Piedi, selfie e altra fuffa dei social

L’articolo pubblicato su Il Foglio.

C’è qualcosa di utile in ciò che è perfettamente inutile: e cioè che lo si può usare come cattivo esempio. Almeno nella vita reale, al di qua del moderno specchio delle nostre brame, ergo lo smartphone. Dall’altro lato, nell’universo virtuale, tutto cambia. L’utile e l’inutile si diluiscono in una marea oleosa nella quale persino il cattivo esempio annega anonimo e umiliato dal non essere più né cattivo né esempio. È il trionfo di una lanugine del pensiero che avvolge e non ripara, sovrasta e non copre, ingombra e non riempie: la fuffa dei social.

Tutto è iniziato quando abbiamo rivolto verso di noi l’obiettivo del cellulare e da cultori più o meno scafati di un voyeurismo innocente e casereccio che alimentava l’interesse per le immagini degli altri, siamo diventati indefessi produttori di immagini da far guardare agli altri. E in questa rivoluzione, che è tecnologica, di costume e di linguaggio, abbiamo sovvertito una serie di regole che originariamente tendevano a raffinare il prodotto, a centellinare i risultati.

Nel passaggio dall’autoscatto al selfie si modifica un fattore determinante come quello del tempo: oggi il risultato è subito visibile, non è più un investimento che potrà essere riscosso dopo sviluppo e stampa, bensì una astrazione di realtà ripetibile, duplicabile e modificabile all’infinito. Quel braccio teso nei selfie è un invito a oltrepassare la cornice del ritratto e a entrare in comunicazione. Ma con chi? Non certo con l’individuo che si è autoritratto poiché nulla è più insondabile di un’immagine ciclostilata a uso e consumo di milioni di occhi. Entriamo in comunicazione col coro degli “adoratori della fuffa”, di cui quell’immagine è parte infinitesimale, ci lasciamo accogliere nelle echo chambers dove ciascuno vede solo ciò in cui si riconosce e che si aspetta di trovare.

L’autoselezione, cioè il volontario intruppamento in una conventicola di followers, è un elemento determinante per il proliferare incolto della fuffa nei social network.

Il caso dei tramonti è prezioso per spiegarne le dinamiche.

Non c’è nulla di più falso della foto di un tramonto. Perché già nell’attimo stesso in cui lo smartphone la cattura, un sistema elettronico ha colorato e alterato l’immagine (che è un controluce per antonomasia) uniformandola a parametri che la renderanno simile a milioni di altre immagini scattate davanti a milioni di altri tramonti. Non è tema di esclusiva pertinenza tecnologica, basti pensare alle ripercussioni sulla filosofia che divide i fotografi tra “albisti” e “tramontisti”. Giacché un’alba si cerca e un tramonto si trova, con quel che ne consegue in termini di fatica, dedizione e competenza, una semplice opzione sulla app di qualsiasi telefonino è in grado di trasformare un sole caldo in un sole freddo e viceversa: risultato, la moltiplicazione infinita di immagini nate e morte false. Eppure l’oppio delle echo chambers produce la reazione opposta a quella che ci si dovrebbe aspettare. In un tripudio di cuori, pollici alzati, faccine sbalordite, sale il coro dei “bellissimo/a”, come se contasse davvero quella macchia di colore rossastra, come se Zanzibar e Ustica avessero davvero un sole diverso, come se quel bicchiere in primo piano (la foto dell’aperitivo al tramonto è una pratica che ha più a che fare con l’onanismo che con la socialità tecnologica) raccontasse davvero una situazione unica.

L’applauso all’emozione contumace premia la conventicola stessa, è più pacca sulla spalla agli amici del gruppo che complimento all’autore. Più effetto che affetto.

Sarà per questo che ormai non ci curiamo nemmeno di apparire al meglio della nostra forma, di metabolizzare raffiche di selfie che non ci soddisfano, che non cestiniamo il brutto per valorizzare almeno il passabile. Che addirittura ci ridicolizziamo con evidente orgoglio mediante stickers o adesivi virtuali, ci mettiamo orecchie da coniglio, nasi da topo, che ci deturpiamo gioiosamente i volti con effetti visivi da casa degli orrori, che accettiamo di metterci in mostra nel luna park del web come non siamo mai stati e come in fondo non vorremo mai essere.

Perché l’applauso non è per noi, e lo sappiamo pur senza essercelo mai confessato, ma è per il circo che ci gira intorno e che usa gli stessi codici per blandirci e rassicurarci: smorfiette, emoji, pollici, cuori.

La fuffa rassicura e scaccia ogni forma di ansia perché droga ogni forma di giudizio.  

Persino il metodo più naturale di narrazione, quello che inquadra il divenire nel suo tragitto inesorabile tra punto di partenza e punto di arrivo, viene stravolto senza che si ridesti in noi il sistema immunitario sociale del senso del ridicolo. È il caso dell’“effetto boomerang”, una applicazione che crea delle brevi gif, ossia scatta una serie di foto in sequenza e le mette insieme formando un video pochi secondi. Il risultato è una galleria nevrotica di smorfie in loop, piedi barcollanti, cucchiaini che affondano nel gelato senza ferirlo, di corpi che resuscitano dalle acque: un panorama tremolante e ossessivo che fa dell’effetto (manco troppo) speciale il mezzo per raccontare una storia troppo breve per essere storia e troppo lunga per essere tollerata senza un sorriso.  

Nel 2014 lo psicologo ed economista ambientale Dan Ariely definì sul Wall Street Journal le cinque ragioni psicologiche per spiegare il fenomeno dei selfie: “1) ci serve a fermare l’attimo; 2) ci permette di continuare a vivere il momento (se dovessimo fermarci a chiedere a un’altra persona di scattarci una foto, smetteremmo per un attimo di viverlo); 3) condividiamo l’esperienza del momento con altri; 4) non ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto; 5) lo fanno tutti”.
Era stato fin troppo ottimista dal momento che non aveva aggiunto il punto 6: ci fa godere nell’apparire terribilmente ridicoli.

Ma liquidare la fuffa dei social come mero riempitivo di esistenze che si riverberano nelle timeline, sarebbe sbagliato. Basta fermarsi e guardare con più calma ciò che ogni giorno passa sullo schermo del nostro smartphone. Fondamentalmente un tripudio di gambe e piedi. Ma attenzione, nel messaggio tramandato da questi arti in bella mostra c’è una porta nascosta e la chiave che la apre va cercata nei dettagli.

Nello specifico è una questione di centimetri. Il selfie che svela un paio di gambe adagiate su un divano con il loro corredo di filtri, effetti, sfocature strategiche ci rivela un’intenzionale manomissione che stavolta non interessa la foto in sé, bensì l’effetto che essa vuole provocare. Insomma c’è un curioso meccanismo di doping dell’attenzione altrui su quelle cosce che si mostrano per quello che sono (un paio di cosce) ma che, grazie all’inquadratura ampia quanto basta, promettono un dettaglio inguinale che non c’è. In quell’immagine ci si mostra liberi e al contempo pentiti di tale libertà, come se improvvisamente un freno avesse bloccato, per miracolo, la mano che conduce il gioco dell’autoscatto (che non a caso, negli anni Settanta, era una rubrica di alcuni giornali porno), in un rigurgito di pudore. Anzi di semi-pudore, che è la cifra dominante dei maggiori produttori di fuffa social. Cioè di tutti quegli utenti che sussurrano all’orecchio di ciascuno dei propri followers “vorrei tanto, ma non posso” e intanto alimentano l’antica forma di “ferocia” del feticista visto da Marx, che inquadrava una relazione ossessiva con una parte del corpo come più significativa rispetto a una relazione misurata con l’intero. Si dice: misero è il feticista al quale è offerta una donna, quando ciò che vuole è una scarpa. Ecco, il semi-pudore è una declinazione di furbizia social che non offre in realtà nulla, ma riscuote come se fosse.

Nei suoi lavori su media ed etica, l’israeliano Hagi Kenaan sostiene che l’occhio ha ormai raggiunto uno “stato di morte clinica” a causa di ciò che definisce “estetica dell’appiattimento”. La sua tesi è che “passiamo la maggior parte delle nostre vite di fronte a schermi, di modo che la profondità, il tempo, gli errori, le crepe sono interamente eliminati. In quanto vedenti funzioniamo come drogati, allo stesso tempo bramanti e dissanguati da ciò che usiamo per prevenire il nostro impegno nel mondo”. Così come generalmente accade nella dipendenza, la responsabilità etica tende ad essere la prima vittima dell’appiattimento, afferma Kenaan: dal pudore al semi-pudore è solo un passaggio tecnico, nel rispetto del dio algoritmo che regola l’effetto sul web dei nostri pensieri, parole, opere e omissioni. 

Alla luce di questi cambiamenti climatici nel pianeta delle emozioni, l’antologia della fuffa ha eletto il suo organo di riferimento. Che, come si può supporre, non è più l’occhio, ma il dito. Non a caso l’universo nel quale galleggiamo, più incoscienti che incolpevoli, è quello digitale. E le dita toccano, regolano, scattano, modificano, pubblicano i contenuti che alimentano le echo chambers.  Il paradosso è che proprio il tatto, quel senso che dovrebbe essere penalizzato nel mondo virtuale, è il protagonista di questo nuovo fenomeno cognitivo.

La tecnologia non sta a guardare, non indugia e nel suo perverso tentativo di rendere l’uomo strumento del suo stesso strumento, piazza il suo colpo basso: l’ultimo iPhone 11 Pro ha tre telecamere per inquadrare una stessa scena con un grandangolo, un ultra-grandangolo e un teleobiettivo. Avremo la fuffa in 3D. 

Amori nel cassonetto

C’è questa foto, finita ieri su tutti i giornali, che è la storia semplificata di un finale ignoto. È cioè la storia stessa prima ancora della sua conclusione. Non c’è bisogno di commentarla, né di fantasticare sulla quota di dolore e di disillusione che ci sta dietro.
Questa foto però mi dà lo spunto per ricordare che molti anni fa, diciamo decenni, anch’io feci una cosa del genere dopo che una mia fidanzata mi aveva lasciato per un biforcuto di due metri (che poi tradì per il figlio bonsai di un imprenditore affetto da gigantiasi economica: era una dallo spiccato senso pratico…). Buttai tutto, foto, lettere d’amore, fiori secchi con cui mi aveva infestato la stanza, persino un disco di Steve Wonder che mi piaceva un sacco ma che recava, impresso come un tatuaggio del male, una sua firma sgangherata, tipo con le stelline e i cuori. Sbagliai, eccezion fatta per i fiori pestilenziali (certo anche le stelline…). Perché credo che chiunque abbia condiviso con noi anche una minima parte del cammino, abbia diritto alla sua sopravvivenza in effige. Certo, non sul comodino né in salotto, ma magari nel buio di una cantina o nella tranquillità di un album sullo scaffale più alto dello sgabuzzino.
Quelle foto non ci servono più fisicamente perché non vanno guardate con nostalgia, anzi non vanno guardate e basta, né devono essere usate per rinnovare disprezzo, tipo rito voodoo. Ma devono continuare a esistere indipendentemente da noi poiché testimoniano, senza la necessità di essere consultate, che la felicità è un sentimento con grande potenza retroattiva. Ci dicono che eravamo belli anche quando ci sentivamo brutti, che era divertentissimo annoiarsi magari con le compagnie sbagliate, che quei vestiti orribili ci facevano fighi, che siamo così, nel bene e nel male, perché c’è stato un momento in cui di cosa saremmo diventati non ce ne fregava un tubo.
Insomma il cassonetto non allontana l’infelicità, né restituisce la felicità perduta. È un modo per chiudere una storia senza saper trovare un finale adeguato.

Questa foto

turchia-bodrum-bambino-siriano-profugo-migrante-morto-spiaggia-ansa-ap

Non è un problema di occhi, ma di cuore. Legittimo è non volere vedere la foto del bambino siriano morto sulla spiaggia, sbagliato è meravigliarsi se altri la mostrano. Non sarà la pietà per quel corpicino a nasconderci dalla realtà. E tanto più la realtà è orribile quanto più serve cuore. Io quella foto l’ho guardata e l’ho giudicata una delle immagini più atroci che mi sia capitato di osservare. All’inizio, lo confesso, l’ho guardata quasi di nascosto come se dovessi provare vergogna. Poi però mi sono alleggerito del senso di colpa dopo aver visto la prima pagina, magistralmente cruda, del Manifesto. E mi sono detto: sì, anche io l’avrei pubblicata.
In queste ore il partito dei contrari alla pubblicazione di quell’immagine, particolarmente attivo sui social network che sono una specie di luna park delle idee più balzane, tocca le corde del rispetto per la persona (tanto più che si tratta di un bambino) e addirittura, per noi giornalisti, quelle della deontologia professionale.
È appunto una questione di occhi e di cuore.
Guardando quella foto solo con gli occhi c’è tutto il panorama di requisiti per decidere di non pubblicarla: dalla durezza del contenuto alle indicazioni della Carta di Treviso. Invece chiamando in causa il cuore, che non è fatto solo per riciclare sentimenti a buon mercato ma anche per cercare di guardare oltre l’emozione più immediata, è evidente che siamo davanti a un manifesto, a una sorta di icona del dramma del nostro tempo. Ecco, credo che noi giornalisti in questi casi dobbiamo essere in grado di setacciare tutte le nostre intenzioni, di scendere dai pulpiti ai quali siamo perennemente abbarbicati, di non crederci fari ma solo fiammelle, e fare l’unica cosa che può alleviare il nostro conseguente senso di inutilità: distinguere le storie dalla storia. Ed è inutile andare a ravanare nell’etica quando ci si trova davanti a decisioni così difficili. È stato così, com’è giusto, per immagini che hanno fatto la storia: Eddie Adams vinse il premio Pulitzer nel 1969 con l’atroce scatto in cui un generale sudvietnamita spara alla testa di un ufficiale vietcong a Saigon, Nick Út se lo aggiudicò nel 1973 con l’immagine simbolo della guerra del Vietnam, il New Yorker sconvolse il mondo nel 1946 con un reportage choc sulla bomba di Hiroshima, e così via.
Credo che in questi frangenti non servano sermoni buonisti né ramanzine cripto-professionali. C’è un motivo per cui un buon giornalista affronta i fatti in prima linea: perché deve essere addestrato a non dare lezioni anche quando la tentazione è forte.
Insomma servono cuore e memoria per capire se e quando ci troviamo dinanzi a un evento che non ci lascerà uguali a prima.
Ecco, io credo che questa foto non mi mollerà mai.

 

La verità sulla Lussana

La deputata della Lega Nord Carolina Lussana si è fatta autografare dalla sua collega Alessandra Mussolini le foto del Duce. Tutto ciò è accaduto in aula a Montecitorio mentre si votava la fiducia sul Ddl anticorruzione.
In molti si interrogano – e si interrogheranno a lungo – sui motivi della richiesta della Lussana, sulla ratio del gesto. Io sommessamente ho la spiegazione: la foto della Lussana. Più chiaro di così…

Il loook scacciacrisi

Il Corriere propone una fotogallery con Nicole Minetti che sfoggia quello che viene definito un “look scacciacrisi”. A voler essere pignoli si potrebbe osservare che la cintura di Hermes, ben visibile nella foto, tutto è tranne che un simbolo di austerità e di risparmio. A voler essere accomodanti si potrebbe trovare una giustificazione qualsiasi per quelli del Corriere secondo i quali qualunque foto della Minetti val bene una gallery.
Tutto e il suo contrario, l’importante è che seduca.

Tante cose belle

Tra le foto del mio passato c’è questa, che non mi appartiene e non mi ritrae. E’ una foto che per la leggerezza del gesto e per il momento che ferma, mi è sempre rimasta in mente come qualcosa di vago e bellissimo. L’avevo vista una volta molti anni or sono, ero anche presente quando fu scattata, ma nulla di più. Poi, qualche giorno fa, ho chiesto ai miei due amici che sono immortalati nello scatto di averla. Perché? Perché mi piace, perché la voglio pubblicare sul mio blog. E perché – loro lo hanno appreso un po’ sbalorditi – fa in qualche modo parte del mio passato pur raccontando un’altra storia felice, la loro.
Quindi eccola qua.
Dobbiamo essere egoisti e spregiudicati con le cose belle.

Sogni olimpici

Date un’occhiata a questo bel progetto multimediale di Tony Gentile.

Quelli che corrono

Mi segnalano questo bel video dedicato alla maratona di Palermo del 20 novembre scorso. E’ un po’ lungo, ma è assai probabile che se vi cercate, vi trovate (io e mia moglie siamo almeno in quattro scatti).
Le immagini sono dei soci palermitani dell’UIF (Unione Italiana Fotoamatori): Giuseppe Ajello, Maurizio Anselmo, Elio Avellone, Angelo Bonanno, Paolo Carollo, Lino Castronovo, Salvatore Clemente, Mariarosa D’Alessandro, Rosellina Garbo, Riccardo Gueci, Nicola Gullifa, Domenico Pecoraro, Mario Sapienza, Vincenzo Smriglio e Pino Sunseri.

Il fotografo Mangione

Una delle foto (di cui avevamo parlato qui) del nostro amico Salvatore Mangione è anche su Vogue di novembre.
Auguri.

Con quella faccia da straniera

Le prime pagine dei giornali di oggi. Notate qualcosa di strano?

Grazie a Giuseppe Giglio.