno, lui ci ha messo la faccia, una faccia che cambiava giorno dopo giorno, senza effetti speciali, semplicemente senza il favore di un rasoio.
Ora che una parte di verità – perché i misteri sulla morte di Antonio Agostino e Ida Castelluccio rimangono – è venuta a galla, una morale piccola e avulsa dalla cronaca potremmo andarla a cercare, sperando di trovarla, nelle pieghe delle nostre vite intonse, dove le cose capitano sempre agli altri.

In questa epoca in cui siamo tutti confratelli di hashtag quando c’è da sposare una moda lacrimevole (un’indignazione prêt-à-porter in giro si trova sempre), spesso non sappiamo nulla della peggiore tortura che si è consumata dietro casa nostra. Perché siamo rimbambiti dall’effetto più che dalla causa. E allora, quando ci rendiamo conto che la nostra coscienza sociale si è indurita, che stiamo per cedere alla falsa universalità che mette sullo stesso piano criminali e vittime, pensiamo che c’era un uomo con la barba lunga, lunghissima. Un uomo composto e disperato che si chiamava Vincenzo Agostino.

Il paradosso dell’immondizia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

L’immondizia a Palermo non è solo un grave problema (come il traffico, la siccità e altre piaghe frutto di storiche ironie cinematografiche) ma è un paradosso complicato. I rifiuti che ammorbano le nostre contrade sono l’eterno termine di paragone (benaltrista) quando c’è un problema da risolvere o una nuova iniziativa da pesare. Tipo: invece di pensare agli immigrati pensate alla munnizza; prima di restaurare quel monumento pensate alla munnizza; anziché finanziare quella mostra pensate alla munnizza. C’è sempre un cassonetto stracolmo in cima ai pensieri di un palermitano, qualunque sia il discorso. E qui scatta il paradosso poiché l’immondizia di cui ci si lamenta è sempre quella dell’altro, e anzi quando si tratta di darsi da fare per centrare un cestino di rifiuti, per osservare un turno di conferimento, per non lordare strade e marciapiedi il problema evapora. Anche se la Rap avesse la potenza e la spietatezza di un battaglione israeliano, anche se la dotazione dei mezzi fosse finanziata da Elon Musk, ogni mattina all’angolo della strada comparirebbe il solito “sacchetto zero”, abbandonato selvaggiamente, destinato a figliare centinaia di altri sacchetti sino a farsi montagna maleodorante. Lo abbiamo visto a Mondello dove pure la raccolta differenziata era stata richiesta a gran voce dai residenti: niente da fare, lì dove c’erano i cassonetti sorgono pile di rifiuti. E ovviamente si invocano più controlli, telecamere, vigili, droni. Come se senza la pistola puntata non ci potesse essere civiltà, come se l’immondizia avesse i piedi e le ali (quindi la si abbandona in un parco o per strada e il cassonetto se lo va a cercare da sola).
Strana città quella che invoca la forza contro la sua stessa debolezza, che chiede un rispetto unilaterale, che annega senza volersene accorgere.

Perché quello a Salvini non è affatto un processo politico

Nel suo video a metà tra il Sorrentinesco e il ridicolo, Matteo Salvini dice che lo vogliono arrestare per aver fatto il suo dovere (costituzionale) cioè per aver difeso i confini nazionali. Eppure già nel 2019 lui stesso aveva sfidato la giustizia italiana dicendo “processatemi pure tanto io non cambio idea”. Ma questo è solo il riflesso dialettico della bizzarra coerenza del leader della Lega che lancia la pietra e nasconde la mano.
Il caso – qui un link utile – è quello della nave della ONG spagnola Open Arms alla quale nell’agosto del 2019 fu negato di far sbarcare nel porto di Lampedusa 147 profughi soccorsi in mare.
Senza impelagarci in disquisizioni giuridiche, senza spaccare in due il pelo della politica si capisce a distanza di un miglio marino che in questa vicenda non c’entrano nulla l’intrusione della magistratura nella politica, il complotto delle toghe rosse per rovesciare un governo di destra, l’invenzione di un crimine ad hoc per incastrare un ministro che ha fatto solo il suo dovere (e qui la presidente Meloni o è in malafede o è malconsigliata).
In realtà i magistrati palermitani stanno evidenziando come un ministro ha calpestato il diritto internazionale per far fede a una propaganda non soltanto sua ma di un intero Governo, il governo Conte con i fantastici Cinque stelle che per un certo periodo avallarono quelle scelte.

E qui va aperta una parentesi in cui la politica, sì, c’entra.

Il processo di Palermo si celebra perché nel 2020 il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere ribaltando la decisione dell’apposita Giunta: finì 149 a 141, con il voto favorevole e decisivo dei Cinque Stelle. Che invece pochi mesi prima, nel marzo 2019, quando ancora governavano con la Lega, avevano espresso un giudizio diametralmente opposto (Salvini non è l’unico campione di bizzarra coerenza) schierandosi contro il processo all’allora ministro dell’Interno. Eppure l’accusa era identica, sequestro di persona per aver trattenuto 150 migranti a bordo della nave italiana Diciotti, e per il quale un altro tribunale per i reati ministeriali aveva chiesto l’autorizzazione.
“In quell’occasione – ricorda oggi Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera  – i grillini affidarono la decisione al voto degli iscritti alla loro piattaforma telematica, ponendo un quesito che nei tribunali si chiamerebbe ‘domanda suggestiva’, perché implicitamente suggeriva la risposta: ‘Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari Paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?’. Il 60 per cento disse sì, seguendo le indicazioni della classe dirigente del Movimento, e il processo fu negato”. Bastò meno di un anno e quando il sodalizio di governo Lega – Cinque Stelle fini a tarallucci e vino, i grillini ci misero poco a voltare le spalle al loro ex alleato e lo mandarono a processo a Palermo.
Va detto che quello era il periodo d’oro di Salvini, quello in cui apriva e chiudeva i porti con un tweet e si rivolgeva ai poveri migranti scrivendo frasi tipo “la pacchia è finita” (qui il pezzo che scrissi per il Foglio su “La nuova malvagità democratica”). Il suo modello vincente è rimasto sempre lo stesso, quello di un ministro che sorride nella raffica di selfie e spara battute come un liceale in gita d’istruzione sfuggito al controllo dei professori.
Va anche detto – perché la memoria purtroppo non è come la lingua che batte sul dente che duole ma se ne fotte – che era anche l’epoca del vergognoso pacchetto sicurezza secondo il quale trenta morti di fame, al gelo di una deriva in pieno Mediterraneo invernale e incazzato, costituivano una minaccia per la sicurezza nazionale.
E come se non bastasse va altresì detto che il primo a opporsi a quel decreto ingiusto e oltraggioso fu l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando con una decisione di grande civiltà (e di grande spessore politico) che resta nella mia memoria e spero in quella di altri.

Tornando a oggi, e alla luce di tutto ciò, si impone una domanda: quale e dove sarebbe l’ideologizzazione in una magistratura che vuole punire un ministro che sapeva di violare i trattati internazionali con un atto di becera presunzione politica? Salvini voleva far sazia la pancia di quel paese che lo aveva votato, una pancia che se ne infischiava dello Stato di diritto e che voleva ributtare gli immigrati a mare, in barba a ogni legge di ogni paese civile. È stato Salvini a portarsi davanti ai giudici in quell’agosto 2019, consapevole di fare un atto contro il diritto internazionale, un atto di propaganda personale. Ora grida alla costruzione di un complotto, ma i mattoni li ha impilati lui.
La richiesta di condanna a sei anni della Procura di Palermo è un atto conseguente a una detestabile provocazione fatta sulla pelle dei deboli, dei disperati e dei volontari che cercano di salvare vite. Salvini se l’è cercata, irresponsabilmente come è suo costume. Ed è giusto che paghi.

L’immagine di questo post è generata con intelligenza artificiale.

(Anti)Mafia, il coraggio che manca

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Per descrivere le cose di mafia trafughiamo e/o ricicliamo idee dei Grandi pur di mascherare la nostra indolenza. Lo facciamo usando spesso a sproposito un profluvio di aggettivi che accorciano i ragionamenti, vestendoli sgraziatamente: sciasciano per indicare posizioni e visioni asimmetriche rispetto al pensiero dominante; pirandelliano per accennare all’impossibilità di distinguere tra realtà, finzione e apparenza; gattopardiano per dire dell’adattabilità rispetto ai cambiamenti con l’obiettivo di mantenere intonsi i privilegi acquisiti. Mai che ci scappi il gesto barbaro di un’invenzione, di una lettura non viziata da quella che oggi possiamo definire come un’epidemia di distrazione sociale.
E poi, a guardare le nuove inchieste che attingono a piene mani dal passato del cosiddetto dossier “mafia e appalti”, c’è un vizio che intorbida le nostre sensazioni: il recentismo, cioè l’accumularsi di nuove informazioni che non valutano la prospettiva storica. Attenzione, non parlo della legittimità delle indagini ma dell’effetto che esse hanno sulla memoria collettiva giacché il recentismo in quest’ambito è lo strangolatore di essa.

Il dossier “mafia e appalti” è un evergreen in tal senso. È bene ricordare di cosa parliamo: un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Appare e scompare ogni tot di anni e si porta appresso una sorta di maledizione. Indentificato come una delle cause della vertiginosa accelerazione degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, rappresenta un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per stilare o per correggere, per indagare o per nascondere. A cominciare dai carabinieri che lo scrissero, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per via di una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente al termine di un lungo calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con i magistrati Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone indagati dalla Procura di Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Indagini complicate, com’è complicato mettere le mani in un vaso di Pandora in cui si mescolano soldi, sangue e patti inconfessabili, ma afflitte nel sentire comune dal recentismo che, per dire, non tiene conto di cosa significava fare il poliziotto nelle contrade percorse da proiettili vaganti, di quanto pesavano la politica delle promesse e l’antimafia delle carriere. Soprattutto non tiene conto di cos’era quel palazzo di giustizia di Palermo con tutta un’allegoria di animali: corvi, talpe, colombe, falchi, serpi, coccodrilli (molte le lacrime). Un’Arca di Noè dove però alla fine non si salvò nessuno.

Ecco, quando siamo tentati di abbozzare giudizi a proposito del passato sull’onda di un’ urgenza del presente (un’inchiesta riesumata o una qualunque interessantissima scoperta di archeologia giudiziaria) sarebbe cosa buona e giusta arginare il recentismo. E contestualizzare.

Per dire, allora c’era la “società civile” coi suoi lenzuoli candidi, con le sue mobilitazioni spontanee che non hanno mai conosciuto la droga dei social, col suo essere ago preciso di bilance perlopiù altrui. Oggi non c’è più e nessuno l’ha uccisa, nessuno l’ha rapita. Si è estinta a causa di quel cataclisma sociale che ci ha portato a essere tutti (forzatamente) presenti pur non essendoci: partecipanti in contumacia, movimentisti da polpastrello. Anche l’humus sul quale era nata e cresciuta è cambiato. L’urgenza drammatica dell’aggressione mafiosa ha lasciato spazio ad altre urgenze: dai rifiuti dietro la porta all’odio dietro lo schermo. Le emergenze fanno il loro lavoro che è quello di sommare problemi a problemi senza sommergerli, e in tal modo ci ingannano: in fondo non cambia nulla a eccezione del nostro modo di reagire. La mafia non è mai finita, ma non è più tra i trend topic, anzi non lo è mai stata diciamo per mission aziendale. Come in ogni estinzione che si rispetti la specie scomparsa farà sentire la sua assenza dopo molto tempo. Per capire com’è andata col dinosauro della società civile e con gli altri fossili di mafia più o meno incravattata, bisognerà scavare ancora. Magari trovando il coraggio di farlo in terreni miracolosamente intonsi tipo quello del depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio, unico caso al mondo in cui tutti i magistrati che portarono a decenni di deragliamenti giudiziari non sono mai stati puniti. E lì non c’è recentismo che tenga. Eterno è il peso di dolore sociale di uno sfacelo senza responsabili.

Millenni e politicanti

Da Pamplona a Puente la Reina.
Da Puente la Reina a Estella

C’è un gran fraintendimento che noi siciliani ci portiamo appresso e cioè che il concetto di civiltà sia legato a quello di straordinarietà. Uno stato di equilibrio sociale, economico e culturale è per noi un evento giubilare, un’eccezione, una moneta da conservare nel salvadanaio della storia. Invece ogni volta che mi trovo in Paesi non dissimili dal mio – tipo la Spagna, adesso – mi allineo con malcelata difficoltà al concetto di civiltà reale: quello di benessere ordinario.
Occhio, non c’entra il reddito pro capite e altre robe da economisti, ma la semplice constatazione di pulizia, il viaggio nelle pieghe rassicuranti delle province, l’attenzione riscossa da tutto ciò che è  pubblico.

Questi giorni in Navarra, tra città (pochissime) e paesini, mi hanno dato conferma che per accogliere il turista non servono effetti speciali tipo Moli Trapezoidali (lodevoli comunque), ma attenzione, cura, empatia. In ogni città di questo Cammino e degli altri in queste lande (la Francigena italiana in tal senso è invece un disastro), esiste una segnaletica stradale apposita per i camminatori/pellegrini: corsie sui marciapiedi, cartelli diversificati per chi va a piedi e per chi è in bici, attraversamenti pedonali ad hoc (qui se attraversi sulle strisce non devi ringraziare l’automobilista). Nei piccoli centri va ancora meglio. Dato che il camminatore/pellegrino è sia una risorsa economica che una propaggine storica di una tradizione secolare, il suo ingresso nel centro abitato non avviene per scavalcamenti, sentieri semi-clandestini o viuzze secondarie, bensì attraverso la via principale. Oggi sono entrato in un paese che si chiama Cirauqui, che in basco significa nido di vipere, proveniente da una collina arsa e faticosa, eppure dopo qualche metro ero nel centro del paese e mi aspettavo che da un momento all’altro spuntasse la banda (che pure avevo incrociato molto prima, a Puente La Reina). Il turista qui non è il benvenuto, è il padrone. Con tutto il carico di giuste illusioni che la macchina turistica sa mettere in scena. Paghi ma hai un po’ di più di quello che paghi, pulizia, attenzione, garbo. Con congruità etica, insomma si capisce che non hanno pulito per te… Da noi i cosiddetti “menù turistici” sono una trappola, qui sono un’occasione. E nessuno approfitta dello stato di necessità di un camminatore sfiancato, la categoria di turista più diffiusa in queste zone: nei rari centri abitati che si incontrano lungo le tappe del Cammino (spesso si fanno decine di chilometri senza beccarne uno) nessuno ti fa pagare l’acqua a peso d’oro anche perché le fonti pubbliche sono dappertutto e ovviamente gratuite. Meno urbanistica, meno chiacchiere, meno colpi di teatro, più realismo. Sono le piccole cose che fanno grandi le buone idee: i nostri amministratori prendano appunti e viaggino di più a piedi.

Infine la Storia con la S maiuscola.
Questa parte del cammino si muove sulle antiche strade romane e soprattutto su ponti millenari. A ogni passo si gode della meraviglia di stare immersi nella storia di battaglie, conquiste, disfatte, dolori, vittorie con un esclusivo punto di vista lunare: il silenzio. 
Il silenzio, lo dico da ordinario chiacchierone, dovrebbe passarlo la mutua, come terapia scegliete voi per cosa.

5 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Mafia, il teatro delle evanescenze

L’articolo pubblicato su Il foglio.

Sentenze, libri, cortei, convegni, navi, musei, orazioni civili, ricordi, comparsate in tv, slogan sferraglianti, impegni solenni. E ancora “pentiti”, suggeritori, veggenti, traditori, impuniti troppo impuniti e colpevoli perfetti troppo perfetti. Nel labirinto di via D’Amelio ci si illude di intravedere l’uscita e invece ci si rende conto, anno dopo anno, di aver sbagliato addirittura l’entrata.
A trentadue anni, celebrati proprio ieri, dalla strage in cui morirono a Palermo il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina poche certezze lambiscono una cronaca nota, cristallizzata nel tempo.

Schematizzando.
Il depistaggio ci fu.
I finti “pentiti” hanno tutti nome e cognome.
I magistrati e i poliziotti che li hanno creati, gestiti e difesi sono stati tutti prosciolti e/o promossi o comunque se la sono fatta franca.
Gli unici colpevoli sono due morti: l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e l’ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra.
A oggi il più grande depistaggio della storia della Repubblica italiana (definizione dei giudici di Caltanissetta) non ha un colpevole punito tra i viventi, ma solo (soliti) noti impuniti.

Ci sarebbe da armare rivoluzioni, da stendere catene umane. Eppure questa strage non interessa a nessuno. A parte qualche sporadico titolo di giornale, perlopiù nelle pagine interne o nei dorsi locali, quel boato riecheggia solo nelle orecchie dei pochi sopravvissuti e dei parenti delle vittime che ci ricordano che non c’è democrazia nel dolore, non c’è una livella delle ingiustizie.
La verità è che se fregano tutti. E non solo a Palermo che è la capitale mondiale dell’amnesia organizzata, ma nell’Italia intera di ogni governo, di ogni colore, di ogni riforma. 

Falcone e Borsellino. Nel binomio partorito dalla cronaca e ancor prima dalla crudeltà degli uomini (perché siamo anche ciò che non ci è stato permesso di essere) c’è tutto il sottotesto di un’antimafia di sussurri, di carriere, di protagonismi, di ingenuità, di coraggio, di forza interiore, di sangue acido, di lavoro silenzioso, di ostentazione, di modestia, di vita con le virgole che ognuno sa darsi.
È un teatro delle evanescenze in cui una scena si apre, un’altra si chiude e una si perde. Come si è persa non solo la ragione di dare un senso definitivo a quei boati, ma anche il tentativo di un racconto diverso oltre che dei caduti in questa lotta tremenda contro Cosa Nostra, dei loro seguaci, degli epigoni, dei parenti acquisiti (le vittime di mafia sono un territorio di grande saccheggio), degli orecchianti che sul ricordo hanno costruito business, politiche, show.
Eppure l’epopea era lì, davanti ai nostri occhi, pronta per essere narrata.

C’era Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia inventato da La Barbera e Tinebra che mandava in tilt la macchina giudiziaria per 16 anni, cioè fin quando non veniva smentito da Gaspare Spatuzza, un “pentito” assassino ma non farlocco. Eppure Scarantino, ragazzotto della Guadagna senza arte né parte, poteva essere stoppato subito. Cioè ben prima che le sue fandonie portassero a tre processi con altrettanti gradi di giudizio (centinaia e centinaia di udienze) su un presupposto falso. Lui non sapeva nulla della strage di via D’Amelio ed erano La Barbera e suoi a imbeccarlo affinché desse le risposte che il pool di Tinebra si aspettava. Nella storia del nefando traccheggio dal quale scaturisce il depistaggio c’è una data cruciale: 13 gennaio 1995. In quel periodo Scarantino stava accusando alla cieca, ma sempre sotto dettatura. Nei mesi precedenti era stato irritualmente sottratto alla cura del Servizio centrale di protezione dei pentiti e affidato a un’entità creata ad hoc: il “gruppo Falcone e Borsellino” di La Barbera. Già allora Scarantino era stato subito sbugiardato da altri collaboratori di giustizia come Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera (soltanto omonimo del capo della squadra mobile) e Santo Di Matteo, padre del piccolo Giuseppe strangolato e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca per ritorsione contro il pentimento. Quindi il depistaggio poteva morire in culla già nel 1995. Ma quel 13 gennaio i pm di Caltanissetta fecero qualcosa di inspiegabile. Decisero di non depositare gli atti in cui il pentito farlocco risultava sbugiardato e di conseguenza nulla di quelle contraddizioni venne reso noto ai difensori degli imputati. Ergo, niente di tutto ciò che poteva disinnescare per tempo la bomba Scarantino entrò nel processo che si aprì il 4 ottobre 1994: il processo Borsellino, che allora era ancora il processo Borsellino e basta, e che pochi mesi dopo diventerà il Borsellino primo, per via di una strana sindrome tutta siciliana, quella della moltiplicazione dei processi. Qui comincia l’ottovolante delle udienze e bisogna aggrapparsi al calendario per non perdersi. Il Borsellino primo arriva a sentenza di primo grado il 26 gennaio 1996. Quello stesso anno, a ottobre, inizia il Borsellino bis. Ma nel frattempo inizia l’appello, cioè il secondo grado, del Borsellino primo e un processo nuovo nuovo, il Borsellino ter. Intanto arrivano anche la sentenza di appello del Borsellino primo e la prima sentenza del Borsellino ter. Mentre nel dicembre del 2000, c’è la sentenza di Cassazione del processo primigenio, il Borsellino primo. La Cassazione: uno pensa, finalmente un punto fermo. Macché, tutta la macchina giudiziaria per i primi tre processi è impantanata nelle fandonie costruite ad arte dal falso pentito.
La mitosi giudiziaria non si ferma. Sempre nel 2000 arrivano le sentenze di appello del Borsellino bis e del Borsellino ter. Tre anni dopo tocca alla Cassazione dire l’ultima parola su questi due processi. Ultima parola che non sarà l’ultima.
Infatti bisognerà attendere altri dieci anni per assistere all’inizio di un ennesimo processo, il Borsellino quater, nato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che, mentre ci aggrovigliavamo in primo bis ter e via numerando, aveva svelato il depistaggio e indicato i veri responsabili della strage: era lui che aveva rubato la 126 fatta esplodere in via D’Amelio e non Scarantino, con quel che ne consegue.
Solo il 20 aprile 2017, cioè 25 anni dopo la strage, si arriverà a una sentenza di primo grado che finalmente non è drogata. Sarà solo l’inizio, un nuovo inizio dopo nove false partenze (primo bis e ter per tre gradi di giudizio) e altrettanti finali fasulli. Nove processi, centinaia di udienze, nessuna verità.

Un labirinto di numeri.
Cento, centodieci, centoventuno.
Avrebbero potuto essere metri, chilometri. O chili, quintali, tonnellate. Avrebbero potuto essere peso o distanza. Invece cento, centodieci, centoventuno sono i “non ricordo” pronunciati da tre dei quattro poliziotti che testimoniarono al processo di Caltanissetta per il depistaggio che ha visto imputati l’ex dirigente Mario Bò, gli ex ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tutti prescritti nel processo di Appello. La sentenza, come tutto in questa storia, offre una lettura bifronte e racconta che i poliziotti concorsero a depistare ma che comunque andavano rimandati a casa perché era passato troppo tempo, che guaio ci fu ma non ci possiamo fare niente. 
È così la vicenda della strage di via D’Amelio. Appena si mette a fuoco una soluzione spunta una lettura di senso opposto. Appena si tira un respiro, un nuovo cappio stringe il collo.

Nel dedalo giudiziario attraversato da verità vaganti spunta periodicamente il dossier “mafia e appalti”. Si tratta un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Quel dossier, indicato tra le cause di un’accelerazione degli attentati a Falcone e Borsellino, sembra un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per esaminare o per cancellare, per indagare o per proteggere. A cominciare dai carabinieri che lo stilarono, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente dopo un estenuante calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con l’ex pm del pool antimafia di Palermo Gioacchino Natoli finito sott’inchiesta a Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Lui si è difeso dicendosi estraneo alla losca vicenda, e ha persino incassato la stima di Maria Falcone.

Gira la giostra, tra coraggiosi e traditori, tra nudi e puri e pataccari. Ed è molto difficile orientarsi senza prendere cantonate.
Il caso di Massimo Ciancimino è emblematico. In principio considerato attendibile dalla Procura di Palermo, ma non da quelle di Caltanissetta e Firenze, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo tentò di accreditarsi come collaboratore di giustizia. Fu così che, tra una decina di comparsate in tv e un libro autobiografico, la sua pulsione dichiaratoria strabordò sui grandi misteri. Si esibì su tutto, dalla morte di Calvi alla strage di Ustica, dagli eccidi del ’92 alla famosa Trattativa, il suo vero capolavoro, finito però, come abbiamo visto, con assoluzioni a raffica. Insomma quella che per un certo momento fu salutata come una messa cantata si rivelò, qualche procuratore dopo, cabaret.

Il labirinto non risparmia nessuno, neanche le figure dolenti che meriterebbero migliore sorte. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, ha intrapreso da anni una crociata sulla strada della verità, anzi di una sua verità. Questa missione solitaria lo ha messo in dura contrapposizione con Maria Falcone che non replica più alle sue argomentazioni: “Meglio ignorarlo”. Persino i suoi nipoti, i figli di Paolo – Lucia, Fiammetta e Manfredi – e il loro avvocato Fabio Trizzino sono finiti nelle sue invettive. La loro colpa? Aver criticato aspramente i magistrati, come ad esempio Nino Di Matteo, che invece lui difende a spada tratta. L’emblema della crociata è una foto del 2014: Salvatore Borsellino abbraccia Massimo Ciancimino in via D’Amelio in quella che Giuseppe Di Lello, ex membro del pool antimafia, definì “l’immagine più distruttiva dell’antimafia”.

Al netto delle indagini a colpo freddo, delle rivelazioni tardive e dei tentativi di filtraggio delle acque torbide in cui uomini delle istituzioni e uomini della mafia si mossero indisturbati, non si può non tenere conto che a quei tempi c’erano due procure che si davano battaglia, tenendosi in ostaggio a vicenda, mentre una guerra vera, terrorizzante, infuriava a Palermo e non solo: la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato. Su ogni cosa la procura di Palermo di Gian Carlo Caselli la pensava all’opposto di quella di Caltanissetta di Giovanni Tinebra. Sui “pentiti” cruciali soprattutto: Caltanissetta aveva uno Scarantino telecomandato, Palermo aveva una pattuglia di collaboratori di giustizia che lo smentivano. Perché Palermo non intervenne per tempo? C’erano patti da rispettare? C’era forse un filo di tensioni incrociate che imbarazzava i due uffici giudiziari?
La battaglia non si limitò al 1992, ma arrivò sino ai giorni nostri quando, ad esempio, nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia, Palermo ipotizzò che la strage Borsellino potesse essere stata accelerata proprio da quella trattativa. Ma se così fosse stato, non avrebbe dovuto occuparsene la Procura di Caltanissetta che proprio su quella strage indagava?

Un labirinto. Un sistema di domande che ne figliano altre, un complicato intrico di persone e personaggi impossibili da recensire.
Come Bruno Contrada, alto esponente del Sisde, irritualmente chiamato a collaborare alle indagini sull’eccidio di via D’Amelio che dice, oggi, che se allora gli avessero affidato Scarantino avrebbe “scoperto subito che si trattava di un cialtrone”. Eppure lui stava lì e le dichiarazioni di Scarantino le conosceva, cosa ci voleva per smascherarlo, una presentazione ufficiale, una cena aziendale?
Come i “signori nessuno” estranei a Cosa Nostra che si materializzarono nei luoghi in cui si custodiva l’esplosivo delle stragi e che suscitarono perplessità persino tra i mafiosi.
Come i due colpevoli perfetti, perché deceduti. L’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che di mafia ammetteva serenamente di sapere poco e l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, al soldo dei servizi segreti, che invece sapeva troppo e che si curava di sceneggiare la storia a modo suo: famosa la sua preveggenza sul tipo di auto usata per la strage Borsellino con cui anticipò di un giorno il risultato di una perizia tecnica.

La verità processuale, labirintica anch’essa, ci dice che il depistaggio c’è stato, ma non si sa bene perché. Il succo è che in una congerie di situazioni spesso grottesche si inventò un castello di falsità per trovare in fretta una soluzione qualunque e che il tutto fu agevolato dalla scarsa qualità professionale dei magistrati che ci lavorarono.
Poco importa se, al netto del mistero dell’agenda rossa scomparsa, nulla si è mai saputo di quali carte avesse con sé Borsellino il pomeriggio del 19 luglio 1992. E soprattutto non si sa ancora cosa gli inquirenti prelevarono quel giorno nel suo ufficio perché non fu mai prodotto un verbale di sequestro dei documenti. Di certo sappiamo che di quelle carte a Riina e compari non gliene fregava nulla.

Ascolta il podcast sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio

La foto è di Franco Lannino.