Spacciatori di dubbi inutili

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Non è il filo di imbarazzo per i recenti dubbi espressi sulla strage di Bucha, né lo sconcerto per le reiterate uscite no vax e no green pass a ispirare le seguenti righe sulla parlamentare europea Francesca Donato. È sulla sua candidatura a sindaco di Palermo che, col dovuto rispetto, vale la pena di incatenare un paio di concetti base, tanto per ricordare che il negazionismo non è un’emergenza recente e che soprattutto in questa terra ha causato ferite mai rimarginate. Per decenni della mafia è stata negata l’esistenza. E le immagini dinanzi alle quali allora si scuotevano le teste diffidenti erano orrifiche al pari di quelle che oggi arrivano dall’Ucraina e appena ieri dall’inferno infetto di Bergamo. In Sicilia in quegli anni terribili il negazionismo istituzionale diventò endemico grazie allo stesso meccanismo di riproduzione abnorme dei dubbi che oggi consente all’onorevole Donato, e a quelli che discutono come lei, di far proseliti sgonfiando le ruote della verità acclarata. Si usò, allora, il garantismo per indebolire una macchina della giustizia che arrancava contro un nemico forte e ramificato, così come oggi si è usato lo scetticismo estremo per screditare la ricerca scientifica contro un virus pericolosissimo. E in questo eterno gioco di distinguo si mise in azione una campagna di superficialità pignolesca per mettere all’angolo Giovanni Falcone. Che, non dimentichiamolo, fu colpito prima che dai boss, dal fuoco amico di una certa antimafia che lo voleva, sciaguratamente, “fuori dai palazzi romani”. Ciò grazie al “distinguismo”, oggi tanto in voga.
Insomma se il dubbio è l’inizio della conoscenza, forse lo spaccio di punti interrogativi dovrebbe essere vietato per decreto.

I miei segreti

Nel suo prezioso libretto (libretto per le sue dimensioni fisiche) “Segreti e no” Claudio Magris spiega: “Il segreto e la sua custodia sono un elemento fondamentale della potenza, del potere. Ma c’è un’altra, molto più interessante custodia del segreto: è una umanissima protezione della propria libertà”.

Queste parole pesano ancor di più in questo periodo storico in cui la schizofrenia con la quale guardiamo alla privacy – inesistente sui social al contempo sbandierata per il green pass – ci mette di fronte a una quasi irresistibile nudità psicologica: dobbiamo mostrarci nel nostro quotidiano, dobbiamo esibire anche l’intimo più superfluo, dobbiamo pasturare l’audience affamata dei nostri dettagli privati. Ecco che, in questo contesto, la pubblicazione del libro di Ilda Boccassini “La stanza numero 30” in cui l’autrice parla del suo amore per Giovanni Falcone segna un giro di boa: la rivelazione di amore per un deceduto, ammogliato, per di più spasmodicamente riservato.

Non ho intenzione di criticare la Boccassini, non me ne arrogo il diritto. Voglio solo ribadire, da uomo che ha frequentato (spesso non incolpevolmente) il segreto, che ci sono cose che possono rimanere non dette senza perdere valore. E che il nostro passato ci regala molto raramente occasioni in cui ringiovanire senza far torto a nessuno: una di queste è stringerci al ricordo più bello e più lontano, e coccolarlo perché resti per sempre nostro. Solo nostro.

Falcone e le illusioni da evitare

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

In questo 23 maggio che sa di primavera sociale, di luce che allontana il buio, di vita da riabbracciare dopo i patemi del Covid, Palermo si sveglia immersa in una mostra che vuole ricordare altri inverni, altri tempi bui. I murales e le installazioni del progetto di memoria “Spazi Capaci” è un moltiplicatore di simboli: opere simbolo in luoghi simbolo in un giorno simbolo. Nel ricordo delle vittime delle stragi di Capaci e via d’Amelio i volti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino veglieranno sulle strade che portano all’aula bunker. L’opera, “La porta dei Giganti” di Andrea Buglisi, prevede due enormi ritratti su parete, uno che è già piazzato sulla facciata di un palazzo in via Duca Della Verdura, l’altro che sarà realizzato in estate su un edificio in via Sampolo. A Brancaccio, in quella che è stata per anni una periferia urbana e di legalità, c’è il polittico urbano “Roveto Ardente” di Igor Scalisi Palminteri che ritrae don Pino Puglisi e un enorme  fiammifero spento che “ha appiccato il fuoco eterno della vampa del coraggio”. In via Notarbartolo, davanti all’Albero Falcone, la statua di Peter Demetz intitolata “L’attesa” rappresenta una giovane donna che aspetta: il ritorno a casa di Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, il compimento di una qualche giustizia terrena, il riscatto di una terra che pure disprezzò i suoi simboli, quando ancora la distrazione civile era un modo di vivere al passo coi tempi.

E poi i cani dell’aula bunker dell’Ucciardone. Un’imponente installazione di Velasco Vitali dal titolo “Branco”, con 54 cani a grandezza naturale, in ferro, cemento e persino uno in oro ci ricorda che i simboli non si giudicano, al limite quando si fanno arte si recensiscono. E non è questo il momento di interrogarsi sull’efficacia del mood dell’artista, ma di trovarci un’allegoria, un link, uno spunto di riflessione. O almeno di provarci.

In una terra dominata per anni oltre che dalla mafia, da un’antimafia pubblicitaria che ragiona per spot e slogan e che ripropone sempre le stesse messe cantate di una resistenza immaginaria, un coinvolgimento così totale dell’arte è una buona notizia. Tornano i lenzuoli – c’è l’immagine stilizzata dei due magistrati uccisi realizzata dai laboratori di Brancaccio del Teatro Massimo che è stata esposta in venti luoghi di cultura italiani – ed è un appiglio per la memoria. Ventinove anni fa il movimento dei drappi bianchi nacque da un volantino, altro che social, è funzionò. Forse perché c’era un contesto drammaticamente forte, forse perché i circuiti analogici della coscienza civile non risentivano di certe vacuità della partecipazione digitale: allora per esserci bisognava esserci e basta, niente clic e like. Oggi la rarefazione dell’emergenza mafiosa, che c’è ma non si vede, che trasuda ma non allaga, alimenta le illusioni. Che tutto sia passato. Che i simboli servano solo a ricordare. E che l’esercizio della memoria ci assolva dalla nostra disattenzione quotidiana.
Ecco, l’arte serve a questo: a ricordarci non chi siamo, ma chi diventeremo.  

Mi si nota di più se mi faccio i cazzi miei?

Non è roba dell’ultima ora. Sulla necessità di commemorare la strage di Capaci, sulla necessità di fare altro in un giorno di memoria, sulla necessità di evitare il blabla, sulla necessità di non raccontare dove eravamo mentre il tritolo dilaniava corpi e speranze, sulla necessità di trovare altre necessità per il 23 maggio si dibatte sin dal 24 maggio dell’anno precedente.

Una volta, un tale teorizzò da qualche parte il divieto di esibizione della memoria in occasioni come queste per non inquinare lo scenario di guerra. Era un’opinione talmente strampalata, perché confondeva memoria con ricordo, dolore con pregiudizio, lucciole con lanterne, che mi rimase impressa. Comunque il destino fu puntuale con questo propalatore a sproposito dato che lo cancellò dalla cache sociale e culturale in un contrappasso tutto sommato non ingiusto.

Oggi per quel che ho visto – e qualcosa l’ho vista – l’unica febbre che andrebbe misurata (e tenuta sotto controllo) in questi frangenti è quella del protagonismo di rimbalzo. Cioè il protagonismo dei non protagonisti. C’è questa strana tendenza, che partita dagli anziani contagia sempre più i giovani, a mostrarsi contro o disinteressati per salvaguardare, almeno nelle intenzioni, il valore di ciò che non si vuol seguire. Cioè, io vado al mare invece che sotto l’albero Falcone perché lì, in via Notarbartolo, c’è gente che in realtà pensa ad altro piuttosto che ai morti di mafia. Che è un bel cortocircuito logico: faccio altro per protestare contro quelli che presumo facciano altro. Un tempo si diceva “ci sono con lo spirito e non con il corpo”, oggi è “non ci sono perché non ci voglio essere, ma non si pensi che non mi interessa perché mi interessa più degli altri e per questo non ci sono, perché non ci voglio essere…” e via loop. Che è un passo avanti rispetto al “mi si nota di più se non vengo?” di Ecce Bombo. È: “Mi si nota di più se mi faccio i cazzi miei e lo dico?”.

Ed è così che tutti sudati abbiam saputo di quel fattaccio

Prima che Giorgio Faletti diventasse uno scrittore sopravvalutato, era un artista di una certa sensibilità. La sua “Signor tenente” mi sembra un buon modo per onorare la memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, uccisi esattamente ventidue anni fa.

La strage dimenticata

Il pm Francesco Del Bene chiede al pentito di mafia Giovanbattista Ferrante: “E oltre a quello di Lima a quali altri omicidi ha partecipato?”.
“A nessuno”.
“E la strage di Capaci?”.
“Ah, vabbè”.

Grazie a Elvira Terranova.

Intanto vaffanculo

miccoli in lacrime

Mi hanno colpito le lacrime di Fabrizio Miccoli, il mio capitano, l’idolo che ha tradito la mia fiducia. Forse lo perdonerò, forse no.
Intanto vaffanculo.

Il morto di troppo

Un magistrato in politica criticato da altri magistrati non in politica si rifà durante la campagna elettorale a un illustre magistrato morto suscitando le ire di altri magistrati vivi che lo rimproverano di richiamarsi a un magistrato che non solo non c’è più ma che non è mai entrato in politica e tuttavia il magistrato in politica rincara la dose citando un altro illustre magistrato morto e innescando la reazione dei parenti della vittima che gli dicono di non pararsi dietro ai morti per scopi politici pur avendo alcuni di loro utilizzato i nomi dei propri morti per motivi elettorali.

Morale: il morto insegna a soffrire, ma non insegna a vivere.

Quel che resterà

Due cose mi rimarranno nella valanga di parole, testimonianze, ricordi, ammonimenti di questo ventennale della strage di Capaci. Sono le testimonianze di due donne, donne diverse per età, formazione, mestiere.
Una è Letizia Battaglia e ha scritto:

In questi giorni si inaugura all’ambasciata italiana a Washington una mostra fotografica , dal titolo Un eroe italiano. Questa mostra l’ho curata io, scegliendo immagini mie di Franco Zecchin e di Shobha.
Tra queste c’ è una foto che mi è particolarmente cara, di cui sono fiera, realizzata da Shobha. Una foto orizzontale: a sinistra, c’è Falcone col suo sorriso timido, a destra ci sono io, in centro ci sono le nostre mani unite. A quelli di Washington non gliel’ho detto che quella donna sono io. Tanto non mi conoscono.

L’altra è Stefania Petyx, che ha scritto:

Oggi provo solo rabbia e dolore. Come ogni anno da quel 1992.
Nel mio piccolo l’ho detto in tutte le lingue e davanti a chiunque. L’ho detto anche davanti casa di quell’uomo di merda che 20 anni fa organizzò e pianificò quella maledetta bomba.
Anche oggi rifarei quella citofonata ma vorrei che stavolta Ninetta Bagarella avesse il coraggio di aprire.

 

Falcone, anzi Borsellino

I ragazzi fanno un po’ di confusione con le date e il parlamentare del Pdl Annagrazia Calabria dà loro una mano, retwittando senza nemmeno leggere.