Prima che vi cali la palpebra

Vorrei fare un bilancio, ma è meglio di no. Ho già letto i vostri e in qualche modo ci ho trovato cose mie, anche se non ci conosciamo, o ci conosciamo e non ci piacciamo, o ci conosciamo e basta. Insomma c’è un limite umano ai desideri, soprattutto a quelli irrealizzati, che senso ha continuare a enumerarli? Discorso diverso per le sconfitte, quelle non si esibiscono, si analizzano, si metabolizzano per quel che è possibile e soprattutto si usano per imbarcarci nella più grande illusione ottica che la nostra socialità spicciola ci propone: dagli errori si impara sempre.
Niente di più falso. Non si impara nulla a meno che non si tratti di piccoli sbagli o di errate valutazioni pressoché matematiche. Non se ne esce migliori quasi mai. Perché un errore importante è il frutto di forze vettoriali che arrivano da lontano, che ci avviluppano e soprattutto che non rappresentano mai una attenuante (come invece ci piace credere).

Tuttavia non è di errori che volevo parlarvi. Potrei scriverne un trattato, ma sarebbe un modo imbarazzante per cercare di tirarsi fuori. No, no. Conosciamo tutti la capacità di attrazione che hanno le cose sconsiderate e non ha senso cadere nella solita trappola di mostrarci come perfetti avvocati nei confronti delle nostre cazzate e al contempo come severissimi giudici con quelle degli altri.

 Il punto è un altro. Vediamo se riesco a essere chiaro prima che vi cali la palpebra. Da molti anni, per via di quello che una volta si chiamava progresso e che oggi non si chiama in nessun modo ma attiene al senso di provvisorietà pandemico e cretinologico, non riusciamo a vivere pienamente il presente senza l’imbarazzo di credere di tralasciare il passato, e insieme senza la paura di non essere proiettati sufficientemente nel futuro. Paul Bloom ne ha scritto su The New Yorker identificando alcuni esempi.

“Possiamo avere un ‘pregiudizio sull’immediatezza’: mangiamo i popcorn quando il film sta per cominciare, anche se forse ce li potremmo godere di più aspettando. O un ‘pregiudizio sul futuro’: ci turba un compito spiacevole che dovremo svolgere domani, anche se non c’infastidisce per niente il ricordo di aver fatto un compito altrettanto sgradevole ieri. O forse abbiamo un ‘pregiudizio strutturale’, quando preferiamo una certa sequenza temporale per le nostre esperienze: pianifichiamo la vacanza in modo che la parte migliore arrivi alla fine. Secondo la filosofa Meghan Sullivan questi pregiudizi temporali sono errori”.  

Ecco è questo il punto, anzi l’unico punto del mio bilancio di questo 2021.
Non ce lo confessiamo facilmente, ma tendiamo a essere freddi e razionali quando pianifichiamo un futuro distante e invece perdiamo il controllo quando le tentazioni si avvicinano nel tempo.
Molto più spesso il passato lo vediamo in modo corale (famiglia, scuola, lavoro), mentre per il futuro abbiamo una soggettiva in prima persona: soli, nudi, magari illusoriamente coraggiosi.
Non ho lezioncine da dare, sono stato disarcionato da tempo da qualunque ruolo preveda una cattedra, uno scranno, persino uno strapuntino. Però a occhio e croce credo che qualsiasi persona di buon senso debba imparare a vivere, in una certa misura, fuori dal momento.

È questo il mio augurio per questo 2022 imbottito di incognite: aboliamo i pregiudizi sul tempo (e ve lo dice uno che cerca di occuparsi di futuro) e non diamo sempre peso a “inizio” e “fine“. C’è un “mentre” che ci aspetta e che, solitamente, buttiamo alle ortiche.

Buon anno.