Siamo zaino

Siamo zaino e portatori di zaino. Viviamo per caricarne uno e svuotarne un altro. Lo teniamo in spalla ma ci siamo anche dentro. Perché uno zaino è casa, e una casa è vita.
Chi ha mai viaggiato con uno zaino con dentro tutto tranne che le mura e il letto di casa, conosce il livello di amore e odio che si instaura con un manufatto del genere. Parliamo di una cosa che ti metti in spalla come una croce, che ti trascini come un peccato originale, che proteggi come un tabernacolo.
Per la maggior parte di quelli della mia generazione lo zaino è protesta, controcultura, passato che non ritorna. Per quelli che sono venuti dopo è perlopiù un attrezzo desueto, quasi da barboni o comunque una cosa poco pratica, poco igienica, da tenere nel ripostiglio.
Per me invece – e per un manipolo di altri viaggiatori di ogni latitudine generazionale – lo zaino è un raro esempio di simbolo che diventa catalizzatore: libertà è la parola che mi viene, e non so se a voi ne viene una migliore (minchia, meglio di “libertà” cosa c’è nella vita?).
Ora che la mia porzione di Francigena è terminata ho chiare alcune cose.
Innanzitutto che la mia esperienza con questo cammino italiano è conclusa. La Francigena è un itinerario di persone più che di luoghi, è bistrattata da chi si occupa di turismo e cultura, ed è bellissima malgrado tutto. Ha passaggi di traffico pericolosissimi, ha Comuni che se ne fottono delle sue potenzialità, ha tappe dove non c’è nulla da mangiare e da bere in agosto mica a dicembre. Ma ha soprattutto un patrimonio umano pazzesco, tanti piccoli centri arroccati in posti impossibili, un campionario di ospitalità ineguagliabile, un assortimento di storie, sacrifici, scommesse che diventano tesoro non appena varcano la soglia del ritegno familiare, della discrezione paesana. Io mi sono immerso, per delicata volontà dei miei interlocutori, in storie memorabili. Ho camminato nel buio della notte senza luna senza mai aver paura di perdermi e ho goduto di una pizza nel posto più improbabile per una pizza, ho costeggiato ettari di terra coltivata a pomodori e ne ho mangiato il giusto per rimanere al di sotto della quota umana possibile, ho trovato chi voleva ascoltare le mie storie in una piazza improvvisata (che gioia, che emozione!) e chi invece voleva raccontarmi le sue all’ombra di un castagno, ho scalato con fatica l’ignoto e mi sono confessato con sincerità con ignoti (più difficile la seconda).
Poi con la mia amica Sarah (la trovate qui) abbiamo imbastito, nei rari momenti di connessione social, un parallelismo di Cammini: io sulla Francigena, lei sul Cammino Portoghese. E lì ho stravolto la mia bibbia sociale applicata a queste cose. Lei che è molto cattolica, e altrettanto femmina, va in chiesa con la naturalezza con cui va dal parrucchiere. Che, se ci pensate, è un bel messaggio: non è mai troppo tardi per una bella messa in piega dell’anima. “Perché ‘sta storia che la pellegrina deve essere pulciosa deve finire…” dice, e lì ci sarebbe da ricostruire tutta un’iconografia del sentire comune soprattutto della sinistra italiana, con ampia licenza di metafora.
Nella conclusione del mio cammino oggi ho affrontato una salita tremenda – quasi sette chilometri di scalata, più che salita – e da qualche migliaio di chilometri lei ha confermato a proposito dei suoi dislivelli: “Ho visto più bestemmiatori su queste salite che allo stadio” ha scritto dal Portogallo. Conoscendola, so che dio non smentirebbe e, magari, convocherebbe il suo CDA in sessione estiva.
Di questo cammino mi resta, a parte la felicità di tutti queste centinaia di chilometri (manco li ho contati), la consapevolezza che col sapone di Marsiglia ho lavato tutto e di tutto, tranne che i denti. Che siamo abituati a detestare le zanzare solo perché non conosciamo il potere demoniaco delle formiche e soprattutto delle mosche. Che con certe temperature nell’estate padana (ed era il caso di fargliela fare a Bossi e Salvini ‘sta Padania a patto che col caldo restassero tutti confinati nella loro bella repubblica indipendente/rovente), ti stupisci di scegliere se l’ultimo goccio della borraccia deve andare sulla testa rovente o nella gola arsa. Che, se provi a usare Google Maps cedendo alla pigrizia tecnologica anziché fidarti delle mappe su carta, nella maggior parte delle volte finirai in un sentiero cieco, meritatamente sperduto.
Insomma ridiamo, scherziamo, rubiamo tramonti a posti che abbiamo visto di striscio, citiamo autori che mai abbiamo letto, ci impadroniamo di musiche che non conosciamo, usiamo “Easy” dei Commodores per le storie di amore senza sapere che la canzone parla di un amore di cui l’autore si è finalmente liberato, e via condividendo. Alla maggior parte di noi di queste cose non gliene frega niente.

Ecco perché alla fine di questa cronaca – che è sì telematica ma soprattutto umana, ergo analogica – mi piace pensare che siamo zaino e portatori di esso. Perché il giorno in cui ci sarà il liberi tutti, senza zaino non si salverà nessuno.

10-fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Tipo suocera

Sono alla penultima tappa della mia Francigena e mi godo la Lunigiana, un gioiello incastonato tra Toscana e Liguria. Soprattutto gioisco per la disponibilità dei suoi abitanti. Le tappe del Cammino qui sono abbastanza faticose perché si sale e si scende (ovviamente i miei approdi sono sempre nel punto più alto, manco a dirlo). Sullo sfondo ci sono le Apuane a ricordarti che in fatto di salite potrebbe sempre andare peggio, mentre intorno a te sfilano castagneti e viti e i sentieri sono spesso pieni di rovi (ho gambe e caviglie tigrate tipo fuseaux della Santanché di altri tempi). Alla fine della camminata – arrivo con la bava agli angoli della bocca in stile Arnaldo Forlani al processo Cusani – c’è però sempre una piacevole sorpresa. Il “sempre” è una mia relativizzazione poiché è bello cedere ogni tanto all’illusione che ciò che è per te possa essere felicemente per tutti: lo dico a quelli più pignoli (leggasi attenti) con il ditino alzato per via della mia crociata contro il sempre e il mai.  

È accaduto nelle due tappe di Filetto e Aulla. Nella prima, all’agriturismo Il Montale ho provato il relax di un biolago, una piccola distesa d’acqua dove tutto sembra finalmente stare al suo posto, e la gentilezza dei coniugi che gestiscono la struttura.

Nella seconda, all’agriturismo La Selva da dove scrivo adesso, sono reduce da una cena indimenticabile nel cuore della campagna: una persona ha cucinato solo per me e si è persino accollata la scocciatura di chiacchierare. Va detto che io sto zitto per tutta la giornata dato che cammino da solo e penso, e ascolto musica, e fingo di risolvere problemi, e scrivo sulla mia agenda (prezioso regalo di Vera Werber-Ahrens), e ripenso, e guardo dove metto i piedi, e faccio promesse che non manterrò, e rido da solo, e ogni tanto mi commuovo, e cerco di non passare per pazzo le pochissime volte che incrocio anima viva. Quindi, alla fine ma non sempre, quando trovo gente simpatica e interessante, parlo. Anzi peggio: faccio domande, tipo suocera.

Qui in Lunigiana sono in Toscana ma loro non sono toscani. Manco lo parlano il toscano. Sono mezzi liguri e mezzi emiliani, anche nella cucina. A conferma del fatto che la geografia è un confine che nulla ha a che fare con la cultura di un popolo: e noi siciliani ne sappiamo qualcosa.

Sono stato fortunato, a parte la parentesi di quel postaccio a Pontremoli (Podere Magaiana, prendete nota per scegliere dove non andare mai), perché ho incontrato talenti che mi hanno stupito: ieri ero in un posto in cui si coltiva lo zafferano e mi hanno raccontato dei fiori che si raccolgono all’alba e si aprono uno per uno per estrarre il prezioso pistillo (chiedo scusa se non sono preciso): la notte ho sognato di rotolarmi in un’orgia di risotto.

Oggi mi hanno spiegato la magia della cucina povera di un territorio ricco di materie prime: panigacci, testaroli, farina di castagne e focaccette. Stanotte se dovesse capitarmi di dover scegliere l’orgia nella quale immergermi opterei per qualcosa di davvero frizzante: Alka Effer?

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Il guinzaglio di Dio

Mamma mia quanti arretrati.
Ci eravamo lasciati in a sentimental mood e, tralasciando il mero contingente, avevo diluito sudore e progetti in una accattivante minestra di buone intenzioni.
Bene, vi do una notizia. La minestra è finita. Si torna al vecchio, caro cinismo che, come la dinamite di certi film hollywoodiani, abbonda ma non colpisce mai le persone che se lo meritano.

Riassunto veloce: la parte succosa sta dopo.

Ho mangiato gricie rivisitate con la “gola” al posto del “guanciale” e il parmigiano al posto del pecorino (conto di rimettere le tessere al loro posto a Roma tra qualche giorno, se Dio vuole). Ho assaggiato prototipi di salumi stagionati col vino per cui mi è stato chiesto anche un parere sul nome da registrare (un onore!). Ho bevuto Gutturnio fermissimo ed evitato come la peste ogni forma di Lambrusco. Ho fatto aperitivo con un’indimenticabile crema di parmigiano e miele. Insomma ce l’ho messa tutta per far diventare questo blog una guida enogastronomica, ma il peccato originale di difficoltà/capricci alimentari del titolare minano alle fondamenta ogni ottimistico progetto in tal senso.
Ho evitato branchi di cani, quasi rincoglionendoli tipo incantatore di serpenti. E quando uno di questi animali incurante di sussurri rassicuranti stava per azzannarmi, mi ha colpito il grido disperato della padrona, a distanza di (in)sicurezza: “Stia attento, quello è sordo!”. Un cane non udente rischiava di farmi diventare camminatore non deambulante. Ma Dio, evidentemente, oltre a vedere e provvedere ha anche un guinzaglio lungo: e se lui, anzi LUI, strattona sono cazzi. Sempre sia lodato.
Ho dormito in posti quasi senza luce (e mi meraviglia non tanto il buio delle stanze quanto la presunzione di chi pensa che le persone non leggano) e in altri che brillano di luce propria come La locanda nel vento a Calestano con una titolare appassionata di cammini e di umanità: un dialogo di un quarto d’ora con lei vale già il prezzo del soggiorno.
Sono finito in un agriturismo nei pressi di Pontremoli che è un postaccio per colpa di chi lo gestisce. La struttura è bella, c’è pure la piscina. Ma il titolare è uno che sta lì a sbuffare e pare che gli state rompendo i coglioni: per non sbagliare si fa pagare il triplo di un B&B in zona, eh. Ma per quest’argomento rimando a recensioni in spazi appropriati.
E poi ho camminato, camminato, camminato. Lasciata la pianura, è iniziata la salita dell’appennino. Ma questa è roba di ordinaria fatica.

Invece andiamo alle cose serie.

Stasera in quest’angolo di mondo che è Toscana, ma è soprattutto strada di passaggio (sulla Francigena, sulla via per il mare, per i grandi itinerari turistici) si è verificato un bug non inconsueto per il camminatore seriale: capire dove cazzo mangiare senza doversi consumare i sandali in una marcia olimpica.
Il simpaticissimo titolare dell’agriturismo annodando addirittura una mezza dozzina di monosillabi, che probabilmente metterà sul conto come extra, ha indicato una pizzeria dopo il passaggio a livello, a meno di un chilometro di distanza (questo lo aggiungo io perché per lui era un’informazione bonus). Mi sono incamminato con auricolari e playlist serale a palla, as usual. Dopo i primi passi ho iniziato ad avvertire un ronzio. Dopo un po’ il ronzio è diventato un ingombrante rumore di sottofondo. Ho alzato lo sguardo al cielo pensando: un aereo o chessò, dati i tempi, un meteorite. Niente.
Ho tolto gli auricolari e sono stato colpito dal beat di una musica da discoteca che mai avevo sentito. Prima che cominciate a sfottere è bene che vi ricordi che il sottoscritto in discoteca ci ha lavorato per anni. Certo era il 1981, ma la militanza resta, chiaro? Un microfono è come un diamante, è per sempre. Anche se costa e impegna meno… ehm.
Comunque mi sono lasciato guidare dal batticuore per trovare la fonte di quel suono assordante. Quando sono arrivato all’origine di tutto, del male e dei decibel che da esso promanavano credevo di avere sbagliato.
Una pizzeria!
Nel cratere di quell’esplosione di suoni? Ma chi ci sopravvive lì senza adeguato supporto lisergico?
Invece sotto un palco di amplificatori alti quanto un palco appunto, c’era un pizzaiolo che con un forno elettrico montato su un’Ape Piaggio sfornava pizze per la popolazione inebetita che gli girava attorno. Sembrava un film con spunti rubati a Kubrik, Brass e Sorrentino. Musica, rossetti, l’Ape, vecchi, pomodoro, ragazze, telefonini, sudore, urla.
La pizzeria, o quel che voleva essere, soggiaceva secondo uno schema orwelliano a regole ferree: si paga prima di mangiare, non è detto che ci sia dove sedersi, si divora senza posate, non si fanno domande perché non si possono avere risposte per via del frastuono, mica per sgarbataggine degli addetti (probabilmente tutti sordi).
Ho pagato 15 euro per una pizza e una birra. Ma la pizza era, lo giuro, un boccone in più e una tonnellata di gusto in meno di una pizzetta di Graziano. Soldi ben spesi però per lo spettacolo che non era sul palco degli indemoniati, ma tra i tavolini di plastica ingiallita popolati da anziani in cerca dell’evasione del sabato, tra famiglie rincoglionite dai decibel, bambini inutilmente urlanti e sadici come me, drogati di cinismo e attrazione per l’orrido.
Forse domani il tizio dell’agriturismo me lo abbraccio. Quantomeno per sfregio.  

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Poi sono successe due cose

Comincio dalla fine. In una di quelle chiusure inaspettate che ti segnano perché dobbiamo smetterla di vivere d’impeto e ci tocca imparare che la realtà ha tanti strati, come un tiramisù o come una lasagna, a seconda della propensione (io sono per il salato, forever).
Dopo una giornata di pioggia e vento infernali – ho preso più acqua di quando ero semi-annegato in moto alle Lofoten – sono arrivato nella tana di oggi, a Fornovo. Ed è stata la tempesta dopo la tempesta. La persona che doveva ospitarmi, in un posto peraltro molto bello, non si è fatta trovare: ha detto, via sms, di non essere in Italia, di non sapere nulla della prenotazione, ma che comunque avrebbe cercato di risolvere. Non sapeva nulla poveretta, ma il corrispettivo per la stanza se lo era incassato da una settimana. Insomma, come immaginate, ero pronto a dar fuoco alle polveri.

Poi sono successe due cose.
La prima è che un signore spaurito mi è venuto ad aprire, quasi in coincidenza con l’abbattimento del cancello a suon di mie imprecazioni. Non sapeva nulla, era diffidente e ciò aumentava il mio stato d’ira. Poi, illuminato da un raro lampo di lucidità, ho intuito.
Quell’uomo mi seguiva confusamente, aveva sbalzi di umore, cercava una complicità muovendosi a una distanza che definirei onirica.
Ci siamo seduti al riparo dalla pioggia e ha cominciato a raccontarmi la sua vita: la famiglia, il Cabernet che coltiva, il tempo che cerca di far passare. Tutto in una macedonia di frasi, silenzi, occhiate, passi incerti, ammiccamenti e sguardi ostili.
Il disagio degli altri ha questo di taumaturgico: se lo fai tuo – senza aspirare a premi e cavalierati vari – ti eleva al livello dell’altro anche se è più basso. Quando unisci con un filo due persone che per via dei nodi – più cappi che scorsoi – della vita non potrebbero unirsi mai, hai fatto bingo, hai raggiunto un minimo di scopo.
Nel frattempo la padrona di casa dall’estero telecomandava una persona per cercare di sistemare le cose: lenzuola, asciugamani, kit bagno, eccetera.

In serata è accaduta la seconda cosa.
Mentre ero in veranda a scrivere (tipo una stroncatura del posto in cui mi trovavo) è arrivata una signora molto distinta e di garbo stratosferico: la mamma della padrona di casa, quella in vacanza che ha incassato a sua insaputa. Si è scusata per il disagio, si è sorbita una mia tiritera tritacoglioni e solo dopo, dal nulla, ha tirato fuori un vassoio di dolci. Lì ho sorriso e le ho chiesto di sedersi.
Abbiamo chiacchierato al fumo di uno Zampirone, mangiando dolci e mettendo da parte le mie rimostranze.
Poi mi ha domandato: com’è andata stamattina con mio marito?
Lì sono sprofondato improvvisamente negli strati di una realtà che avevo azzannato senza criterio.
E li ho visti lei e lui, una bellissima coppia, magri, raffinati, benestanti, colti, lui – ho appreso – con una decina di brevetti. Ho messo insieme i puntini e mi è venuta fuori quest’immagine di marito e moglie felici, in una fetta d’Italia non ancora inquinata dalle porcherie che noi, di altre latitudini, ben conosciamo: vita di campagna, Emilia buongustaia, aria pura, futuro accessibile.
Li ho visti così mentre lei mi raccontava dell’Alzheimer di lui e ringraziava il cielo che non avesse combinato sfaceli con me. E nel farlo, nascosta nella penombra della sua tenuta inutilmente grande, stringeva con una mano il bracciolo della sedia e con l’altra faceva finta di togliersi qualcosa da un occhio.
Mi sono sentito una merda, mentre trangugiavo dolci e cancellavo di gran fretta il file per Tripadvisor, davanti a quella donna che continuava a scusarsi per qualcosa di cui non c’era giustizia che si scusasse. Quando se n’è andata ho scritto queste righe.
Viviamo d’impeto e ce ne compiacciamo, sputiamo giudizi come ossi di olive senza piattino, togliamo tempo all’esperienza e non riusciamo a capire che ogni minuto rubato a una riflessione è un lustro regalato alla dissennatezza.

Ecco, oggi avrei voluto raccontarvi delle mie avventure con uno zaino, due gambe e mezzo cervello in giro per l’Italia a piedi.
Invece chiudo qui. Ci sono storie a lunga lievitazione e io ora devo dedicarmi a quella che vi ho appena narrato.
A domani.

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Scorciatoie ovvero sveltine

Qualche giorno fa avevo accennato alle scorciatoie mentali, rinviando la discussione a un altro momento. Che ora è arrivato.
Scrivo da Fidenza, tappa importante della Francigena, nella consueta serata post-sfacchinata: del resto la giornata è talmente piena di gioia, stupore e fatica che solo a sole calato si riescono a trovare il tempo e la lucidità (lucidità è parola improvvida con questo caldo e questi insetti) per fermarsi e narrare.

Stamattina, mentre scarpinavo sotto un sole ancora più forte di quello di ieri – con una distanza quasi doppia e al contempo con la metà degli alberi – per contrappasso mi è venuta in mente la storia delle scorciatoie. Perché, in partenza, avrei potuto ridurre notevolmente l’itinerario uscendo dalla Francigena e sorbendomi la strada statale, ma così avrei perso ogni riferimento con lo spirito di questa tappa: che è pianura e pietre, verde e arsura, deserto e immaginazione. La scorciatoia sarebbe stata agevole, come la versione di comodo che diamo sui social quando citiamo frasi di scrittori che perlopiù mai abbiamo letto, per ribadire il nostro andare controcorrente, il nostro essere fuori dal gregge, il nostro essere forti contro le avversità. Poi, altrettanto perlopiù, non abbiamo il coraggio di mollare la persona che ci avvelena la vita, viviamo come reclusi tra lavoro e dopolavoro che è un prolungamento del lavoro solo che non è retribuito, e l’unico dito che abbiamo alzato per opporci è quello sul telecomando di una tv di cui un’altra persona paga le rate.
Pensavo che di persone così ne conosco. Forse, azzardo, se dovessi fare qualche numero direi che sto attorno al 35- 40 per cento delle mie conoscenze (conoscenze, non amicizie). E realizzavo che quella contro la tentazione per la scorciatoia è l’unica resistenza che oggi, dopo anni di fallimenti, mi riesce discretamente bene. Non per mia virtù, ma perché anche la psiche sviluppa i suoi calli.

La scorciatoia mentale, la più pericolosa delle scorciatoie, non ha nemmeno uno dei vantaggi di quelle di altro stampo o genesi. Geograficamente la scorciatoia ha le sue ragioni: si risparmiano tempo e fatica, poi magari si rischia sull’itinerario (a questo proposito mettiamo un segnalibro per le prossime puntate, perché le alternative di Google Maps sono ogni tanto esilaranti se non drammatiche).
Ma che senso ha inventarsi uno sconto sul ragionamento?
Ok, devo stringere perché oggi la riflessione è stata lunga come la strada, e probabilmente ha risentito della temperatura.
Per esperienza so che il caldo estremo (come il freddo) misto alla fatica ha questo di buono. Ti insegna a diffidare della peggiore delle scorciatoie: quella che ti impone di trovare al più presto un nemico per dimostrare coerenza con te stesso, coi tuoi ideali.
È un peccato che ci si debba ridurre assetati e mezzi rincoglioniti per apprezzare il passo lungo, il nastro di sentiero che scorre, la solitudine dei tuoi passi, la responsabilità dei comportamenti, tutti: con ampio dispendio di metafore.

So di cosa parlo perché purtroppo non sono sempre nello stato di grazia del camminatore o dello sciatore solitario. La scorciatoia nella maggior parte dei casi è una sveltina. È l’alibi comodo per le inadeguatezze che non sappiamo a chi accollare, ma che sono solo nostre. Tutti lo sanno, nessuno ce lo dice: perché vige un sistema di reciprocità della minchiata col quale manco i complottisti di QAnon riescono a tenere il passo. È questa una delle emergenze del nostro ordinario, che ci crediate o no. E se non ci credete cazzi vostri, ma cercate di non farmelo sapere.
Bando alle chiacchiere, pensateci: quando non potete prendere sonno e avete la fortuna (!!!) di avere qualcuno accanto che vi racconta una storia, avreste mai il coraggio di chiedere una short version?
Ecco, funziona così.
Sempre.
Quando camminiamo sulla Francigena, quando ci spalmiamo sulla sabbia di una spiaggia tropicale, quando ricicliamo il pranzo dai parenti come evasione e la felicità col coniuge cornuto come vera realizzazione di un amore che abbiamo pestato sotto i piedi.
La dignità è fatica perché ammette gli errori. La scorciatoia è fatica inutile, perché gli errori si illude di cancellarli.
Dal senso della vita al senso del ridicolo il passo – soprattutto trattandosi di cammino – è breve.

7-continua

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Le misure non contano

Le misure non contano. Almeno quando si tratta di distanze, sul resto ho idee non pubblicabili. Quando dovete percorrere un itinerario la prima cosa che fate è guardare la distanza. E istintivamente vi comportate di conseguenza: felici se è breve, preoccupati se è lungo. E qui sta l’errore!

Esperienza di camminatore insegna che il chilometraggio è solo uno dei parametri da considerare in un cammino. Gli altri, non meno importanti, sono il dislivello, la presenza di fonti di acqua o di punti di ristoro, e soprattutto la temperatura e le condizioni meteo.
Ad esempio, la tappa che mi ha portato ad Alseno, ridente località dell’Emilia, oggi era di soli 13 chilometri. Una bazzecola. Invece erano 13 chilometri con un sole a picco, senza una sola fonte, in mezzo a lande dalla terra spaccata, con tanto di borgo fantasma, e soprattutto con sei alberi, e relativa ombra, in tutto: cioè uno ogni 2,1666 chilometri col 6 periodico.
Ovviamente non è la prima volta che mi accade una cosa del genere, ma oggi è stata faticosa (e a suo modo unica) perché il mio approdo era un B&B nel nulla della landa emiliana. La casa che mi ospita è infatti a 3,5 chilometri dal centro principale ed è circondata da campi di pomodoro e pollai: a questo proposito mi sono reso conto che oggi ho mangiato almeno due chili di pomodoro, così strada facendo, e ho incrociato due galli che facevano la ronda fuori dal loro territorio, più permalosi dei cani da guardia.
Il B&B in questione è gestito da una madre e un figlio abbastanza giovani e abbastanza strani da farmi venire in mente Psyco. Sono stati estremamente gentili non appena mi hanno visto arrivare moribondo al cancello, mi hanno offerto acqua e pomodori (uno dei due chili). Ma il colpo di scena è arrivato più tardi, quando ho chiesto informazioni su un posto in cui poter cenare. Mi hanno dato due indirizzi, a tre chilometri e mezzo di distanza (al solito, 3,5 più 3,5 fanno 7 chilometri da mettere nelle gambe). Ebbene, solo arrivato in paese ho scoperto che questi ristoranti/pizzerie non esistono più da oltre due anni: finiti, chiusi, spariti.
Non vi nascondo che ci ho pensato prima di decidere se tornare a casa al Bates Motel o dormire su una panchina, nella serena disperazione di una cittadina deserta.
Comunque il problema del ritorno lo avevo messo nel conto oltre che per le ragioni di cui sopra, anche perché gran parte della distanza da coprire è su strada provinciale stretta e senza marciapiede.
Caratteristica di questa strada: non passa quasi mai nessuno, ma le poche auto che passano vanno a duecento all’ora. Che è quello strano fenomeno per cui quando devi giocare a chi ce l’ha più lungo fai il gradasso solo se sei senza concorrenti. Soprattutto al calar del sole. Ecco il secondo comma della mia paranoia sulla strada: il buio. Per questo ho deciso di cenare a orario altoatesino, tipo alle 18,30. Con la pizza che scendendo nel mio esofago si guardava intorno spaesata chiedendo se era lì per l’aperitivo o per sbaglio.
Infine nel nulla di questa landa dove manco il cellulare prende – la Vodafone, a turno dopo i casini di Dazn, dovrà spiegare perché in questa zona dell’Emilia, quindi in piena Italia mica allo Zen di Palermo dove peraltro i cellulari, almeno quelli, funzionano benissimo, la copertura è scarsissima – un refolo di 4… 3… 2G mi ha mostrato le immagini social delle vacanze intraprese dal popolo delle mie timeline.
E la cosa mi ha fatto sorridere perché ho imparato che l’indole delle persone, i loro gusti, persino la loro fantasia, si misurano da come trascorrono le vacanze. E, va detto, non c’è un modo giusto e uno sbagliato. C’è un ambito, c’è una esigenza, ci sono ragioni sociali e ragioni di buon gusto. Come la cultura, la cui fruizione ha mille sfaccettature, il viaggio delle vacanze rispecchia chi siamo e soprattutto cosa ci aspettiamo di diventare.
Detto questo, che minchia ci fate tutti a Pantelleria con l’etichetta “wild wild wild” nelle vostre storie social?

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Zanzare e onanisti

Se c’è una parola di cui negli ultimi due anni abbiamo abusato, quella parola è resilienza. Nelle strettoie del lockdown e nelle torture sociali della pandemia ci abbiamo messo dentro tutto quello che probabilmente non conoscevamo e che eravamo costretti a far finta di conoscere, ob torto collo. Solo che in realtà quella non era resilienza, ma semplice scelta obbligata. Perché mai un trauma e un periodo conseguentemente traumatico era mai stato così globale. Banalmente era così per tutti. Quindi la diluizione del mal comune abbatteva i pilastri dell’essenza di quella resilienza che in qualche modo richiama una sorta di eccezionalità nel saper resistere a ciò che è duro, difficile, arduo.
La conferma a questa tesi viene dalla semplice constatazione del dopo.
Chi resiste davvero si fortifica?
Ne usciremo migliori. Ricordate?
È andata com’è andata. E ne siamo usciti ben peggiori.
Quelle difficoltà non ci hanno insegnato un bel nulla. Probabilmente perché erano difficoltà spalmate su un pianeta che le trasformava istantaneamente in consuetudine.

Il preambolo – troppo lungo, ma non mi va di accorciarlo – mi serve per agganciarmi all’esperienza di questo agosto 2022: Via Francigena, Italia, uno zaino, un cristiano, una giovinezza perduta, una tappa al giorno, una scoperta continua, un futuro da trattare con rispetto.
La resilienza che sto collaudando, in questo momento, ha a che fare con un tavolo sgangherato in un paese che si chiama Roveleto e che, così a botto, vi pare un refuso.
Invece in questo viaggio a tappe in un’Italia senza vetrina, sto imparando che noi siamo i narrati e i narratori e che aspettando il giorno in cui qualcuno dovrà prendere carta e penna in mano per scrivere, nessuno narrerà. E questo non va bene in questo paese distratto, più onanista che autoreferenziale.
Comunque, dopo una giornata di cammino non troppo impegnativo (19 chilometri in pianura sono poco più di una passeggiata in questo frangente), stasera mi nutro di una pizza stracotta – io la preferisco poco cotta ma vabbè – e più di me si nutrono le zanzare che se ne fottono di Vape, Autan e altri rimedi la cui efficacia rimanda alle sanzioni europee contro Putin: molta réclame, nessun effetto visibile.
Ecco, il vero paradigma sul quale tarare un modello eterno di resilienza non è un virus, ma un insetto. Un minuscolo essere vivente che tu vorresti estinto ma che gli scienziati proteggono come totem della biodiversità, o come cazzo si chiama. Il Coronavirus ci ha insegnato che siamo fragili, la zanzara che siamo abnegati.
Domanda. Perché mai dovremmo stare in una terrazza o su un balcone vista qualcosa a scegliere tra lo spolpamento a carne viva e l’intossicazione da Zampirone?
Risposta. Per allenare il più nascosto e complicato dei nostri muscoli: quello della resilienza (io da maschio so dove si trova ma non lo dico per decenza, le femmine ci pensino loro…).

In questa Francigena la zanzara è l’apostrofo rosso (sangue) tra le parole “mi gratto”. Dite che l’apostrofo non ci va manco spingendo a spalla?  Vabbè ne avanzate uno, o più di uno, come bonus per tutte le volte che scrivete po’ con l’accento, facendovi prendere in ostaggio dal T9.
Resilienza dalle minchiate, oh yeah.     

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Non c’è problema

Ho scritto un messaggio a un caro amico e collega, uno che lavora attivamente nei giornali, mica come me che approfitto dello spazio che mi concedono: “Bisognerebbe farsi l’Italia a piedi, fuori dai grandi circuiti (turistici, economici, politici) e raccontarne le storie. Molto istruttivo…”.
Perché da questa Francigena personalizzata ciò che sto traendo ha a che fare con le vicende umane, più che altrove, in altri viaggi in giro per il mondo.
Il merito è innanzitutto del mezzo sul quale viaggio: le mie gambe. Muoversi a piedi, più che farlo in bicicletta (per citare il parente stretto della camminata), ha un effetto di moltiplicazione delle sensazioni. Una specie di catalizzatore di emozioni. Ti muovi lentamente, con il tuo zaino sulle spalle, aspetti e pregusti, soffri e godi, sudi e ringrazi. Non esiste, a mio parere, esperienza così totalizzante come un lungo viaggio a piedi, senza sherpa e passaggi abusivi, senza scorciatoie fisiche e soprattutto mentali (un concetto sul quale torneremo prossimamente).

In questi giorni le uniche persone che ho incontrato sulla Francigena erano fuori dalla Francigena: il percorso dei camminatori è praticamente deserto, perché di questa parte del cammino non gliene frega niente a nessuno, col caldo, le zanzare e la maggior parte dei centri vitali chiusi per ferie.
Anima di giornalista impone: laddove non va nessuno, tu ci devi essere.
Questa è la teoria.
La pratica è che mi piaceva riprendere da dove mi ero fermato lo scorso anno (con un piccolo sconto di sacrificio nelle lande impossibili del Vercellese).
E il mio passo continuato diventa esperienza umana col contadino di Gambolò (andatevelo a cercare questo posto) che ha un piccolo B&B e che si offre di farti parcheggiare la macchina per il tempo necessario al tuo cammino, nel mio caso 15 giorni, senza chiederti nulla in cambio: “Ho spazio lì, se non le secca”. Ed è magia constatare che il riposo di una Toyota Hybrid sarà accanto a un trattore alto due metri e passa: la pacificazione del progresso con la tradizione, di ciò che arriva con ciò che consente che arrivi. Senza trattori non saremmo nulla, ricordiamocelo noi stolti cittadini freschi di manicure.

A Gropello Cairoli mi trovo in un posto splendido, Villa Cantoni, gestito da una coppia di curiosi, la migliore categoria di persone che esista. Quando capiscono chi sono e cosa ci faccio (lì e altrove) improvvisano un aperitivo per liberare la loro voglia di raccontare. Il posto in cui siamo trasuda storia. Casa natale del filosofo Carlo Cantoni e crocevia di antiche passioni risorgimentali, l’edificio, circondato da un giardino maestoso, meriterebbe un museo. Se ci fosse stata mia madre, avrebbe prenotato per i prossimi sei mesi. Ma si tratta di una cattedrale nel deserto, infatti Gropello Cairoli pur essendo inserito nel circuito della Via Francigena, non ha altro da offrire in questo periodo. Manco un ristorante, a parte un postaccio di affabili volenterosi dove puoi scegliere se mangiarti un panino sulla strada a favore di scappamento, all’interno con 35 gradi, o in una specie di cortile disastrato tra contenitori dell’immondizia e zanzare col bidoncino.

Chiusa la parentesi del misfatto di Pavia dove, come vi ho raccontato, un tale pretende di spacciare una stamberga per un appartamento in cui (soprav)vivere ad agosto, c’è la storia più emblematica di quelle raccolte finora.
Sono a Castel San Giovanni, Hotel Rizzi. Il percorso per arrivare qui è quasi tutto su asfalto, per fortuna la tappa è breve: appena 13 chilometri. L’hotel è distante dal centro abitato, in una landa semideserta: del resto se volevo trovare una accoglienza unz unz, andavo a Riccione.
Arrivo in tarda mattinata, come spesso accade, provato. L’hotel è deserto. Alla reception un ragazzo dissimula la pietà. Prendo possesso della stanza e sommessamente chiedo come fare a mangiare qualcosa. Il centro abitato è a due chilometri abbondanti: il che significa quattro chilometri a pranzo e quattro chilometri a cena. Otto chilometri in più per uno che viaggia a piedi (a 59 anni) sono un pessimo investimento sulle gambe che devono reggere sino alla fine.
Il ragazzo mi guarda e mi dice, con un fare che non so come reputo meravigliosamente meridionale: “Non c’è problema”.
Il tempo di farmi una doccia e c’è pronta un’insalata ricca come raramente ho visto. Fatta con le sue sante manine, che il dio dei receptionist lo abbia in gloria.
Più tardi incontro il proprietario dell’hotel, un tipo affabile e pacato, che mi spiega: “Solitamente in questo periodo chiudiamo il ristorante, ma siccome quest’anno ho alcuni dipendenti di una ditta che continua a lavorare nelle vicinanze, non mi è sembrato giusto piantarli in asso”.
Cucina on demand.
Nella grande sala ristorante (nella foto), che comunque mantiene tutti i tavoli apparecchiati (“sennò sembra triste”), siamo in otto a cenare stasera, cinque – i dipendenti di cui sopra – sono immigrati.
In cucina c’è il cuoco. In sala ci sono il titolare e la sua figlioletta che servono ai tavoli con una cura commovente.   
La cena è ottima. E, capite bene, non solo per il cibo.

4- continua

Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Libido social a picco

In un Cammino ci sono tappe faticose per la distanza e tappe faticose per il panorama. Gran parte della Francigena che scorre nella pianura Padana si barcamena tra questi due ambiti. Perché risaie e canali fluviali sono belli, ma il sole di agosto sta lì ad aspettarti passo dopo passo, chilometro dopo chilometro. E quando i chilometri sono venti, trenta e passa ti devi inventare qualcosa.
Da buon doc che fa bene i compiti io arrivo allenato: non solo per i muscoli, ma soprattutto per le temperature e lo stato mentale. Almeno quattro mesi prima di un cammino, in quanto ex maratoneta, comincio a mettere nelle gambe chilometri e clima, situazioni mentali e bagaglio sulle spalle. Come un maniaco mi alleno con uno zaino di almeno quattro chili (quello reale sarà intorno agli 11 chili) e soprattutto coi pensieri giusti. Perché la strategia vincente è tutta nei pensieri.
È una teoria che mi è capitato di illustrare più volte in dibattiti e interviste sul tema e che, per non annoiarvi, riassumo così: una missione in solitaria ha il vantaggio imperdibile che ti consente di indossare un pensiero ogni mattina, senza che nessuno ti possa imporre/consigliare di cambiare mood. Insomma, finalmente ti dedichi a una cosa tua, solo tua con la ragionevole certezza che se qualcuno ti romperà i coglioni sarà solo colpa tua.

La tappa di oggi era tra quelle da me più temute, perché ho scelto di fare una deviazione fuori dalla via ufficiale – la Francigena ha tappe impensabili dal punto di vista dell’ospitalità, con un grave sospetto di combine commerciale – e perché questo colpo di testa, lo sapevo, lo avrei pagato a caro prezzo: strada assolata, asfaltata, in certi tratti non proprio tranquilla.
Quindi il pensiero da indossare era fondamentale: scudo, ombrello, alibi.
La fortuna – e i consigli possono essere forme di fortuna – mi ha portato a “Quattro dopo mezzanotte” di Stephen King che, incredibilmente, non avevo ancora letto. Un librone di 800 pagine che per un camminatore con uno zaino per casa è un impegno non da poco. Va detto che da decenni King è il compagno eletto delle mie missioni in solitaria, dalle Alpi alle isole del Mediterraneo, da Capo Nord all’estremo ovest dell’Europa.

Stamattina il primo racconto del tomo di cui sopra mi ha dato lo spunto per il pensiero giusto. Che può essere scomodo sennò che gusto c’è a risolverlo? Le brodaglie si gustano comodamente. Quando la situazione è cazzuta ci vuole cibo giusto per la mente.
Perversioni a parte, che sono ovviamente fuori quota in questa trattazione, l’idea instillata dal Sommo nel suo primo racconto “I langolieri” è affascinante per chi fa qualcosa di non necessariamente allineato: e se ci fosse un interruttore del mondo che conosciamo? La possibilità che ci sia una fine della realtà e che il suo confine sia una non-realtà è cibo sopraffino per le teste indipendenti, cioè per quelle che non si impantanano nelle (legittime) questioni legate a chi resta, a chi deve essere campato, ad affetti più o meno sopportati.
Il camminatore solitario può avere in tal senso una marcia in più. Perché se anche il mondo finisse in quel momento non avrebbe altro che il suo zaino da stringere e difendere. Il resto si vede, e se non si vede vuol dire che non c’è.

Proprio stasera alcune persone mi hanno scritto chiedendomi consigli su questo genere di missioni. Ho risposto a tutte quante con lo stesso ammonimento: stabilisci cosa vuoi, non cosa cerchi. Camminare a lungo per fuggire non è, secondo me, un buon rimedio. Perché quando ti fermi, poi, i tuoi pensieri, o quelli che ti inseguono, ti raggiungono. Camminare per se stessi, con libertà assoluta di cambiare le proprie prospettive è altra cosa, eccitante e comunque formativa.

Ora chiudo. Con la consapevolezza che se si parla di libri, l’audience cala vertiginosamente.
Esempio. Stasera ho messo sui miei social una foto del libro che stavo leggendo a cena al ristorante (anziché stare attaccato allo smartphone come il 99,9 per cento degli astanti). Ebbene: è in assoluto il post meno letto nella minima storia delle mie condivisioni virtuali.
Come diceva quel tale: compagni, contiamoci.

3-continua

Le altre puntate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Eravamo io, un iraniano, un egiziano e una pizza

I Cammini sono fatti di passi. Alcuni anche falsi. Tutti i Cammini hanno una quota di imprevisto che va considerata ontologica e che non è scindibile dalla parte poetica e da quella prettamente fisica (i Cammini sono faticosi, devono esserlo altrimenti diventano passeggiate ai giardinetti).
In questo blog vi ho raccontato molti imprevisti: dalle strade sbagliate in piena montagna e senza copertura telefonica all’albergatore che si inghiotte la tua prenotazione lasciandoti all’addiaccio, stanco, sudato e incazzato (immaginate il conseguente mix micidiale di attributi rotanti).
Più prosaicamente, magari a favore di citazione, i successi sono impastati anche con la sabbia dell’insuccesso, che può avere varie graduazioni, ma qui non ci impelaghiamo in distinzioni sterili tipicamente social e altrettanto tipicamente stupide.
Un’avvertenza.
Scrivo queste righe da una pizzeria alla periferia di Pavia. Uno dei pochi locali aperti in questo periodo nella zona in cui mi trovo. Quando uno in estate cammina, e cammina a lungo, la sera non può farsi altri chilometri per sfamarsi dal momento che i piedi e le gambe sono già belli e andati: ma questo è l’ABC. Il vero disastro è girare con sandali (i piedi devono stare sempre nudi durante il riposo) e pantaloncini in luoghi frequentati da persone “normali”: non è proprio il passepartout per un ristorante stellato.

Insomma sono in una pizzeria dove il proprietario è un iraniano, con un egiziano che lo aiuta e un non meglio identificato locale che sovrintende alle paturnie del proprietario-pizzaiolo-manager. Dettaglio non troppo dettaglio, parlano tutti pavese. Nel senso che hanno un’integrazione attiva che certi malacarne improvvisati proprietari-pizzaioli-manager delle mie parti se la sognano. Quindi chapeau prima ancora di assaggiare.
Ho chiesto asilo in questo locale non solo per la pizza, ma anche per stare un po’ a scrivere, per i fatti miei.
Loro hanno sorriso.
Io ho chiesto cosa c’era da bere, of course.
Loro hanno tirato fuori il loro pezzo migliore, una Peroni ghiacciata (Fantozzi docet). Mi hanno fatto accomodare in uno dei sette tavoli vuoti del locale (questa è una pizzeria da asporto che non aspira ad altro) e mi hanno sparato un ventilatore in faccia: il fresco condizionato qui sarebbe un’offesa al buon nome del locale.

Insomma sono qui, con la mia Peroni e gli iraniano-egiziani sorridenti che si sbattono per tirare a campare. Una tranche de vie memorabile alla mia età. Perché io faccio il turista e loro stanno qui a trattarmi con riguardo non affettato. Io scrivo e loro stanno lì a sgobbare al caldo, che arriva anche al mio tavolo, ma grazie al ventilatore il fastidio diventa persino spunto di narrazione: siamo fatti di paragoni e troppo spesso sbagliamo a mettere a fuoco.
Sono finito qui perché ero stanco. E ora ci rimango perché, all’improvviso e senza alcuna giustificazione recensibile, sto bene. Al caldo nell’afa, con una birra che non berrei mai, in mezzo a un viavai di clienti che ordinano, aspettano impazienti e se ne vanno.

Perché sono finito qui?

La risposta sta nelle prime righe di questo post e la sublimo in una parola.
Imprevisto.
Una seconda parola, mi voglio rovinare.
Contrattempo (ma trattasi di sinonimo quindi non vale).
Avevo prenotato un appartamento in un posto che pareva figo. Si chiama Mood Villa Glori, tenetelo a mente quando volete scansare qualcosa. Un posto dall’altra parte della città, in centro.
Quando sono arrivato per prendere possesso della stanza, dopo venti e passa chilometri sotto il sole, non ho trovato nessuno. Ho cercato il numero di telefono nella prenotazione dell’agenzia e ho chiamato. La voce è stata sbrigativa: mi mandi foto della carta di identità e codice fiscale e le invio le istruzioni, si ricordi di lasciare 10 euro domani per la sanificazione (ma non avevo pagato un tutto incluso?).
Poi tutto accade via whatsapp.
Io eseguo e quello mi manda una schermata di istruzioni standard. E qui mi sarei dovuto insospettire: la schermata standard è piena di refusi e strafalcioni. Ma come, neanche ti dai la pena di scrivere qualcosa di personalizzato per uno che ti sta pagando (non poco) e per giunta mandi un jpeg che Marta Flavi al confronto è un Nobel per la Letteratura?
Niente, sono troppo stanco, sudato, sfatto.
Raggiungo la stanza e trovo una stamberga. In pieno centro, ma una stamberga. In fondo anche i portici delle Poste di Palermo sono in centro, ma dormirci sotto – se non sei un santo in terra come Biagio Conte – non ti fa certo sentire nel groove della città.
Seguono rapidi dettagli tecnici. Stanza angusta in cima a una scala angusta. Niente aria condizionata nell’estate più calda di sempre. Manco un campioncino riciclato di bagnoschiuma. Un solo interruttore per tutte le luci: che se tu vuoi leggere devi metterti a favore di plafoniera centrale e soprattutto alzarti, quando ti stai per addormentare, in modo che ti possa svegliare in tempo per recuperare il letto e non assopirti per terra.
Niente wi-fi, a parte una “saponetta” anteguerra messa lì per fare da comparsa. E soprattutto niente connessione ordinaria con il tuo telefono dal momento che alcune compagnie, tra cui la mia, lì sono in zona d’ombra: un dettaglio non indifferente se dialogate con un tale che non si manifesta di persona e che chatta solo via whatsapp. Della serie un muto dice a un sordo, ma il sordo ha già i soldi in tasca e di quello che il muto gli dice non gliene può fregare di meno.
Singhiozzo le mie proteste, non piangendo ma sperando nel refolo di connessione in questo angolo infausto di (in)civiltà, e faccio quel che alla fine mi riesce meglio. Mandare a fanculo, ahimè.
Imprecando mi trovo un’altra sistemazione con un corredo di problemi che a voi possono sembrare insignificanti e che io riassumo in poche parole: fatica, piedi doloranti, caldo asfissiante, voglia di doccia e letto.

E ora sono qui. Nel meraviglioso opposto del Mood Villa Glori.
Alla pizzeria Aselli.
Col ventilatore che mi allieta l’orecchio sinistro e la compagnia che, involontariamente, mi regala il sottosopra della mia mission.
Ascoltare, esplorare, isolare.
Tracciare un perimetro tra ciò che siamo e ciò che ci influenza a prescindere di ciò che siamo.
E chissà, scoprire l’imperdibile ispirazione di una Peroni ghiacciata.

2-continua

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A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.