Contro il fascismo del dolore

Tutti quanti, prima o poi, ci dobbiamo confrontare col senso di mancanza. Ed è un errore gravissimo ritenere che la propria voragine, quella dalla quale crediamo di non poter riemergere, sia più profonda di quelle degli altri. Soffriamo tutti, ognuno in modo diverso per cose diverse e al contempo con lo stesso diritto. Abbiamo vertigini di dolore tutte nostre e non abbiamo il diritto di imporle. Soprattutto non dobbiamo mai sovrapporle a quelle degli altri.

Sono due anni che mio padre se n’è andato e so, per certo, che il senso di mancanza è qualcosa di non recensibile. Però so anche che il miglior modo per celebrare qualcuno che non c’è più – prima o poi è un’incombenza che tocca tutti – è non infliggere il proprio dolore al mondo.
Quindi per prudenza, almeno per un giorno, oggi nella mia giornata ordinaria non mi lamenterò dei casini personali, leggerò i giornali con un distacco artificiale, lavorerò senza curarmi dei problemi acuminati che possono stare dietro l’angolo, cucinerò cantando e brinderò a una felicità prossima ventura (c’è sempre qualcosa in agguato e chissà mai che non sia qualcosa di lieto, e che cazzo).

Scrivevo qualche giorno fa che bisogna avere il coraggio di cambiare le nostre preghiere laiche. Di celebrare i nostri morti (ammazzati o no) in un modo nuovo, di sterilizzare le ferite riducendo al minimo il rischio che si riaprano, anche involontariamente. E scrivevo a proposito dei morti di mafia: “Meno intitolazioni, più narrazioni. Meno stucchi, più informazione. Meno contrapposizioni, più testa bassa e pedalare”.
Ecco, credo che questo proposito valga non solo per i morti (illustri) di morte violenta.
Dobbiamo imparare a seppellire i nostri defunti. Raccontandoli più che rimpiangendoli. Diluendoli in una risata più che imponendoli a ogni cena, tra il primo e il secondo lasciati a metà. Lasciandoci guidare dalla loro stella anziché brancolare nel buio della loro assenza.
Io mio padre l’ho raccontato in mille modi (orgogliosamente e senza farne una bandiera), e altrettanti sono quelli che ho taciuto perché una vita fa romanzo solo se riassunta e scremata.  Oggi mi piace pensare che lui non stia lassù a vegliarmi, tipo santino, ma che se ne fotta di quel mondo terreno nel quale se l’è goduta, dando e ricevendo con divertita equanimità. E soprattutto che si sbracci per convincere tutti i suoi beati colleghi di sorte a farci desistere dal rimpianto social piagnucolante e diciamo anche un po’ ridicolo.
La dignità dei nostri cari, quando non ci sono più, è nelle nostre mani. Più ci mancano, più serve ritegno. Il ritegno è l’unica promessa di fedeltà che possiamo fare a una persona che non c’è più.

Notizie dal clan Palazzotto

Di mio padre vi ho raccontato molto, forse troppo. Ma ognuno è figlio a modo suo quindi non segue dibattito.
Oggi un piccolo gesto – piccolo ma significativo – mi ha fatto riflettere su quanto la vita riesca a togliere e a restituire sotto forma di moneta di altro conio.
Il fatto è semplice: la Lilt, Lega italiana per la lotta contro i tumori, ha dedicato il poliambulatorio di Palermo a lui, Pino Palazzotto, che alla lotta al cancro e al volontariato ha dedicato una vita.
Il contesto è ancora più semplice: nella scia di lavoro che lui e mia madre, anche lei volontaria per decenni – e per di più inarrestabile al limite dell’indomabile – hanno tracciato, è emersa la figura di mia zia Francesca Glorioso che oggi è presidente della sezione Lilt di Palermo, e non certo per congiunture parentali dato che sempre di volontariato si tratta.

Chiusa la parentesi del clan dei Palazzotto, la cosa che mi piace sottolineare è innanzitutto quel “Pino”. Pino e non Giuseppe. Perché lui era Pino per gli amici e anche per i nemici. Solo gli estranei lo chiamavano Giuseppe, e con gli estranei non si recensiscono gli affetti. Quindi quel “Pino” è informalità spinta, è disponibilità continua, è affabilità estrema anche un po’ naif. Lui era così, cinico e sentimentale, quasi un ossimoro.

L’altra cosa – e chiudo che già qui lui sbadiglierebbe – è il luogo e il contesto. Viviamo con l’affanno di dover lasciare un’impronta anche fisica. Oggi Pino Palazzotto non ha una piazza, non ha una via, neanche un vicolo, com’è giusto che sia. Ha un posto ben più importante che lo ricorda, un posto in cui si celebra la vita e si esorcizza la morte: un poliambulatorio per la prevenzione del cancro, a Palermo.  

Era novembre

Novembre è per me un mese particolare. È la porta di accesso all’inverno, la mia stagione preferita. Ma è anche un contenitore di ricorrenze: alcune liete, altre decisamente no. Sulla mia devozione nei confronti della stagione invernale, causa passione sciistica, vi ho già detto troppe volte. Sulle ricorrenze vale la pena di soffermarsi.

Molti anni fa, in uno degli immancabili naufragi della vita, raccolsi il coraggio a due mani e decisi di cambiare tutto. Ma proprio tutto. Lavoro, casa, compagnia, prospettiva. Stavo per dimettermi dal giornale in cui avevo lavorato per vent’anni, ero senza una lira, avevo troncato un sodalizio complicato, e per una indescrivibile convergenza non avevo neanche un tetto sotto cui dormire. Insomma per qualche giorno mi ridussi a passare le notti in auto: scorta di panini, sigarette, birre, ottimismo. Una sera, era domenica, decisi di mettere da parte i miei pregiudizi, feci un compromesso col mio orgoglio e chiesi aiuto. Nel frattempo un paio di cose che avevo scritto si erano fatte strada da sole ed ero riuscito a prendere quota nel mercato editoriale.
Insomma ce la feci grazie a un combinato di affetto (genitori) e fortuna (senza sponsor).
Mi presi tre mesi, nel corso dei quali mi trasferii a casa dei miei genitori tipo sedicenne, e investii tutti i soldi che avevo, e che avrei avuto di lì a qualche anno, in una casa che oggi è la mia tana. Ci misi dentro tutti i miei sogni e le mie follie: porte nascoste, librerie che non sono solo librerie, muri trasparenti, pareti che cambiano colore, una cucina-salotto e tecnologia a go-go. Rinacqui tra quelle mura, ricominciai alla grande su quella lunga scrivania a elle disegnata una notte su tovagliolino di carta di una pizzeria immonda, ripresi quota senza sforzare le ali, perché quando il vento è quello giusto c’è un dio che probabilmente soffia per te e per quello che ti sei meritato. In tre mesi trasformai una casa degli anni sessanta in una casa mia (grazie ai miei).
E il risultato fu talmente entusiasmante che, per favorevoli convergenze astrali, scoprii lo smart working con un discreto anticipo.
Era il 2007.
Era novembre.

Un decennio dopo mi accorsi di una cosa che potrebbe sembrare sgradevole, ma che a pensarci bene può essere fisiologica dato che il vero problema dei viaggi non è l’itinerario, ma la compagnia. Ebbene sì, sbagliai compagnia e me ne accorsi bruscamente. Il dolore fu grande ma a poco a poco fu alleviato dalla certezza di essermi tolto una spina dal piede. Capita.
Quando capii che la spina non faceva più il suo mestiere (anzi non lo aveva mai fatto dato che più che spina era un rovo) perché incolpava il piede di fare il piede, feci i miei calcoli. Rasi al suolo il rovo.
Adieu a quelle spine e a tutti i piedi che le avevano calpestate (cazzi loro).
Era novembre.

Un anno fa se ne andò mio padre. E qui potrei scadere nel legittimamente lacrimevole. Ma dovreste sapere che le lacrime le frequento con discrezione, se non altro perché con l’età che avanza la differenza tra commozione e rimbambimento è impercettibile come un rimbrotto della prostata (cioè dà un minuscolo avviso per un tremendo, possibile, effetto). Pino, o D’Artagnan come si faceva chiamare da queste parti, non era un uomo perfetto. E questo lo faceva diventare il padre perfetto. Era l’inventore dell’invadenza affettiva, il primo motore immobile della fiducia nel futuro, era il migliore compagno di viaggio e il peggiore interlocutore di politica, era un gran buongustaio e un pessimo pessimista, era buono e cazzuto, accogliente e non scontato. Se non gli andavi a genio ti mandava a quel paese, se lo affascinavi con un pensiero o con una lettura ti veniva a cercare a casa. Si spense in una mattina inutilmente assolata, esiliato da una pandemia feroce, nella solitudine che non meritava.

Era novembre.

Nickname, D’Artagnan

Quanto odio le cerimonie degli addii, quasi più del parlare dei miei problemi… Ogni volta che in vita mia ho avuto casini mi sono rifugiato in un eremo o comunque mi sono inventato una solitudine per disinnescare l’arma che in mano mia temo più di ogni altra: quella che infligge i miei dolori al resto dell’umanità. Quindi se scrivo qui della morte di mio padre, lo faccio solo perché questo blog è un posto in cui lui, classe 1935 mica un millennial, ha vissuto quasi più di me: in quanto genitore dell’autore, in quanto fonte di ispirazione la maggior parte delle volte involontaria, in quanto commentatore (ebbene sì, lui a 80 anni e passa si era inventato un nickname), in quanto lettore bulimico, in quanto primo motore immobile (immobile, mica tanto) in alcune avventure al limite del narrabile, in quanto genio burlone per tutto ciò che dio gli mandava a tiro di considerazione.

Perché è stato un padre complicato e divertente, e ancora oggi non ricordo mai una serata noiosa con lui (tutto compreso). Il mio papà è stato muro da abbattere quando ero adolescente e uragano di complicità nell’età matura, avversario politico nella nostra politica da tinello e compagno di viaggi indimenticabili, figura ben lontana dal cliché del padre integerrimo, e implacabile censore di cretini. Per una certa quota di tempo fui per lui il figlio che si apprestava a deluderlo (mi voleva medico, ma ero troppo cazzone per certe cose), poi all’improvviso scoprì la gioia di lasciarsi sorprendere da uno come me. Forse capì che la mia cazzonaggine non era esattamente un difetto (ma manco un vantaggio, eh), bensì un’indole: e si convinse che se anche avessi fatto il giornalista alla fine non sarebbe stata una tragedia. Tre persone contarono per questo giro di boa, per lui e per me: Maria Cefalù, la prima regista Rai che mi accolse sotto la sua ala che avevo 19 anni, Peppino Sottile, il primo giornalista che mi diede occasione di dimostrare che conoscevo la differenza tra un tema e un articolo, e Salvo Licata, il primo intellettuale che mi insegnò l’arte della narrazione tra preti e puttane, tra ultimi e finti primi. Mio papà si fidò ciecamente di loro per evitare di fidarsi ciecamente di me: e aveva ragione.

Un giorno gli comunicai che non doveva più lasciarmi la banconota sul comodino, la mattina. “E perché mai?” mi chiese sorpreso. “Perché da domani mi pagheranno per scrivere”. Da allora mise in moto la macchina della curiosità che sino a quel giorno aveva dedicato ad altra roba e cominciò a leggere tutto quello che scrivevo, cominciò a interrogarmi su ciò che avevo in mente di raccontare, cominciò a osservare i miei competitor, a studiare il mio mondo professionale. Ogni tanto, quando lavoravo al Giornale di Sicilia, passava la sera e faceva il giro dei tavoli per salutare tutti i miei colleghi: era quasi più conosciuto di me, di certo era più benvoluto.

Amava i romanzi e la storia, Churchill e gli antichi egizi, il mare e la buona cucina, la politica e il Negroni. Era nato di sinistra e per uno strano scherzo del destino era deragliato nel berlusconismo: certe cene tra noi iniziavano come Porta a Porta e finivano come The Purge. Un giorno, dopo un paio di decenni di scontri all’arma bianca sulla politica italiana, seminammo tutti e finimmo a cena da soli, io e lui. Bevemmo un Amarone spettacolare e ci confessammo l’inconfessabile: che a lui Berlusconi come statista faceva cagare e che a me piaceva Renzi (che con Berlusconi aveva più di una sovrapposizione). Ci dicemmo anche altro, soprattutto in tema di donne. Lui, mai insensibile al fascino femminile, mi spiegò perché alcune mie ex non le digeriva e altre sorprendentemente gli mancavano anche un po’. Le giudicava col suo metro, non importava che aspetto avessero o se mi trattassero più o meno bene (riteneva che l’amore avesse qualche analogia con la politica, o lo si fa o lo si subisce): le pesava sul tema della curiosità, nulla era più imperdonabile secondo lui di una persona senza interessi, senza il desiderio di sapere, di esplorare.

E poi i viaggi. Era perennemente alla ricerca di una nuova meta. Lui e mia madre avevano girato il mondo durante i sessant’anni passati insieme e per ogni paese avevano un aneddoto, una avventura, un contrattempo esilarante: i documenti perduti a Londra con un tam tam che aveva rotto i coglioni persino alla Farnesina, lo scippo a New York con lui che bloccava il bandito e mia madre knock-out per una sberla di fuoco amico, il vassoio di formaggi scippato al cameriere durante la crociera sui fiordi, e poi risate, cibi strani, nuovi amici.  

Non si arrendeva al progresso, anzi si lasciava affascinare. Col suo iPad spiava il mondo, si iscriveva a newsletter, studiava, guardava partite, film, leggeva giornali. Eppure non era in grado di farsi un caffè o di mettere su l’acqua per cuocere la pasta. Forse era pigrizia, o forse riteneva che ci fosse poco da incuriosirsi in una capsula di Nespresso.

Inventò l’arte del bacio e dell’abbraccio ben prima di Totò Cuffaro, solo che non ne fece mai uno strumento di consenso elettorale. La cosa che gli pesava di più di questo periodo di distanziamento asociale era proprio la distanza: lui, che abbracciava per ispirazione (cioè che sentiva a pelle chi avrebbe dovuto tenere più vicino e chi no) era costretto a salutare con un cenno del capo o con un gesto distaccato. Si sentiva a dieta negli affetti. E lui odiava tutti i tipi di diete.

Se n’è andato da solo, in un letto di ospedale e per di più a stomaco vuoto.
Però a quest’ora lassù sarà ben sintonizzato su questo blog, avrà letto i miei post sui social e avrà commentato col suo nickname più memorabile, D’Artagnan.
Adesso sarà il momento di capire come si fa un caffè.

Tema: il mio papà

il mio papàIl mio papà ha ottant’anni e ha più energie di me.
Il mio papà è oncologo ma non è un talebano del salutismo. Il suo motto è: non si può vivere da malati per morire sani.
Il mio papà voleva un altro futuro lavorativo per me, ma poi ha capito che era inutile insistere. La rassegnazione a volte è una virtù.
Il mio papà non è stato immune da errori e mi ha insegnato che quando si sbaglia, la retromarcia non è obbligatoria, si può anche scartare di lato e accelerare.
Il mio papà, quando inventarono i telefonini, la prima cosa che faceva la mattina era telefonarmi, in qualunque parte del mondo mi trovassi.
Il mio papà mi chiama ancora “Gigetto”, non ho mai capito perché.
Il mio papà è una buona forchetta perché sa mangiare (anche grazie a mia madre che sa cucinare): pochissima carne, chili di pasta, pesce e verdure. È un monumento vivente alla dieta mediterranea.
Il mio papà adora il Negroni, soprattutto quello che gli preparo io.
Il mio papà ha “l’invadenza affettiva”, una cosa per la quale lui può piombare a casa mia all’alba senza essere invitato e senza preavviso: per scatenarla basta la sensazione che io possa non stare benissimo.
Il mio papà è un grande viaggiatore, e non solo fisicamente. Legge molto, legge sempre.
Il mio papà è tecnologico: col suo iPad nuovo (il primo ha deciso che era un modello troppo vecchio e l’ha dato a mia madre) legge due quotidiani al giorno, inserti compresi, scrive a mezzo mondo anche se il mezzo mondo non se ne accorge e raccoglie spunti per viaggi e ricette di cucina.
Il mio papà si chiama Giuseppe, come il più celebre dei papà. Ma a me degli altri papà non mi interessa perché il mio è il più forte del mondo.

Auguri papà.