Due cuori e una caviglia

Anni ‘80. Giovane aspirante giornalista. Giovane aspirante maestro di sci. Giovane aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno). Il giovane si sbatte da una parte all’altra del mondo da avvitare e svitare: collabora con la radio di Stato, scrive su qualunque supporto cartaceo immaginabile, suona e canta, s’inventa una rock-opera, affila lamine di sci e scalda sciolina, cavalca sogni e moto. E proprio con una moto imbocca la curva determinante della sua vita. Ma non schiantandosi o schivando in accelerata un ostacolo. No. Restando fermo e cercando di accenderla, quella Yahaha XT 550.
In quel tempo non c’è ancora il congegno elettronico per avviare il motore: c’è una leva, piccola e scomoda. E soprattutto c’è la compressione di un monocilindro ribelle.

In un pomeriggio di inverno quel giovane che ha appena addentato i vent’anni ha un lavoro che insegue, una passione che lo sorregge e una ragazza che aspetta solo che lui le chieda di stare con lei a tempo indeterminato: la gioventù ha questo di bello, che il tempo e i tempi sono ingannevoli e che si può dire serenamente “per sempre” senza immaginare che “per sempre” non esiste.
Ma lui è a Palermo in via Lincoln, a pochi passi dal mare, e lei è a 1.800 chilometri di distanza, con lo sguardo su una vetta di 3.800 metri. Lui tiene a bada l’eccitazione per il privilegio che gli è toccato: può scegliere tra una vita e un’altra, tra un mondo e un altro, tra una passione e un’altra. In cuor suo lui ha già scelto e sta parcheggiando il suo cavallo a cinque marce tra un’auto e un’altra. Tra un’ora, consegnati i fogli scritti a macchina dell’articolo che ha nello zaino, andrà all’agenzia di viaggi per prenotare la nave sulla quale tra qualche giorno imbarcherà l’auto e un abbondante bagaglio di vita: vuole esplorare il mondo verticale della montagna, lui che viene da quello orizzontale del mare, esporsi al sentire selvatico di un amore che è nella sua fase migliore, quella del germoglio annunciato e manco visibile.
In via Lincoln l’auto a destra si muove per abbandonare il parcheggio, lui sceglie di spostare la moto in una posizione più comoda. E anziché spingere fa la scelta cruciale. Accendere il motore.
Gira la testa della leva di avviamento verso l’esterno, risale sulla moto e carica il peso sul piede destro. Ma il monocilindro si oppone.  
Il rimbalzo della leva è crudele e spacca la caviglia dell’aspirante giornalista, aspirante maestro di sci, aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno) e via discorrendo.
Tutto cambia. Quasi 15 anni prima di Sliding Doors e del destino incellofanato di una pigrizia intellettuale molto (troppo) attuale.

Con una caviglia distrutta il giovane non può partire, non può affrontare gli esami da maestro di sci. Resta a Palermo. Continua a scrivere. Scrive anche alla presunta amata che lo aspetta 1.800 chilometri più a nord, fin quando le parole non si diluiscono nella distanza che è impassibile, incorruttibile, inaggirabile. Le parole si perdono prima degli esseri umani, solo che ce ne accorgiamo sempre troppo tardi.
Lui non diventerà mai maestro di sci. Farà il giornalista dopo aver preso a calci e sputi la sua moto.
Lei non diventerà mai la sua compagna. Farà altro, chissà cos’altro.
Lui non ha mai indagato sul destino di lei.
Lei non ha mai indagato sul destino di lui.
I due non si sono mai più incrociati, fedeli a una regola non scritta: fatalità è il nome che diamo alle decisioni che non abbiamo saputo (o voluto) prendere.  

Questo accadeva una quarantina di anni fa. Era un 14 gennaio, questo lui lo ricorda bene.    

Accuratezza

Sono ipersensibile alle cose fatte senza cura, ma è un problema molto personale perché – è giusto dichiararlo subito – la mia non è una visione virtuosa per così dire pura, bensì un modo di sentire, di registrare, di operare legato alla compulsività che deriva dal mio DOC (di cui vi ho detto svariate volte, tipo qui e qui). Insomma la mia spasmodica ricerca dell’accuratezza è in gran parte frutto di una condizione psicologica che il più delle volte è compatita, raramente capita.
Comunque non è di bruttoanatroccolite che voglio parlarvi ma di felice compiutezza.
Erroneamente crediamo che l’accuratezza riguardi solo il sistema lavorativo, e al limite quello sentimentale mentre non è così: abbraccia tutti i campi della nostra vita. Soprattutto c’è un equivoco che va tolto di mezzo in modo definitivo: che l’accuratezza sia una garanzia di qualità, di positività. Sappiamo bene che ci sono cose sbagliate fatte benissimo e cose giuste fatte malissimo. E che l’impegno nel compiere un atto non ha nulla a che vedere con l’etica dell’atto stesso (del resto siete in un blog che ha persino un podcast intitolato “Le cazzate sono una cosa seria”). Quindi cosa è esattamente l’accuratezza e quanto pesa nella nostra vita?
Nella vostra non so, posso dire della mia.
Per me è un enzima, una sorta di catalizzatore che accelera reazioni. Non a caso la sciatteria che ci circonda ha come primo risultato l’immobilismo, il sacrificio di qualunque intenzione sull’altare del quieto vivere, il preservare spesso interessato dello status quo. Infatti l’accuratezza tutto è tranne che una forza conservatrice. Persino nelle sue deviazioni più trasversali (che in alcuni casi non sono malaccio, almeno da indagare), tende a rifinire sino all’estremo, a purificare dalle imperfezioni: quindi comunque a innovare, dato che raffinare è sempre un atto che guarda al futuro.
Ha una controindicazione, l’accuratezza. Costa.
Costa in termini energetici, economici, psicologici, sociali. Nulla di accurato è gratis (e non parlo ovviamente solo di moneta). Infatti un prodotto, inteso non solo come un manufatto, nel quale c’è cura si riconosce nella brodaglia delle intenzioni incolte.
La stragrande mole di eventi, reazioni, relazioni che mi/ci circonda gira attorno al perno sbilenco della sciatteria, della scarsa affezione, della famosa massima siciliana per cui “il cane non è mio” (cioè non sono fatti che in fondo mi riguardano). Persino una cosa brutta fatta con accuratezza sta su un livello diverso rispetto a una cosa brutta fatta male: avrei molti esempi, ma preferisco che ognuno di voi si raffiguri il suo.
L’accuratezza è un antidoto, un vaccino, che ha le sue controindicazioni (tipo i costi appunto). Ma che ci preserva dalla dittatura del qualunque, dalla nube endemica dell’indifferenza (che talvolta soffoca più dell’odio), dall’egoismo fatto sistema, dalle sveltine delle scorciatoie.
Ripeto, non è garanzia di probità, ma di pacificazione con se stessi.

Peli e destini

Questa storia parte da una cosa che potrebbe risultare un po’ schifosa. Una cosa che riguarda i peli umani. Passiamo la vita a odiarli o a rimpiangerli, a coltivarli o a sperimentare intrugli per debellarli. Dipende dalla zona del corpo in cui si trovano (è chiaro che in testa sono più preziosi che altrove) e soprattutto dall’età in cui ci poniamo il problema. Perché col tempo i peli migrano dai luoghi in cui sarebbe consono che dimorassero a posti impensati e francamente sgradevoli.

Il punto è il tempo che passa. Anzi l’effetto del tempo che passa.

C’è una bella frase di Peter Høeg, un autore che mi piace, ne “I figli dei guardiani di elefanti”: “Non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice” (ve ne parlai qui). Rende l’idea di una circolarità delle emozioni che questi tempi duri hanno soffocato. Perché, non è solo un gioco di parole, il tempo risente dei tempi e, ovviamente, viceversa.
Il problema è quello di un’immaginazione inquinata da una situazione estrema e omologante come quella dell’emergenza che ci ha costretti per due anni a una prigionia non soltanto fisica. Ma è anche uno stallo di percezione che fa parte del nostro divenire, credo dall’alba dei secoli.
Ciò che ci affascinava, oggi magari ci fa schifo. Ciò che ci abbagliava, oggi magari è invisibile. Ciò che ci era indifferente, oggi magari ci manca da morire.
Sarebbe anormale che così non fosse giacché l’immutabilità non è di questo mondo terreno, e per quello che so manco degli altri nei dintorni.
È l’inganno delle nostre percezioni che ci spinge all’errore.
Pensiamo all’amicizia come a un valore pressoché assoluto quando è provato che alla base c’è sempre uno scambio di qualcosa (che sia emozione, sentimento, convenienza o altro è un dettaglio che attiene alla nostra fortuna), quindi siamo nel campo del più che relativo.
Dell’amore si dice che quello vero è “per sempre”, mentre magari è proprio quello surrogato e complicato che non morirà mai nell’intimo del nostro cuore (e il mio, come vi dissi, è un cuore bonsai quindi è tutto più complicato e noioso). Quel lavoro sul quale avevamo puntato tutto si rivela, dopo anni di sacrifici, un alibi per non pensare ad altro: abbiamo bisogno di “cause di forza maggiore” per sfuggire alle debolezze, alle nostre cause di comprovata forza minore insomma. Ogni volta che facciamo un favore confidiamo nel fatto che, chissà, un giorno venga ricambiato, mentre ci dimentichiamo che noi prestiamo (e il favore si configura più o meno cinematograficamente come un prestito) ciò che ci possiamo consentire di perdere (e così il favore diventa regalo e fine delle scocciature).

Insomma quello che potrebbe sembrare un festival delle illusioni, è invece una plausibile celebrazione della realtà.
Il fraintendimento è di casa sui social, un po’ meno qui per fortuna, poiché la tendenza superficiale a dover spalmare tutto su un’unica fetta da addentare (il social è una tartina con mille ingredienti da ingerire simultaneamente, alimenta bulimia e non sa di nulla) crea spesso imbarazzanti corto-circuiti tra chi scrive e chi legge. Se uno scrive di amore è iscritto al filone dei depressi. Se uno scrive di aperitivi a quello degli alcolizzati. Se uno scrive di libri a quello degli sfigati. Se uno scrive di politica a quello dei simpatizzanti del regime. E così via.

La verità è molto diversa, per fortuna. Basta imparare a non rompere i coglioni agli altri quando non abbiamo il coraggio di tirare fuori i nostri.
Viviamo una crisi di emozioni genuine, quelle che si sussurrano o si urlano a seconda dei casi (qui un link d’epoca illuminante). Quelle per le quali non c’è vergogna né a dirle né a subirle. Le emozioni degli altri si rispettano, le nostre anche no: ad esempio la debolezza altrui possiamo biasimarla, la nostra possiamo tranquillamente maledirla.

Tutto cambia, tutto deve cambiare altrimenti sarebbe la sagra della noia. Ciò che l’appiattimento di questi anni ci ha tolto è la consapevolezza che non si cambia solo “per uscirne migliori”, la più grande panzana del millennio, ma anche (e soprattutto) per rimanere se stessi: ecco perché non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice.

Tempo sprecato

È tempo sprecato quando

Ti fai raccontare un film anziché vederlo
Ridi per battute seriali
Credi di essere utile per risolvere questioni inutili
Credi di essere inutile per risolvere questioni utili
Trascuri la prima impressione
Ti fidi del consiglio dello chef
Dai facendo finta che non ti interessa essere ricambiato
Voti a sinistra per fede
Immagini di poter mantenere più di quanto hai promesso
Confidi nell’amicizia da polpastrello
Quel polpastrello ti prude e tu non scrivi
Bevi vino al di sotto dei dieci euro
Credi che il dolore riempia un vuoto
Credi che un vuoto sia nato per essere riempito
Usi l’amicizia come surrogato dell’amore
Pretendi dall’amore la duttilità dell’amicizia
Ascolti la nuova musica italiana aspettandoti che sia nuova e italiana
Ti dimentichi che esistono ancora in vita Pat Metheny e Gino Vannelli
Cestini un libro per sentito dire
Pensi che un passo indietro sia una sconfitta
E che un passo avanti sia un progresso (anche davanti al baratro)
Preghi al momento del bisogno
Inganni la cronaca con l’invenzione
Dai più attenzione alle vecchie foto che allo specchio
Ti fidi troppo dello specchio
Usi i tuoi problemi come passepartout
Cedi al fascino delle cose facili
Pensi ai tuoi guai come ai guai dell’universo mondo
Ti guardi indietro e ridacchi per le sventure dei tuoi nemici
Non fuggi quando dovresti farlo senza ritegno.

Incazzarsi

Una ventina di anni fa il direttore di un importante newsmagazine mi disse: “Io non mi incazzo se un mio giornalista buca l’avviso di garanzia al presidente della Repubblica (è un esempio a caso, nda), mi incazzo se sbaglia il nome della scuola in cui ha fatto il liceo”. Che è una metafora perfetta, e manco troppo metafora, sul paradosso di certi errori. Tendiamo a concentrarci sulle scalate senza corda e inciampiamo sullo scendiletto, guardiamo in alto quando il pericolo è rasoterra, valutiamo un bene imponente e sottovalutiamo un bene che è bene e basta, quindi prezioso di suo, senza aggettivi. E soprattutto abbassiamo la guardia della buona creanza che ci sussurra sempre di verificare, verificare, verificare: e fate attenzione a come certi metodi vadano bene per il mestiere e per la vita privata, dal giornalismo ai rapporti umani (amicizia, affetti, amore). Solo che nel primo caso c’è sempre una possibilità di rimediare a norma di legge o per deontologia, mentre nell’altro caso c’è da mangiarsi le mani, rodersi il fegato o rompersi le palle, insomma c’è comunque da sacrificare una parte del corpo.

Non c’è niente di religioso né di meditativo in questa riflessione. Credo che gli errori facciano parte del nostro cammino e che non esista un lasciapassare dato da un dio o da un guru. Credo anche che se ci fosse un dio (o un guru) un po’ più largo di manica in tema di aiutini dovrebbe metterci un chip sottopelle che dà un impulso non quando facciamo una scelta sbagliata – il libero arbitrio è un fondamento della bellezza, dell’arte, della religione più pura – ma quando sottovalutiamo per distrazione, quando abbozziamo un sorriso annoiato anziché drizzare le antenne, quando vogliamo essere noi e altro, anziché essere noi e basta. Ne parlai qui con un inusitato trasporto.
Insomma dato che non esistono né la macchina del tempo né la tessera punti delle minchiate, l’unica è affidarsi all’altro.
L’altro.

Ne riparleremo qui e altrove. Promesso.

Le mie liberazioni

Uno dei difetti più fastidiosi della comunicazione (di massa) veicolata dai social network è la sfocatura perenne di un concetto, la bava di sottotesto non richiesto che scola da fatti inoppugnabili. Prendiamo la Liberazione. Che sia una festa che celebra la fine dell’occupazione nazista e la conseguente caduta del regime fascista in Italia ci sono pochi dubbi. Che si debba essere concordi nel reputare il 25 aprile 1945 un giorno fondamentale per la nostra libertà e per la nostra democrazia, un po’ meno purtroppo. In fondo se oggi un lestofante (da tastiera o da scranno parlamentare) può criticare allegramente questa celebrazione lo deve appunto all’oggetto della critica. È libero proprio grazie a ciò che vorrebbe negare.
Ma non è questo il punto.
La questione è, secondo me, trovare un approccio diverso nell’affrontare temi così universali. Ad esempio, cercare di rendere più commestibile un grande tema, porgendolo a piccole porzioni.

Parliamo di liberazione.

Per cercare di capire il limite tra assoluto e relativo in un caso come questo devo aprire l’infinito settore “cazzi miei” e sperare di essere chiaro.
Per anni ho celebrato una festa della liberazione molto personale. Festeggiavo in giorni precisi la fine di un paio di periodi difficili, sentimentalmente e professionalmente, e l’inizio di un nuovo modo di vedere le cose. Ne facevo proprio feste fisiche, a casa mia, con amici, musica e cibo. Andò avanti per un bel po’. Fino a quando nuove emergenze della vita non mi costrinsero a mettere altre date da esorcizzare, quindi da celebrare. Fu così che le “liberazioni” proliferarono senza darsi fastidio l’una con l’altra: del resto finché c’è festa c’è speranza.
Sprangai porte che sembravano impossibili da chiudere, spalancai portoni di cui non immaginavo la vista oltre, abbandonai cliché che stavano soprattutto nella mia testa, viaggiai da solo per mesi e mesi, scelsi senza paura di sbagliare, rischiai senza perdere la paura di sbagliare. Il distillato di queste esperienze lo misi in una cartella: liberazione.
Liberazione dal preconcetto, dall’abitudine, dal vizio inutile (esistono invece vizi preziosissimi), dal senso di colpa senza colpa e dal senso di impunità quando invece la colpa è evidente.
Di certo tutto ciò non ha fatto di me una persona migliore: ho ancora il rimorso di troppi errori da cui liberarmi, e forse non farò in tempo dato che il bioritmo della mia autocritica ha lo speed di un bradipo annoiato. Ma almeno, ora che ci penso, questa parcellizzazione delle idee può essere in qualche modo utile per spiegare il concetto di partenza.
Un tema come la liberazione è troppo grande e troppo eccitante e troppo bello e troppo… vitale per dibatterne come se si trattasse di un tweet di Salvini o di un centrotavola della Santanché.
Va invece abbracciato, fatto nostro, usato come termine di paragone (ero più libero nel ’99 o l’altroieri?). Nell’era della globalizzazione estrema, certe risposte – forse le più importanti – stanno in soffitta, tra l’album di vecchie foto ingiallite e la pila cementificata di fumetti di cui non hai mai avuto il coraggio di liberarti, tra le Adidas SL72 con dentro una clandestina colonia di Plerotus e il proiettore super8 Silma.
Ci vuole un po’ di coraggio per andare lì a cercare. E per tornare indenni dalla malinconia: che notoriamente è l’unico sentimento di cui non potremo mai celebrare la liberazione.   

San Valentino, voltare pagina

“Io non voglio qualcuno che mi ripeta in continuazione che ci sarà sempre
e non mi lascerà o tradirà mai. Mi basta qualcuno
che ogni volta che mi mandi a fanculo venga sempre a riprendermi.”
Charles Bukowski

San Valentino, almeno nella mia esperienza, è uno spunto per varie cose. Per ricordare e il suo contrario, per celebrare e il suo contrario, per crescere e il suo contrario.
Alla mia età, avendo attraversato diverse latitudini affettive, vi confesso che le ho provate tutte. Dalla festicciola a casa con gli amici (anche loro innamorati come da copione), al festino alcolico per dimenticare; dal brodo di giuggiole per una frase vergata su un libro che pare stare lì apposta per te, al cambio di stato di un pizzino d’amore, da foglio a coriandoli; dallo slancio di memoria del come eravamo alla prua diretta verso il come sarò.

Chissà qual è la formula più vantaggiosa per arricchire un sentimento, quando uno ce l’ha, e magari capitalizzarlo. Forse, come ha ironizzato qualche anno fa Gianluca Nicoletti, in questo giorno cruciale l’unica cosa buona che una coppia di innamorati dovrebbe fare è portarsi un single sfigato a cena (occhio, ho detto single sfigato e non solo single o solo sfigato). O forse vale una strategia di segno opposto: trattare il sentimento con l’ordinarietà delle cose umane, dato che non è vero che l’amore ci avvicina a dio, semmai ci costringe più spesso a chiedergli una mano. Una volta raccontai in un romanzo la storia di un cuore bonsai al quale venivano tagliate le radici in modo che non potesse crescere troppo: era una polluzione nichilista. Un’altra volta mi è stata suggerita la favola di una persona che resiste strenuamente ai cambiamenti del ph del cuore: una cosa a metà tra “Viaggio allucinante” e “Alice nel paese delle meraviglie”.

Di certo San Valentino si porta appresso il paradosso di un vestito che era bello quando era nuovo, ma che magari è ancora lì nell’armadio perché non ci si decide a buttarlo definitivamente, o perché ce ne siamo dimenticati. Lo guardiamo e immaginiamo il giorno che perderemo quei chili che ci impediscono di indossarlo di nuovo, magari passeggiando con la persona che abbiamo deluso, o che ci ha deluso, o che abbiamo costretto a fuggire, o chissà.
Lo spirito di sopravvivenza, e anche una buona dose di incosciente saggezza, ci ricordano che chi si mette a dieta per un vestito non lo fa per se stesso, bensì per il vestito. E la dieta in generale è deprimente più di una festa senza festeggiamenti.

Ti prendo e ti porto via

Usualmente tendiamo a parlare dell’amore quando ci è sfuggito dalle labbra dell’anima o più semplicemente quando lo abbiamo smarrito per strada. Perché l’amore si perde più facilmente di come si trova: un po’ come la fiducia, che si esaurisce a litri ma si riconquista a gocce. Io stesso da queste parti (e non solo) credo di averne parlato raramente, e quando l’ho fatto è stato per scherzarci su o per trarne qualche piccolo insegnamento. Non certo perché abbia vissuto un’esistenza al riparo dalle delusioni (subite e inferte), né perché l’argomento mi annoi.

Non ne ho parlato perché non ne so parlare.

Però è giusto provare ad affrontare l’argomento perché in fondo siamo davanti al vero mainstream non contestabile, al trend topic che sfida i millenni, all’evergreen dell’umanità.
Nella mia vita ho amato pochissime donne (proprio pochissime!), col resto ho fatto un casino. E ogni volta che è finita, nelle piccole storie come in quelle importanti, il saldo del conto delle mie colpe è sempre stato purtroppo imbarazzante. È un po’ come la fortuna che si dice che non esista: in amore non c’è ingiustizia. C’è tra i due poli opposti una differenza di lungimiranza, di altruismo, di onestà. Forse è una questione di chimica, se vogliamo chiamare chimica l’egoismo.  Di fatto, per quello che ho capito, l’amore è il più forte elastico sentimentale dell’universo: più lo tendi, più lo stressi, più ti si ritorcerà contro.
Ho capito anche un’altra cosa, ma la metto molto a margine: che se sei maschio, adulto e parli d’amore in termini non vittoriosi o celebrativi, o sei uno sfigato o sei Fabio Volo (con un’insidiosa variante Marzullo).
Ma insomma, rischiamo.

Nel suo capolavoro “Ti prendo e ti porto via”, Niccolò Ammaniti intreccia due tormentate storie d’amore: quella tra un balordo playboy con una professoressa solitaria, e quella tra un ragazzino figlio di un pastore psicopatico con una ragazzina figlia di un direttore di banca. Quel che ho spiato del sentimento scritto attiene molto alla narrazione di questo romanzo che vi consiglio di leggere (io bagno gli occhiali ogni volta che lo rileggo, manco fossi un vecchio onanista dell’ “Ultima neve di primavera”). Perché nel finale – proprio nella lettera che chiude il libro – c’è un insegnamento profondo sull’amore. Arriva dal giovane protagonista che è finito in carcere per un omicidio grottesco e che scrive alla sua mancata fidanzata, sposa, amante. La ragazzina per la quale era disposto a tutto in quella “lunga ferita che è la giovinezza”. Lui ormai ha un’esistenza rovinata pur non essendo un ragazzo cattivo. Lei bella, risolta e ormai lontana ha tutta una vita davanti. Eppure, nonostante siano passati anni e pensieri (più pesanti i secondi), lui chiude la lettera con una speranza che lo illumina di una vana certezza: “Preparati, perché quando passo da Bologna ti prendo e ti porto via”.

Siamo fatti di aria e mare, di terra e fumo, ma ci spegniamo in un lampo.
E non conta la quadratura del cerchio, ma il bagliore, l’illusione di poter essere criceti senza ruota, liberi in quello spazio che pare un mondo e invece è comunque una gabbietta.
Questo ho orecchiato dell’amore, cioè di quella cosa di cui non so parlare.

Che è un’alba inaspettata.
Che ti rende libero anche chiuso in una stanza.
Che è ingiusto, altrimenti sarebbe aritmetica.
Che non dipende dall’altro anche quando dipende dall’altro.
Che è battaglia, guerra, armistizio e raramente pace.
Che è tutto in una frase: “Preparati, ti prendo e ti porto via”.

Era novembre

Novembre è per me un mese particolare. È la porta di accesso all’inverno, la mia stagione preferita. Ma è anche un contenitore di ricorrenze: alcune liete, altre decisamente no. Sulla mia devozione nei confronti della stagione invernale, causa passione sciistica, vi ho già detto troppe volte. Sulle ricorrenze vale la pena di soffermarsi.

Molti anni fa, in uno degli immancabili naufragi della vita, raccolsi il coraggio a due mani e decisi di cambiare tutto. Ma proprio tutto. Lavoro, casa, compagnia, prospettiva. Stavo per dimettermi dal giornale in cui avevo lavorato per vent’anni, ero senza una lira, avevo troncato un sodalizio complicato, e per una indescrivibile convergenza non avevo neanche un tetto sotto cui dormire. Insomma per qualche giorno mi ridussi a passare le notti in auto: scorta di panini, sigarette, birre, ottimismo. Una sera, era domenica, decisi di mettere da parte i miei pregiudizi, feci un compromesso col mio orgoglio e chiesi aiuto. Nel frattempo un paio di cose che avevo scritto si erano fatte strada da sole ed ero riuscito a prendere quota nel mercato editoriale.
Insomma ce la feci grazie a un combinato di affetto (genitori) e fortuna (senza sponsor).
Mi presi tre mesi, nel corso dei quali mi trasferii a casa dei miei genitori tipo sedicenne, e investii tutti i soldi che avevo, e che avrei avuto di lì a qualche anno, in una casa che oggi è la mia tana. Ci misi dentro tutti i miei sogni e le mie follie: porte nascoste, librerie che non sono solo librerie, muri trasparenti, pareti che cambiano colore, una cucina-salotto e tecnologia a go-go. Rinacqui tra quelle mura, ricominciai alla grande su quella lunga scrivania a elle disegnata una notte su tovagliolino di carta di una pizzeria immonda, ripresi quota senza sforzare le ali, perché quando il vento è quello giusto c’è un dio che probabilmente soffia per te e per quello che ti sei meritato. In tre mesi trasformai una casa degli anni sessanta in una casa mia (grazie ai miei).
E il risultato fu talmente entusiasmante che, per favorevoli convergenze astrali, scoprii lo smart working con un discreto anticipo.
Era il 2007.
Era novembre.

Un decennio dopo mi accorsi di una cosa che potrebbe sembrare sgradevole, ma che a pensarci bene può essere fisiologica dato che il vero problema dei viaggi non è l’itinerario, ma la compagnia. Ebbene sì, sbagliai compagnia e me ne accorsi bruscamente. Il dolore fu grande ma a poco a poco fu alleviato dalla certezza di essermi tolto una spina dal piede. Capita.
Quando capii che la spina non faceva più il suo mestiere (anzi non lo aveva mai fatto dato che più che spina era un rovo) perché incolpava il piede di fare il piede, feci i miei calcoli. Rasi al suolo il rovo.
Adieu a quelle spine e a tutti i piedi che le avevano calpestate (cazzi loro).
Era novembre.

Un anno fa se ne andò mio padre. E qui potrei scadere nel legittimamente lacrimevole. Ma dovreste sapere che le lacrime le frequento con discrezione, se non altro perché con l’età che avanza la differenza tra commozione e rimbambimento è impercettibile come un rimbrotto della prostata (cioè dà un minuscolo avviso per un tremendo, possibile, effetto). Pino, o D’Artagnan come si faceva chiamare da queste parti, non era un uomo perfetto. E questo lo faceva diventare il padre perfetto. Era l’inventore dell’invadenza affettiva, il primo motore immobile della fiducia nel futuro, era il migliore compagno di viaggio e il peggiore interlocutore di politica, era un gran buongustaio e un pessimo pessimista, era buono e cazzuto, accogliente e non scontato. Se non gli andavi a genio ti mandava a quel paese, se lo affascinavi con un pensiero o con una lettura ti veniva a cercare a casa. Si spense in una mattina inutilmente assolata, esiliato da una pandemia feroce, nella solitudine che non meritava.

Era novembre.

I miei segreti

Nel suo prezioso libretto (libretto per le sue dimensioni fisiche) “Segreti e no” Claudio Magris spiega: “Il segreto e la sua custodia sono un elemento fondamentale della potenza, del potere. Ma c’è un’altra, molto più interessante custodia del segreto: è una umanissima protezione della propria libertà”.

Queste parole pesano ancor di più in questo periodo storico in cui la schizofrenia con la quale guardiamo alla privacy – inesistente sui social al contempo sbandierata per il green pass – ci mette di fronte a una quasi irresistibile nudità psicologica: dobbiamo mostrarci nel nostro quotidiano, dobbiamo esibire anche l’intimo più superfluo, dobbiamo pasturare l’audience affamata dei nostri dettagli privati. Ecco che, in questo contesto, la pubblicazione del libro di Ilda Boccassini “La stanza numero 30” in cui l’autrice parla del suo amore per Giovanni Falcone segna un giro di boa: la rivelazione di amore per un deceduto, ammogliato, per di più spasmodicamente riservato.

Non ho intenzione di criticare la Boccassini, non me ne arrogo il diritto. Voglio solo ribadire, da uomo che ha frequentato (spesso non incolpevolmente) il segreto, che ci sono cose che possono rimanere non dette senza perdere valore. E che il nostro passato ci regala molto raramente occasioni in cui ringiovanire senza far torto a nessuno: una di queste è stringerci al ricordo più bello e più lontano, e coccolarlo perché resti per sempre nostro. Solo nostro.