Si narra che alla domanda “perché scalare l’Everest?”, il grande alpinista George Mallory, precursore delle spedizioni oltre gli ottomila, abbia risposto: “Perché è lì”.
Oggettivando l’essenza dell’avventura, togliendo se stesso dal palcoscenico, Mallory spiegò in tre parole il senso di una missione. Non disse “perché ci sono io”, né “perché è il mio sogno”. No, diede la responsabilità e il merito alla montagna.
Una bella lezione anche fuori dall’ambito dell’avventura geografica, dalla scommessa umana. Nei miei viaggi ho imparato a imparare come non assorbire pregi che non sono nostri, come restare sempre altro rispetto a quello che mi circondava: il migliore punto di vista sulle cose non è appropriarsene, ma girarci attorno, osservarle, studiarle e lasciarle lì dove sono.
La nostra abitudine social a entrare nel panorama dice molto di noi stessi, della insopportabile superficialità con la quale pretendiamo di farci monumento, di raccontarci con l’arte altrui, di strappare la bellezza dal quadro per farne un gadget da salotto.
Ogni volta che rientro da un viaggio faticoso, tipo un cammino in cui non mi sono fermato per trenta giorni, devo fare i conti con una cosa che gli sportivi conoscono bene: la crisi delle endorfine. Insomma mi sento svuotato, ho più sonno del solito, mi annoio esageratamente, mi prende un senso di inutilità come se senza la razione di chilometri quotidiani il mio corpo occupasse abusivamente uno spazio immobile. È il momento in cui cerco di stilare più progetti perché so che qualcuno lo perderò per strada per inerzia o addirittura per capriccio (c’è un sottile autocompiacimento nel concedersi un piano che non pretende la sicura attuazione e al contempo strizza l’occhio a una lenta dissoluzione). Ed è il momento in cui ripasso le storie dei grandi esploratori, alpinisti, viaggiatori estremi e immagino come si sono sentiti quando, dopo le loro incredibili avventure, magari sopravvissuti per un soffio (non è il caso di Mallory), hanno dovuto fare i conti con i loro spettri: il rientro a casa, l’obbedienza all’ordinarietà, l’impossibilità di trovare un nuovo palcoscenico da cui scansarsi pur facendone parte.
E li immagino ripetersi domanda e risposta.
Perché hai fatto quella cosa così difficile?
Perché era lì.