Paura di raccontare

Mi sto occupando per lavoro di una storia di cronaca di molti anni fa nella quale, come spesso (mi) accade, ho a che fare con il concetto di verità applicato al concetto di Stato. Che sono due cose strane da accoppiare.
Da un lato uno Stato dovrebbe garantire una verità accessibile e riscontrabile qualsiasi essa sia, dall’altro parlare di verità di Stato significa esattamente l’opposto in termini di accessibilità e riscontrabilità.
Del resto siamo il Paese in cui è caduto un aereo senza che nessuno nelle stanze dei bottoni (stanze dei bottoni è orribile, ma neanche il contesto è gradevole) battesse ciglio per decenni, in cui le bombe nelle piazze hanno avuto colpevoli spesso presunti e capri espiatori certificati, in cui abbiamo avuto tre tipi di terrorismo, quello di sinistra che era contro lo Stato, quello di destra che era dentro lo Stato e quello mafioso che era contro e dentro lo Stato.

Quando mi imbatto in cronache datate per trarre spunti di narrazione o più semplicemente per colmare una delle mie tante lacune, ho una specie di sindrome da rientro. Sapete, come quando tornate da una lunga vacanza e vi chiedete “ma al lavoro mi vorranno ancora?” e cose simili. Ecco, quando mi tuffo in quel passato ho la sensazione che oggi non gliene freghi niente a nessuno di quei nodi mai sciolti, di quelle righe mozze, di quelle vite senza storia. Insomma mi pare di ritrovarmi in mondo che quando mi vede sbuffa.
Probabilmente qualcuno di voi sbuffa già qui, a metà di un post scritto nel presente, che parla di passato e che ancora non ha un futuro.

Nel campo dell’arte e della cultura – per quello che conosco e che frequento – il passato è spesso ricostruzione, artificio, effetto e ogni tanto spunto per una riflessione. Ma è difficile che qualcuno lo spieghi, provi a decrittarlo: perché c’è questa specie di indolenza per la quale illustrare annoia. Quindi o si ammanta il tutto con la teatralità di artifici, effetti eccetera, o si pensa che lo spettatore sbadiglierà già davanti alla locandina.
I teatri e la tv, ma anche il mondo dei podcast (nei libri c’è però la bella eccezione di Antonio Scurati) sono più propensi a confortare con prodotti che raccontano ma solo un po’, in cui la contaminazione con l’umorismo o la leggerezza o il glam di un attore diluiscono il tutto.

Non voglio fare esempi concreti – ne ho almeno una decina, per rimanere solo al 2024 – perché non mi interessa la polemica (alcuni degli autori in questione sono miei amici o professionisti che stimo). Mi interessa che passi un concetto che riguarda tutti, autori e lettori, artisti e pubblico, ministri e cittadini: un Paese che non ha paura del futuro deve imparare a raccontare innanzitutto il suo passato meno noto, a illuminare gli angoli più bui, a non sottovalutare la cronaca che da domani sarà storia.        

Aggiungi un fesso a tavola

A Palermo quattro fessi hanno organizzato una festa coi cartelli “save the planet” in una riserva della Lipu (che non è un ipermercato ma un’organizzazione che protegge gli uccelli). Che è come fare il Pride declamando orgogliosi il libro di Vannacci o come pretendere di spostare Salvini dal Papetee a Riace senza dj e donne in bikini.
Ma c’è di peggio.
Una torma (pressoché social) di palermitani che conosce il sito in questione, Isola delle Femmine, solo perché ci inciampa con lo sguardo quando è in coda sull’autostrada, ha scatenato una tempesta degna di un “effetto pecora” mondiale. Prima di oggi infatti quasi nessuno degli indignati commentatori aveva idea di cosa ci fosse su quell’isolotto, a parte un rudere scambiato per ex carcere e quattro rocce scacazzate dai gabbiani.

Siamo così, noi palermitani. La “Palermo bene”, definizione evanescente come chi la usa (autocritica), la scopriamo quando non siamo invitati, quando la corrente del veleno ci chiama, quando dire qualsiasi cosa equivale a esistere in qualsiasi modo. Eppure non sappiamo quasi nulla di ciò che ci circonda fin quando ciò che ci circonda non ci supera, ci surclassa. È il tipico fenomeno dell’ignoranza colpevole: se non ci vengono a citofonare non possiamo mai dire di essere informati su qualcosa. Mai che ci scappasse la lettura di un giornale, di un libro, di un testo che non sia diluito nel cristallo liquido di uno smartphone.

Nella città più sporca, più caotica e incivile ci si ritrova uniti nella maledizione ecologica contro quattro fessi coi cartelli che danzano per un paio di ore su un isolotto di cui non fotte un cazzo a nessuno.
La “Palermo bene” è la prima nemica di se stessa.
Di Palermo.
Del bene.
Della buona creanza.

P.S.
Non critico chi critica questi bicchieranti abusivi, ovviamente. Critico (e detesto) questa tendenza a plasmare ogni giorno un male assoluto. Con compiacente cattiveria e spregio della verosimiglianza.
Come se fossimo tutti vergini dell’ecologismo, come se non allordassimo quotidianamente parchi e giardini, come se ce ne fottesse qualcosa del decoro di una città sporca innanzitutto per colpa nostra.
L’indignazione on off è figlia di cervelli on off. Tutto qui.

Vannacci nostri

Una frase chiave. “Le leggi imbrigliano le azioni, non le opinioni o le idee, questo succede nelle tirannie… Ho espresso dei pareri che rimangono nel perimetro del legittimo, di ciò che la nostra legge ci consente”.
La legittimazione del Vannacci pensiero emanata dal Vannacci eurodeputato nel nome del Vannacci generale che è anche il Vannacci scrittore è l’esca della tagliola.
Perché attira con argomenti semplici e apparentemente innocui nella melma del “si può dire tutto purché non sia reato” e del conseguente “sono fatto così, dico quel che penso” (una delle frasi che normalmente mi fanno fuggire appena la ascolto).
Il Vannacci che è in noi è molto in noi.
Basta andare a scorrere le frasi cruciali del suo Mein Kampf in salsa spezzina per ritrovarci semi primigeni di una malapianta che vede il generale come frutto guasto.
Il concetto di normalità innanzitutto.
Il pensiero del FariVannacci si richiama ai “valori comuni” che albergano solo nella sua aia mentale giacché in natura, come in biologia e nella scienza in generale (che ha il difetto di essere universale al contrario della parola di un ducetto che si alza col piede sbagliato) non esistono. La confusione tra normalità “condivisa dalla stragrande maggioranza” e legge di natura per il generale è strabordante: tipo, io ho gruppo sanguigno di tipo 0, il più diffuso, quindi sono normale; la mia amica che è di tipo AB, molto meno diffuso, è anormale.
È su queste basi fragili che si costruisce il pensiero forte di un’Italia gretta e soprattutto ignorante. Un’Italia inopinatamente presente: a noi!    

E poi c’è l’immancabile machismo – del resto siamo sempre nel partito che puntò il suo primo slogan strategico su “la Lega ce l’ha duro” – per cui il super militare della Folgore che ha conquistato e sbaragliato a più non posso è il miglior testimonial del cazzo duro usato come testa di ariete per sfondare le barricate del nemico (testa e cazzo qui si affiancano per spontanea attrazione, nda). Solo che il FariVannacci fa finta di non sapere che la quasi totalità dei suoi trofei stanno lì perché a sporcarsi le mani di sangue e piombo, sul campo di battaglia, c’erano molte donne e molti non-machi, insomma molti anormali. Coraggiosi militari che magari non hanno il coraggio che serve per la guerra più crudele, quella contro il pregiudizio dei FariVannacci che infestano il pianeta.

In più, le disquisizioni da taverna sulla famiglia tradizionale per cui “se la famiglia esiste da millenni sotto la forma tradizionale un motivo ci sarà” sottendono un’allarmante forma di ignoranza: basterebbe studiare un po’ di storia per ricordarsi che sulla famiglia tradizionale non si è costruita un’opera d’arte che sia tale. Da millenni, romanzi, epiche, lirica, pittura, scultura, musica narrano ciò che non è “normale”, non è ordinario, non è tradizione blindata.
L’arte esiste proprio perché non siamo tutti Vannacci, per fortuna.

Infine la porzione più difficile e pericolosa di questo ragionamento.
A parte la ridicolaggine di certe nostalgie fasciste e il corredo di nefandezze a cui si ricorre (vedi Salvini, che riesce nell’impossibile cioè perdere a Pontida) pur di filtrare qualcosa di utile dalla merda, il Vannacci che è tra noi ha un effetto collaterale sul pensiero ordinario.
Il suo fascismo sorridente e la sua carezzevole cialtronaggine ci inducono per reazione a cedere a una falsa universalità che mette aggressori e vittime sullo stesso piano.
Non è così. E non deve mai essere così.
Le vittime sono vittime e i carnefici sono carnefici. In ogni conflitto, dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, da New York allo Zen.
La responsabilità è un muscolo, e va allenata.
Il Vannacci che è tra noi è un’ingessatura che pare che sani. E invece storpia.

Podcast che verranno

È sempre un lavoro difficile quello di rendere facilmente comprensibili le cose complicate. Io ci ho provato con un podcast sull’incredibile depistaggio delle indagini sulla strage del 1992 di via D’Amelio, in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Grazie alle testimonianze, tra gli altri, dell’avvocato Fabio Trizzino, dei giornalisti Salvatore Cusimano, Raffaella Fanelli, e del vicepresidente della Camera Giorgio Mulè (che parla da giornalista), ho cercato di raccontare una storia che pochi conoscono davvero. Una storia di impuniti e di cialtroni, di pochi coraggiosi e di molti distratti. Una storia in cui dopo 32 anni non c’è la parola fine.

Prossimamente.

Musica: Mapamusic

Più spari che stalking

Osservatorio serie tv.

Baby Reindeer” (Netflix) è la serie del momento, osannata dai giornali e da Stephen King che l’ha addirittura paragonata al suo “Misery non deve morire”. Ovviamente quando il Maestro chiama, il sottoscritto risponde: me la sono bevuta in un fine settimana. Solo che alla fine la delusione è stata enorme. Lo dico subito. Ho trovato “Baby Reindeer” molto sopravvalutata – ovviamente siamo sempre nell’ambito del parere personale – come spesso accade con le opere che mettono le mani in temi delicati, in cui la connessione tra argomento e giudizio artistico è pericolosamente stretta. Il percorso in cui il narratore – che è anche l’autore e l’interprete della storia – arriva a empatizzare tardivamente con la stalker Martha sta tutto nel caleidoscopio di emozioni che vanno dalla tenerezza al fastidio, dalla compassione all’odio che nel personaggio di Donny, come nel pubblico, si fanno strada episodio dopo episodio. Insomma siamo davanti a uno di quei casi in cui il confine tra supercazzola e capolavoro è labilissimo. Ognuno incolpevolmente decide di attraversarlo come crede e, soprattutto, nella direzione che ritiene più opportuna. Io sono arrivato alla fine dopo un bel po’ di sbadigli.

“Fallout” (Prime) è l’adattamento televisivo di un videogioco post-apocalittico di grande successo che però non ha il difetto più comune di questo genere di prodotti, e cioè il prevalere dell’effetto sulla trama. La serie è scritta in modo magistrale con quattro linee narrative solide. L’uso degli effetti speciali e i dialoghi che spesso hanno un che di umoristico la rendono un’opera molto originale. La violenza esibita e la deriva splatter di molte scene è sempre funzionale alla storia. L’ispirazione retrofuturista, cioè l’uso e la ricerca di elementi del passato in un tempo futuro, contribuisce a un risultato che – ovviamente siamo sempre nell’ambito del parere personale, bis – mi sembra eccezionale. Insomma “Fallout” è nel suo genere un gioiellino e i suoi attori, anche per caratteristiche fisiche, sono il frutto di un casting perfetto. Pur essendo una serie di combattimenti, di spari, di lame e fuoco, l’effetto migliore è nei primi piani degli occhi dei protagonisti. Bella. Anzi bellissima.

Un post chiamato desiderio

Sto guardando la serie Prime “Fallout” che ha il pregio di essere ispirata a un videogioco e di non contenere nulla che sia più di uno spunto rispetto a quel videogioco.
Mi sta piacendo perché mi pare ben realizzata, con un buon ritmo di sceneggiatura e una gran cura nella realizzazione delle riprese, delle scenografie e degli effetti speciali.
Però questo è solo l’ambito che mi ha spinto a scrivere: e vi prego di non fare spoiler sulla serie, dato che sono solo al terzo episodio (aggiornamento, ne parliamo qui).

Il vero motivo ispiratore è una frase che uno dei protagonisti pronuncia, che suona pressappoco così: desidereremo le stesse cose quando saremo cambiati?
Mi pare un concetto molto in linea coi tempi e soprattutto coi miei tempi.
Da aspirante vecchio e ridicolo resistente agli acciacchi dell’età non ho una risposta precisa a una domanda così netta.

Desidereremo le stesse cose quando saremo cambiati?

Credo che nasciamo volendo e cresciamo desiderando. Quindi con gli anni attenuiamo le nostre esibite esigenze nei confronti del mondo. Poi però c’è un momento – io ci sono molto vicino – in cui si fa largo una certa intransigenza per cui il mood cambia: vogliamo più di quanto desideriamo.
Occhio alla trappola logico-linguistica. Non nel senso che vogliamo più di quanto abbiamo o ci possiamo permettere, ma nel senso che cambia l’intensità di ciò che vogliamo. Togliamo il freno a mano ai desideri, insomma.
Per tornare alla domanda di cui sopra, è un mutamento di atteggiamento, non di oggetto. Io non desidero le stesse cose che desideravo prima, ma magari desidero cose come le desideravo prima.  

Capite che siamo di fronte a un tema sterminato e anche parecchio interessante: un concetto universale che ci riguarda tutti poiché una delle poche cose alle quali non ci possiamo sottrarre, a patto di rimanere vivi, è il cambiamento.
Pensate all’amore. E a qualche compagno/a di qualche anno/decennio fa: probabilmente non li desideriamo più, ma se non li avessimo desiderati a quel tempo non saremmo in grado di constatare oggi il nostro grado di (non) desiderio.
Pensate al lavoro. Ci si sbatte per cambiare la nostra condizione, il nostro status, il nostro reddito eppure le nostre esigenze sociali economiche magari non sono cambiate.
Pensate alla salute. Una semplice passeggiata diventa una meravigliosa conquista quando cambia un millimetro di un tendine o una semplice cellula dà di matto.

Forse la risposta più realistica alla famosa domanda è in una constatazione: produciamo molte più esigenze di quante ce ne potremmo concedere, più polemiche di quante ne potremmo affrontare, più delusioni di quante ce ne servirebbero, più disattenzione di quanto il mondo intorno a noi meriti.
Adeguarsi per difetto non sarebbe un difetto.   

1979, musica a gentile richiesta

Ci sono cose importanti che stanno a margine.  Soprattutto nei ragionamenti, negli incastri della socialità vera, nel semplice rapporto tra una domanda e una risposta.

Così, dopo “1979”, la principale domanda che mi è stata rivolta (dopo “ma come ti è venuta ‘sta cosa?” o tipo “chi te lo fa fare?”) è stata: dove possiamo trovare la playlist dello spettacolo? E, elemento di gran soddisfazione, la maggior parte di quelli che me lo hanno chiesto sono giovani (mai visti tanti giovani a un mio spettacolo, uuuh!).

È l’inaspettata conferma di quel che dico della musica proprio nei primi minuti di “1979”:

“…Serve perché per raccontare bisogna essere liberi e per ascoltare bisogna essere pronti a mettere a frutto la libertà che qualcuno ci porge. Soprattutto lasciarsi tentare dalla realtà che non è sempre triste e nefasta”.

Quindi, come si diceva una volta “a gentile richiesta”, eccovi in rigoroso ordine di apparizione, l’elenco delle canzoni dello spettacolo. Mentre qui trovate i link per la playlist su Apple Music e su Spotify

That’s the Way of the World – Earth, Wind & Fire

Fatti più in là – Sorelle Bandiera

Love to Love You Baby – Donna Summer

My Sharona – The Knack

Bad Girls – Donna Summer

Higway to Hell – AC/DC

Le Freak – Chic

Boogie Wonderland –  Earth, Wind & Fire, The Emotions

Y.M.C.A – Village People

Ma come fanno i marinai – Lucio Dalla e Francesco De Gregori

Too Much Heaven – Bee Gees

Je so’ pazzo – Pino Daniele

Another Brick In The Wall, pt. 2 – Pink Floyd

Don’t Stop ‘til You Get Enough – Michael Jackson

London Calling – The Clash

Message in a Bottle – The Police

Buona Domenica – Antonello Venditti

Last Train to London – Electric Light Orchestra

I Will Survive – Gloria Gaynor

I Can’t Tell You Why – Eagles

All My Love – Led Zeppelin

The Logical Song – Supertramp

Goodbye Stranger – Supertramp

Take the Long Way Home – Supertramp

Breakfast in America – Supertramp

Viva l’Italia – Francesco De Gregori

1979

C’è un anno nella storia recente che è il baricentro della musica, della cronaca, della politica. Ma anche dei misteri, della tecnologia e del costume. È un anno in cui il mondo cammina con tutta la sua umanità verso un assetto che sarebbe stato quello della fine della guerra fredda e dell’inizio di nuove ere sempre più convulse. In Sicilia la mafia spara e uccide, tra gli altri, un giornalista che ha capito prima degli altri che purtroppo i corleonesi non sono solo gli abitanti di Corleone. Stati Uniti e Cina fanno accordi che stabiliscono una priorità per entrambi in funzione antisovietica, e l’Unione sovietica, sentendosi circondata, pensa bene di invadere l’Afghanistan.
In Italia nasce RaiTre in quota Partito comunista. Le vetrine dei negozi di dischi sono per i Pink Floyd, per Michal Jackson, per i Police, i Clash, gli Ac/Dc, per Bob Marley e i Supertramp. Dalla e De Gregori attraversano l’Italia con un tour dai numeri mai visti prima. Il Supersantos, un pallone che andava a vento, cede il passo al Tango, un pallone più pesante che più semplicemente va a calci. Molte cose accadono in quell’anno illudendoci che i sogni, se proprio non si avverano, spingono il destino un po’ più in là.
E poi nasce Giuseppe, che è figlio di Giovanna e di Pasquale, e fratello di Vincenzo e di Antonella. Giuseppe vivrà quell’anno con l’incoscienza felice di un neonato, un’incoscienza che manterrà per sempre.
Questa è la storia dell’anno 1979. Una storia di canzoni e sangue, di congiure e discoteche, di menzogne e rivelazioni. Ma soprattutto è la storia del piccolo Giuseppe. Che non invecchierà mai.

Dopo l’esperienza di quattro opere inchiesta (“Le parole rubate”, “I traditori”, “Cenere” e “L’altro”) per il Teatro Massimo di Palermo e l’opera di teatro civile “Invertiti” su Pier Paolo Pasolini per Taormina Arte, Gery Palazzotto – con le musiche di Fabio Lannino – sperimenta una nuova forma di narrazione. Stavolta il racconto è un intreccio stretto di parole e note, che non conosce mediazioni. Una forma di confessione pubblica senza finzione scenica, dove ognuno è quello che è.
Un narratore.
Un musicista.
Una cantante.
Un dee-jay.

1979L’anno in cui sognammo di essere quelli che non saremmo mai stati
Real Teatro Santa Cecilia di Palermo – 7 marzo 2024

Scritto e raccontato da Gery Palazzotto
Musicato da Fabio Lannino con Laura Sfilio
Remixato da Mario Caminita

Ho visto (Palermo)

Ho visto una città bella, persino contenta di esserlo.
Ho visto una città in ginocchio, persino contenta di esserlo.
Ho visto ginocchia talmente consumate da sembrare zerbini.
Ho visto un laico fare quel che i preti si guardano bene dal fare.
Ho visto un prete che sorrise ai suoi assassini.
Ho visto magistrati depistare, farla franca ed essere promossi. Tutti.
Ho visto un bambino prigioniero.
Ho visto  il mare liberato.
Ho visto un sindaco parlare tre lingue con gente che manco ne parlava una.
Ho visto infinite nuche quando cercavo sguardi.
Ho visto un direttore di teatro che metteva in scena solo cose sue.
Ho visto un regista illuminato che si è inventato un fotoromanzo per spiegare una cosa difficile.
Ho visto un candidato alle Politiche spernacchiare, urlare e minacciare ed essere eletto come speranza della Sicilia.
Ho visto bare impilate da anni.
Ho visto giornalisti inventare in modo incivile ed essere premiati per il loro impegno civile.
Ho visto sollevatori di targhe a scrocco.
Ho visto intellettuali lodare il potere quando la strada era in discesa.
Ho visto amici smemorati e nemici con memoria ferrea confondersi tra loro.
Ho visto albe che sembravano tramonti e non avevo sonno.
Ho visto un tetraplegico che era sempre più avanti di me.
Ho visto lettori morire di noia.
Ho visto spettatori marcire nel pregiudizio.
Ho visto un teatro rinascere.
Ho visto vittime di mafia vittime del protagonismo.
Ho visto uomini e donne sole forti del loro (solo) coraggio.
Ho visto il trionfo dell’ignoranza nei templi della cultura.
Ho visto il trionfo della creatività nei vicoli più abbandonati.
Ho visto un carabiniere pianista.
Ho visto il potere della debolezza organizzata.
Ho visto calpestare il merito.
Ho visto uomini violenti farsela franca.
Ho visto donne violente impunite.
Ho visto porcherie spacciate per innovazione e innovazione gettata tra le porcherie.
Ho visto accuse sommarie molto circostanziate.
Ho visto ragazzi accesi e interessati, nonostante una città spenta e distaccata.
Ho visto che nessuno mi vedeva, anche se tutti mi guardavano.
Ho visto una preside che recluta alunni porta a porta.
Ho visto giunchi marcire aspettando che passasse la piena.
Ho visto un assessore che inneggiava alle SS.
Ho visto un tale che mangiava mortadella alla Camera e che passò per eroe.
Ho visto una titolare di palestra governare un’orchestra sinfonica.
Ho visto un bel ristorante perdere una stella per risparmiare sulla bolletta della luce.
Ho visto un questuante filosofo.
Ho visto un eretico vero, senza il rogo (al momento).
Ho visto il più importante giornale del mondo parlare bene di quel che si faceva dalle nostre parti.
Ho visto l’indifferenza per quel che si faceva dalle nostre parti.
Ho visto più resistenza in un corpo fiaccato che in un corpo nel fiore degli anni.
Ho visto un antimafioso brigare per una poltrona.
Ho visto un mafioso cedergliela.   

Due cuori e una caviglia

Anni ‘80. Giovane aspirante giornalista. Giovane aspirante maestro di sci. Giovane aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno). Il giovane si sbatte da una parte all’altra del mondo da avvitare e svitare: collabora con la radio di Stato, scrive su qualunque supporto cartaceo immaginabile, suona e canta, s’inventa una rock-opera, affila lamine di sci e scalda sciolina, cavalca sogni e moto. E proprio con una moto imbocca la curva determinante della sua vita. Ma non schiantandosi o schivando in accelerata un ostacolo. No. Restando fermo e cercando di accenderla, quella Yahaha XT 550.
In quel tempo non c’è ancora il congegno elettronico per avviare il motore: c’è una leva, piccola e scomoda. E soprattutto c’è la compressione di un monocilindro ribelle.

In un pomeriggio di inverno quel giovane che ha appena addentato i vent’anni ha un lavoro che insegue, una passione che lo sorregge e una ragazza che aspetta solo che lui le chieda di stare con lei a tempo indeterminato: la gioventù ha questo di bello, che il tempo e i tempi sono ingannevoli e che si può dire serenamente “per sempre” senza immaginare che “per sempre” non esiste.
Ma lui è a Palermo in via Lincoln, a pochi passi dal mare, e lei è a 1.800 chilometri di distanza, con lo sguardo su una vetta di 3.800 metri. Lui tiene a bada l’eccitazione per il privilegio che gli è toccato: può scegliere tra una vita e un’altra, tra un mondo e un altro, tra una passione e un’altra. In cuor suo lui ha già scelto e sta parcheggiando il suo cavallo a cinque marce tra un’auto e un’altra. Tra un’ora, consegnati i fogli scritti a macchina dell’articolo che ha nello zaino, andrà all’agenzia di viaggi per prenotare la nave sulla quale tra qualche giorno imbarcherà l’auto e un abbondante bagaglio di vita: vuole esplorare il mondo verticale della montagna, lui che viene da quello orizzontale del mare, esporsi al sentire selvatico di un amore che è nella sua fase migliore, quella del germoglio annunciato e manco visibile.
In via Lincoln l’auto a destra si muove per abbandonare il parcheggio, lui sceglie di spostare la moto in una posizione più comoda. E anziché spingere fa la scelta cruciale. Accendere il motore.
Gira la testa della leva di avviamento verso l’esterno, risale sulla moto e carica il peso sul piede destro. Ma il monocilindro si oppone.  
Il rimbalzo della leva è crudele e spacca la caviglia dell’aspirante giornalista, aspirante maestro di sci, aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno) e via discorrendo.
Tutto cambia. Quasi 15 anni prima di Sliding Doors e del destino incellofanato di una pigrizia intellettuale molto (troppo) attuale.

Con una caviglia distrutta il giovane non può partire, non può affrontare gli esami da maestro di sci. Resta a Palermo. Continua a scrivere. Scrive anche alla presunta amata che lo aspetta 1.800 chilometri più a nord, fin quando le parole non si diluiscono nella distanza che è impassibile, incorruttibile, inaggirabile. Le parole si perdono prima degli esseri umani, solo che ce ne accorgiamo sempre troppo tardi.
Lui non diventerà mai maestro di sci. Farà il giornalista dopo aver preso a calci e sputi la sua moto.
Lei non diventerà mai la sua compagna. Farà altro, chissà cos’altro.
Lui non ha mai indagato sul destino di lei.
Lei non ha mai indagato sul destino di lui.
I due non si sono mai più incrociati, fedeli a una regola non scritta: fatalità è il nome che diamo alle decisioni che non abbiamo saputo (o voluto) prendere.  

Questo accadeva una quarantina di anni fa. Era un 14 gennaio, questo lui lo ricorda bene.