Un colpo e via

In fatto di lettura di libri e di fruizione dell’arte sono contro la seconda volta. È una condizione molto personale, abbastanza impopolare immagino. Per questo chiarisco prima di addentrarmi nella spiegazione: per seconda volta intendo la rilettura, il ripasso.

Ci sono libri che ho letto da bambino, tipo “I ragazzi della via Pál” che vivono nella mia memoria in modo anarchico. Rimasi sconvolto – ero davvero piccolo – per l’atto di eroismo di Nemecsek e meno per la forza saggia di Boka e col tempo ho colorito il ricordo di questi due personaggi immergendoli in un’epica che probabilmente non hanno mai meritato. Ancora oggi non ricordo come muore Nemecsek, credo di polmonite o di una malattia dovuta al freddo, né se Boka poi gli chiede scusa: mi piace pensare che il capo della banda dei ragazzi sia devastato dalla fine del giovane amico che troppe ingiustizie ha subito.
Da allora, da quando lessi il romanzo di Ferenc Molnár, mi sono convinto che leggerlo di nuovo, quel romanzo, avrebbe in qualche modo rovinato ciò che lo aveva reso così profondo e sconvolgente. Era una sorta di segno d’amore e rispetto per la forza vitale che sembrava animare le sue pagine. Avevo capito come funzionava quella magia nella mia testa: leggere una volta sola, intensamente, e poi mai più.

So che la questione è complessa e che probabilmente sarebbe difficile intavolare un dibattito pubblico senza cadere in sterili estremismi. Il “fronte” a me opposto ha personaggi altissimi e argomenti solidi. Vladimir Nabokov diceva che “un buon lettore, un lettore importante, un lettore attivo e creativo, è un rilettore. Alla prima lettura si formano solo impressioni vaghe dell’azione, basate su intuizioni generali e soggettive. Si saltano le frasi, non si colgono i dettagli, si incespica nella trama in uno stato di aspettativa passiva. Quando si rilegge si ha il tempo di ‘notare e accarezzare’ le particolarità del mondo che un autore ha reso in parole”.

Eppure in un’attività di godimento puro e di fondamentale importanza come la lettura sostengo l’immediatezza e l’intensità della prima volta. La rilettura, per me, sgonfia, sminuisce. Ovviamente sto estremizzando il discorso per renderlo più chiaro: non mi sogno di bocciare una replica di attenzione verso pagine che incantano o incuriosiscono. Però ripesco un appunto che avevo segnato a proposito di una frase di Louise Glück: “Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria”. E mi fortifico nel mio convincimento, è proprio questo che penso della lettura.

Vi sento obiettare che quando rileggiamo, in fondo non proviamo altro che un testo può moltiplicarsi nella sua varietà di stimoli e carezze all’anima. E anche citare Roland Barthes, quando scrive che rileggere è “un’operazione contraria alle abitudini commerciali e ideologiche della nostra società, che vorrebbe che ‘gettassimo via’ la storia una volta che è stata consumata”. Invece per me rileggere può essere un modo di esercitare un potere conservatore, di consolidare tradizioni, di blindare una cultura. Non sono convinto che i libri debbano servire solo a questo: probabilmente servono sia i “rilettori” che quelli come me. È un po’ come accade nell’opera o nella musica cosiddetta colta: lo strabordare della fiducia nei morti e la diffidenza nei confronti dei vivi. Per certi canoni culturali o sei morto o non vali un cazzo.

Per noi del “buona la prima” , un libro è come una piccola vita. Quando finisce, amen. Morirà o continuerà a vivere in modo irripetibilmente imperfetto nei nostri ricordi suscitando un senso perverso che è di perdita, ma anche di piacere.
C’è poi una resistenza di riflesso tra i “rilettori” che si basa sul principio secondo il quale solo il passato ci può salvare dal declino dei costumi e dall’obbrobrio dei nostri tempi moderni. Anche questa visione non mi convince: leggo ottime cose nuove che vendicano terribili opere del passato. Della serie anche i morti annoiano.   

E poi arriva Freud. La sua idea che la fissazione dei bambini per la rilettura deriverebbe dalla convinzione infantile che le esperienze piacevoli possano essere ripetute senza dispersioni, spiega molto alle mie latitudini di sfogliatore capriccioso. “Crescendo superiamo questa convinzione”, dice Freud “quando impariamo che la novità è sempre la condizione del godimento e che l’impressione della prima volta non può essere ripetuta e rischia di rovinare completamente la storia che un tempo amavamo”. Infine il colpo da maestro: “Forse che la novità nell’adulto non costituisce sempre la condizione dell’orgasmo?”.

Il teatrino dei teatri

Sono in un loop dal quale non so quando potrò uscire. Palermo proviene da una fase di stallo molto grave, e senza precedenti, sulle nomine del Teatro Massimo Palermo e del Teatro Biondo Palermo, importanti realtà artistiche italiane (con gli adeguati distinguo, il Teatro Massimo è una realtà internazionale che spesso Palermo mostra di non meritare). Il parterre del tifo militante si muove perlopiù a sensazione. Nel mio minuscolo qualcosa so e però, pur nell’esercizio del mio mestiere di giornalista, non posso dire: per tenere lontano ogni possibile conflitto di interessi e per un minimo di buona creanza che la maturità impone. E siamo alla prima metà del loop: chi sa non può parlare perché è giusto che siccome sa in virtù di un mestiere, non possa dire quel che sa in virtù dello stesso mestiere. Risultato: ovunque parla solo il parterre con quel che ne consegue.

Piccola parentesi. Sono fuori da questo gioco dall’inizio dell’anno e ho scelto di farmi da parte proprio perché a una nazionale della cultura, come dovrebbero essere i nostri teatri, non servono tifosi, ma bravi allenatori e giocatori forti. Sono rientrato negli spogliatoi, ho guardato la partita soffrendo in silenzio. Chiusa la parentesi.

La seconda metà del loop è più complicata e riguarda il rapporto tra l’audience e la sostanza delle cose. Se si chiedono, giustamente, nomine di merito che garantiscano l’indipendenza della cultura dalla politica (un miraggio, giacché l’unica cultura indipendente è quella che celebriamo a casa nostra, o nel nostro teatrino privato) non si può ipotizzare che un direttore o un sovrintendente vengano approvati in pratica dagli artisti, dal sindacato variegato, e da tutti noi che lavoriamo nei teatri. Perché sarebbe un’altra violazione dell’indipendenza: c’è sempre qualcuno a nord di noi, fin quando esiste la geografia delle regole, che piacciano o no (io stesso ne sono stato vittima, ma magari ve la racconto un’altra volta).

Sono sempre stato contrario alle celebrazioni coram populo. Mi sono sentito a disagio in contesti di finta democrazia in cui, quando si deve prendere una decisione, più ampio è il consesso più giusta sarà la strada decisa. Le imprese più fallimentari alle quali ho assistito sono quelle ultra concordate, spalmate su teste spesso inconsapevoli pur di fare numero.
Perché? La risposta che ho io è quella che viene dalla mia piccola esperienza. Perché l’innovazione si fa senza facili consensi, costruendo sulle barricate nemiche, sfidando la consuetudine delle maggioranze. Si fa in pochi, quelli giusti, quelli che hanno coraggio: non c’è altro modo di dirlo, si vince o si perde. L’innovazione non piace a tutti, ontologicamente (e qui Giuli godrebbe;) ).

Servono direttori di teatri forti e preparati. Non importa se li appoggia il Sopra o il Sottosopra. Del resto la cronaca ci ha consegnato infiniti casi di trasversalismo e cambi di casacca in corsa. Servono specialisti ma non troppo, razionali ma non troppo, visionari ma non troppo, sganciati sia dalle segreterie di partito che dai salotti (che in una città come Palermo sono ben più mefitici). Servono coagulatori di idee, indipendenti perché se uno ha un’idea e la baratta con una notte serena, non ha un’idea ma un blister di Xanax. Per rimboccarsi le maniche servono le braccia. Non importa se la camicia è intonsa o meno perché, come diceva il sulfureo Andreotti, la camicia è come la coscienza, per mantenerla pulita basta non usarla.
Da qui si deve ricominciare. E taccio, al momento, perché pure dagli spogliatoi è giunto il momento di sloggiare.

P.S.
Nella scrittura di questo post nessun precario è stato maltrattato, del resto l’autore è un discreto rappresentante della categoria.

Leggi di Murphy, a seguire

Le leggi di Murphy sono molto citate e poco conosciute, soprattutto per la carica di ironia che si portano appresso. E l’ironia è il passepartout per la libertà. La stessa libertà che mi sono presa per arricchire il noto compendio di postulati.

Dato un problema, la via per risolverlo passa sempre dal vostro sedere.

Se fate bene un lavoro che non vi piace o siete sadomasochisti o siete il capo da abbattere.

L’amore più grande è quello che finisce.

L’alcol può far male, ma diffidare degli astemi è un buon modo di non farsi male.

Esistono autogol che in termini di libertà valgono meglio di una doppietta in porta avversaria.

Nessuno ti vuole quando perdi o stai male, ma è solo per ecologia dei sentimenti.

Quando siete davanti a una persona che giudicate perfetta pensate che è il buco che fa la ciambella.

Per quanto un’amicizia sia solida, ci sarà sempre una moneta armata delle migliori intenzioni.

L’innovazione fa malissimo a chi ha qualcosa da nascondere.

Se son rose pungeranno.  

Morti perché la pensavano alla stessa maniera

Tra le cose meno interessanti per raccontare la diffusa perdita di interesse nei confronti dei giornali – fenomeno di portata mondiale con rare eccezioni e infinite (noiose) sfaccettature – c’è il mancato interesse dei giornalisti stessi nei confronti di una narrazione plausibile. Attenzione, ho detto plausibile, non realistica: ma ci arriviamo. Intanto mi preme rassicurarvi: cercherò di essere meno noioso possibile con la speranza di non essere abbandonato prima dell’ultima riga. Credetemi, il futuro dell’informazione è qualcosa che ci riguarda molto più di quanto si possa immaginare. Perché, tra l’altro, ci ricorda che grazie alla conoscenza riusciamo a comportarci non già come grotteschi conquistatori del mondo, ma come umanissime anime di passaggio.

Narrazione plausibile dicevamo.
Da lettore anziano, ancor prima che da giornalista per lungo tempo organico alla “macchina” dei quotidiani, mi accorgo con crescente irritazione che molti colleghi inseriscono il pilota automatico. E non è cosa buona: nel giornalismo la migliore navigazione è quella manuale, possibilmente a vista. Ad esempio ciò accade quando devono descrivere un personaggio più e più volte nel corso degli anni. Tipo, se per caso uno è stato indicato una volta come enfant prodige di una tal disciplina, state certi che lo resterà per lungo tempo, sino alle soglie della pensione. Oppure se la descrizione primigenia era anti-questo o pro-quello, le probabilità che quest’etichetta resti in eterno sono direttamente proporzionali all’infondatezza della prima rappresentazione. Più grande è la minchiata, più è probabile che venga reiterata.

Tralascio il capitolo luoghi comuni con esempi relativi perché di farmi nuovi nemici non ho proprio necessità. Dico solo che dalle “isole isolate”, dai “panificatori che non panificano”, dalla “martoriata Ucraina”, dal “poteva essere una tragedia” il trend più in voga specialmente nel web è quello di un sereno giornalismo cimiteriale.
Esempio imperituro gli articoli sulle vittime di incidenti stradali che nei titoli assurgono a eroi che non ce l’hanno fatta, con una particolarità: il ricordo è solo per nome, mai che ci scappi un cognome. Esempi: “Ciao Luigi, gigante buono” per un poveraccio sovrappeso; o “Addio Paoletta, non ce l’hai fatta ma ci hai provato” per una disgraziata che aveva cercato di opporsi alla malattia; o l’evergreen “Grazie Mario/a, ora insegna agli angeli…” e di seguito la materia di insegnamento a seconda del mestiere, dell’hobby, della propensione della vittima.

Badate bene, qui non c’entra il buongusto nel segno del quale in realtà stiamo assistendo a un appiattimento di ogni spunto narrativo come se dove c’è un morto ci deve essere per forza una messa cantata (quando me ne andrò siete avvisati, non vi permettete!), ma qualcosa di peggio: l’assoluta mancanza di senso di realtà, di visione critica, di sano cinismo.

Una volta, trent’anni fa, un corrispondente attaccò un pezzo su un tragico scontro frontale tra due auto in modo esilarante: “Morti perché la pensavano alla stessa maniera” (ne ho scritto qui). Era una bestialità è vero, ma denotava almeno un picco nell’encefalogramma. Oggi nessuno si sognerebbe di scrivere una cosa simile, e non è proprio una fortuna.

Scrittura a parte, c’è poi il problema dei problemi.
Quanto pesa un giornale nella vita dei suoi lettori?
Jeff Jarvis, giornalista statunitense e grande esperto di mezzi d’informazione, lo scorso anno ha pubblicato un saggio, Magazine, in cui ha spiegato che per lui l’essenza di un magazine non sono né gli articoli né le immagini in esso contenuti, ma la comunità. Come si legge su Internazionale, Jarvis racconta che le riviste, almeno quelle statunitensi, che poi sono tra le più antiche, sono state costruite proprio sulle comunità. Un tempo erano luoghi intorno ai quali i lettori e le lettrici si riunivano perché condividevano un interesse, un bisogno, una circostanza, un particolare gusto culturale, un’affinità. “Le riviste non si limitavano a riunire le comunità, ma le spingevano ad agire in campagne e battaglie”. I magazine statunitensi, ricorda Jarvis, sono stati i primi a muoversi per abolire la schiavitù (National Era), sono stati fondamentali per il movimento femminista (Ms. Magazine) e poi per il movimento pacifista e contro la guerra in Vietnam (Ramparts, The Nation, Rolling Stone).

In Italia è stato così per La Repubblica di Eugenio Scalfari, per L’Europeo negli anni ’70, per L’Espresso, persino per Cuore di Michele Serra e altri grandi testate. Ci si riconosceva in quel che si leggeva, ancor prima di sfogliare le pagine. C’era un senso di appartenenza culturale e, diciamolo, anche politico. Perché il senso di un giornale che fa comunità sta nel suo ruolo sociale, aggregativo e pacificamente rivoluzionario.
In molti articoli noi ci siamo riconosciuti ancor prima di analizzarli perché sapevamo che il coagulo attorno a quella testata era talmente forte da andare oltre il caso singolo. C’era un’idea di mondo comune (comune l’idea, comune il mondo) che ci agganciava alla realtà. I giornali erano luoghi strambi e disperati per chi pensava di farne a meno, salvo poi ritrovarsi a dover subire la politica e la passività sociale. Erano invece fucina di fulminazioni e passioni per chi credeva che c’è sempre una storia da ascoltare anche quando i giochi sembrano fatti e la partita conclusa.
Il guaio è che molti dei giornalisti di oggi non hanno letto altro che il giornale che fanno oggi, con quel che ne consegue.

La crisi dell’accappatoio

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

A leggere le cronache della politica siciliana pare che il tempo nei palazzi di governo si sia fermato, anzi bloccato. Ci sono parole con cui siamo invecchiati, tipo rimpasto, verifica, asse, coalizione. Parole innocenti che però rimandano a beghe di partiti che poco o nulla hanno a che fare con la ragione pubblica attorno alla quale dovrebbe coagularsi l’azione di un’amministrazione. Parole antiche, desuete. Fare le cose e farle bene: un concetto molto semplice, ma lontano dalla politica novecentesca che prevede di farle solo se sono funzionali all’immagine di chi le fa. L’ultimo caso palermitano è da manuale: tutto per un accappatoio. Il governatore Schifani, offeso dalla protesta del dirigente di “Italia Viva” Davide Faraone che si è mostrato come se fosse appena uscito dal bagno per criticare la gestione della crisi idrica da parte della Regione, ha chiesto la testa dei renziani in Consiglio comunale. I quali, dopo giornate di trattative estenuanti (quindi giornate di lavoro), si sono spogliati della responsabilità politica dicendo che loro in Comune ci stanno a titolo personale e che quindi “Italia Viva” può farsi gli accappatoi suoi. Ora, se ci fosse stato un minimo di collegamento tra i mondi di questa politica del Sottosopra e il mondo reale tutto si sarebbe potuto risolvere con un’alzata di spalle (o con una risata). Dal broncio di Schifani ai patemi di Lagalla per una protesta innocua e manco troppo originale, l’unica consapevolezza che si rafforza nel mondo plebeo non racchiuso nel Palazzo è che questi equilibrismi pacchiani non smuovono di un millimetro le sorti di una città. La trattativa per un capriccio, l’estenuante spiegazzamento del Manuale Cencelli per valutare quanto pesa una nomina in un teatro o in un aeroporto, il fingere di ritenere il rimpasto un cruciale espediente di governo, sono tutte mosse di una strategia meravigliosamente studiata per allontanare i cittadini senzienti dalla politica.  
È stupido, oltre che desueto, pensare che l’equivalenza buon governo-armonia tra alleati risolva il problema di una efficace amministrazione: lo dimostrano i fallimenti su cui questa terra ha sperimentato una nuova e triste tecnica di sopravvivenza, il disinteresse. Dal senso comune al senso del ridicolo il passo è già stato fatto.

La barba che non fu mai tagliata

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

C’era un uomo che si chiamava Vincenzo Agostino. Molti lo conoscevano per via di una storia nota che in realtà non è mai stata abbastanza nota. A quell’uomo, il 5 agosto 1989, avevano ammazzato sotto gli occhi il figlio Antonino e la nuora Ida Castelluccio: erano sposini, lei era incinta da cinque mesi. Antonino era un agente di polizia e stava conducendo indagini delicatissime che, se non ci fosse di mezzo una tragedia, sarebbero state perfette come plot di un thriller cinematografico. Quell’uomo, Vincenzo Agostino, aveva sopportato la peggiore tortura alla quale un essere umano può essere sottoposto: sopravvivere a un figlio. Aveva lottato fino alla fine dei suoi giorni per sapere chi aveva spento la luce nella sua vita, lo aveva fatto dal basso contro silenzi e depistaggi altissimi.
Di quell’uomo, tuonante nel suo essere disarmato, abbiamo imparato una cosa. Che si può essere solidi quando si è in un baratro.
Conoscevamo la sua barba, ogni giorno più lunga nell’attesa non di una verità, ma della verità. Una verità inseguita come un miraggio nel vuoto di mille ragioni giudiziarie.

Nella città in cui i simboli sono spesso frutto di tardivi rimorsi diffusi, Vincenzo Agostino incarnava l’icona di un dolore eterno, di una sconfitta che giorno dopo giorno – come in un grottesco ossimoro – appariva sempre più annunciata.
Per decenni lo abbiamo visto in prima fila in tutti i luoghi in cui si poteva immaginare una rivalsa sociale: tribunali, cortei, commemorazioni. Lui e la sua barba bianca come la cenere della memoria, lunga come una richiesta d’aiuto che si perde nel vuoto.
Vincenzo Agostino aveva giurato di non tagliarla, quella barba: “Non lo farò sino a quando non avrò giustizia”. Oggi, dopo la sentenza di condanna del boss Gaetano Scotto come mandante ed esecutore del duplice omicidio, avrebbe finalmente potuto svelare il suo viso senza quella cornice candida se solo non fosse morto quasi sei mesi fa.

Agostino se n’è andato senza la consolazione di vedere puniti i colpevoli di quel delitto che gli aveva sconvolto l’esistenza. Nell’evitare i luoghi comuni che vedono la giustizia “trionfare” solo perché, dopo anni di estenuante attesa, si arriva a una sentenza, quel che ci resta è la figura di un uomo semplice e determinato, indebolito dalla malattia eppure combattivo, cosciente di un ruolo fondamentale per ricordarci che anche se quando perdi la terra intorno si fa arida, esiste un semino che può crescere nelle lande della sconfitta: dipende dalla fermezza e dalla dignità col quale lo annaffi.
Siamo il Paese delle mille trame e del più grande depistaggio rimasto impunito, quello della strage di via D’Amelio. Nonostante l’impegno di molti magistrati coraggiosi e determinati, restano troppe zone colpevolmente tenute al buio. Sappiamo che sono spesso i familiari delle vittime a mettersi fisicamente in gioco per cercare di ottenere un barlume di risposta.

La storia di Vincenzo Agostino ci illumina anche sull’insondabilità di un sentimento doloroso che spinge un padre a scegliere come atto estremo per la sua protesta un gesto onesto e modesto: farsi crescere la barba. In un mondo di urlatori a sproposito, di complottisti patentati, di esibizionisti senza ritegno, lui ci ha messo la faccia, una faccia che cambiava giorno dopo giorno, senza effetti speciali, semplicemente senza il favore di un rasoio.
Ora che una parte di verità – perché i misteri sulla morte di Antonio Agostino e Ida Castelluccio rimangono – è venuta a galla, una morale piccola e avulsa dalla cronaca potremmo andarla a cercare, sperando di trovarla, nelle pieghe delle nostre vite intonse, dove le cose capitano sempre agli altri.

In questa epoca in cui siamo tutti confratelli di hashtag quando c’è da sposare una moda lacrimevole (un’indignazione prêt-à-porter in giro si trova sempre), spesso non sappiamo nulla della peggiore tortura che si è consumata dietro casa nostra. Perché siamo rimbambiti dall’effetto più che dalla causa. E allora, quando ci rendiamo conto che la nostra coscienza sociale si è indurita, che stiamo per cedere alla falsa universalità che mette sullo stesso piano criminali e vittime, pensiamo che c’era un uomo con la barba lunga, lunghissima. Un uomo composto e disperato che si chiamava Vincenzo Agostino.

Il paradosso dell’immondizia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

L’immondizia a Palermo non è solo un grave problema (come il traffico, la siccità e altre piaghe frutto di storiche ironie cinematografiche) ma è un paradosso complicato. I rifiuti che ammorbano le nostre contrade sono l’eterno termine di paragone (benaltrista) quando c’è un problema da risolvere o una nuova iniziativa da pesare. Tipo: invece di pensare agli immigrati pensate alla munnizza; prima di restaurare quel monumento pensate alla munnizza; anziché finanziare quella mostra pensate alla munnizza. C’è sempre un cassonetto stracolmo in cima ai pensieri di un palermitano, qualunque sia il discorso. E qui scatta il paradosso poiché l’immondizia di cui ci si lamenta è sempre quella dell’altro, e anzi quando si tratta di darsi da fare per centrare un cestino di rifiuti, per osservare un turno di conferimento, per non lordare strade e marciapiedi il problema evapora. Anche se la Rap avesse la potenza e la spietatezza di un battaglione israeliano, anche se la dotazione dei mezzi fosse finanziata da Elon Musk, ogni mattina all’angolo della strada comparirebbe il solito “sacchetto zero”, abbandonato selvaggiamente, destinato a figliare centinaia di altri sacchetti sino a farsi montagna maleodorante. Lo abbiamo visto a Mondello dove pure la raccolta differenziata era stata richiesta a gran voce dai residenti: niente da fare, lì dove c’erano i cassonetti sorgono pile di rifiuti. E ovviamente si invocano più controlli, telecamere, vigili, droni. Come se senza la pistola puntata non ci potesse essere civiltà, come se l’immondizia avesse i piedi e le ali (quindi la si abbandona in un parco o per strada e il cassonetto se lo va a cercare da sola).
Strana città quella che invoca la forza contro la sua stessa debolezza, che chiede un rispetto unilaterale, che annega senza volersene accorgere.

Il disprezzo per i giornali

Si discute spesso e in modo troppo sbrigativo della crisi del giornalismo. È un problema di livello mondiale che si riverbera, amplificandosi, nelle testate regionali e locali.
La prima cosa da dire è che i mezzi di informazione hanno fatto di tutto per meritarsi il disprezzo che li circonda. In America come in Italia i giornali, a causa di ristrettezze economiche ma anche di una discreta quota di imperizia, hanno mostrato un’ostinazione nel far male il loro lavoro che rasenta il fantascientifico.

Da un lato molti colossi dell’informazione hanno messo gli obiettivi politici davanti a ogni cosa, piegandosi anzi inginocchiandosi davanti a quel potere che avrebbero dovuto sorvegliare. Dall’altro l’imbarazzante ricerca affannosa di contenuti acchiappa-clic ha impoverito l’offerta informativa contribuendo pericolosamente alla creazione di bolle e al proliferare dei pregiudizi. In pratica i mezzi di informazione si sono messi a scimmiottare l’algoritmo di quei social che un tempo consideravano veleno.
Ma la parte più pericolosa l’ha evidenziata Rebecca Solnit sul Guardian: “Vogliono darsi (sottinteso i giornali, nda) una parvenza di equità ed equilibrio trattando il vero e il falso, il normale e l’inaudito come ugualmente validi, e normalizzando i repubblicani, soprattutto Donald Trump, traducendo in frasi comprensibili le sue farneticazioni, mentre sorvolano sui crimini che ha commesso e sulle attuali menzogne e minacce. Oscurano continuamente storie importanti con conseguenze reali”.

Seguendo il ragionamento della Solnit una delle accuse che mi provoca più imbarazzo quando leggo le cronache di un qualunque giornale è, ad esempio riferita a un politico, quella di “non sapere comunicare”. Che è un vero cortocircuito logico giacché il compito dei giornali dovrebbe essere proprio quello di raccontare cosa fa quel politico e non recensire come lui parla di sé. Secondo questa logica un politico che invece comunica bene si dovrebbe prendere un applauso dalle redazioni per via della semplificazione del lavoro. Ovviamente ogni generalizzazione va evitata: sappiamo bene che esistono prodotti giornalistici di gran livello e che l’informazione di qualità resiste (anche se a fatica).

È in questo scenario che, per fortuna, prendono piede o in certi casi resistono newsletter di giornalisti intraprendenti e blog di personaggi ostinati (tipo il sottoscritto, perdonate l’autocitazione ma ognuno a casa propria può sentirsi un re). Solo che è un lavoraccio perlopiù gratuito che non dà altra soddisfazione che quella di una coscienza pulita (con la quale non si mangia ma si dorme benissimo).

Se Brusca si racconta in un libro

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Non si recensisce l’aria che respiriamo. Per questo il libro in cui Giovanni Brusca si racconta a don Marcello Cozzi, sacerdote, ex vicepresidente di Libera, componente della commissione di Papa Francesco per la scomunica alle mafie, va inquadrato in un’ottica molto ampia, non letteraria, forse civile. Di certo è l’idea quella sulla quale discutere. L’idea che un uomo dalle gesta criminali come Brusca, colpevole dei più orribili tra gli orribili omicidi di Cosa Nostra, abbia modo di dipanare il suo rosario di indecisioni, di rimorsi, di scelte è oggettivamente urticante.

Nella sua personalissima parabola l’assassino del giudice e del bambino, dell’amico e del rivale, del passante e del fuggiasco ci ha mostrato il lato più oscuro della sua scala di odio personale: quello che mette alla pari tutti e che impressiona per lo stesso identico grado di ferocia riservato ai primi e agli ultimi. Le memorie di Brusca sono anche un caso eccezionale di recupero dei ricordi per uno che ha ammesso di non tenere a mente neanche quanti omicidi ha commesso (“molti più di cento, sicuro meno di duecento”, ha testimoniato). E, badate bene, qui non si discetta di opportunità o di rispetto per le vittime: quelli sono argomenti che stanno alla base e che, come da copione, vengono tenuti in soffitta e rispolverati a ogni tot di commemorazioni. Il tema è un altro. E lo pongo come domanda che non ha una risposta precisa: il liberarsi nel ricordo è un succedaneo dell’espiazione?

La forma routinaria degli omicidi commessi da Giovanni Brusca ha reso un inferno persino la memoria di quelle vite bruciate come erba secca. Ed è comprensibile come i sopravvissuti abbiano esercitato, spesso controcorrente ma in modo nonviolento, il diritto di non perdono. Oggi il rischio è che, anche involontariamente, gli incubi del carnefice si diluiscano in sogni di remissione, mentre quelli della vittima sono solo fumo disperso nel cielo. Ed è questa l’aria che respiriamo.

Perché quello a Salvini non è affatto un processo politico

Nel suo video a metà tra il Sorrentinesco e il ridicolo, Matteo Salvini dice che lo vogliono arrestare per aver fatto il suo dovere (costituzionale) cioè per aver difeso i confini nazionali. Eppure già nel 2019 lui stesso aveva sfidato la giustizia italiana dicendo “processatemi pure tanto io non cambio idea”. Ma questo è solo il riflesso dialettico della bizzarra coerenza del leader della Lega che lancia la pietra e nasconde la mano.
Il caso – qui un link utile – è quello della nave della ONG spagnola Open Arms alla quale nell’agosto del 2019 fu negato di far sbarcare nel porto di Lampedusa 147 profughi soccorsi in mare.
Senza impelagarci in disquisizioni giuridiche, senza spaccare in due il pelo della politica si capisce a distanza di un miglio marino che in questa vicenda non c’entrano nulla l’intrusione della magistratura nella politica, il complotto delle toghe rosse per rovesciare un governo di destra, l’invenzione di un crimine ad hoc per incastrare un ministro che ha fatto solo il suo dovere (e qui la presidente Meloni o è in malafede o è malconsigliata).
In realtà i magistrati palermitani stanno evidenziando come un ministro ha calpestato il diritto internazionale per far fede a una propaganda non soltanto sua ma di un intero Governo, il governo Conte con i fantastici Cinque stelle che per un certo periodo avallarono quelle scelte.

E qui va aperta una parentesi in cui la politica, sì, c’entra.

Il processo di Palermo si celebra perché nel 2020 il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere ribaltando la decisione dell’apposita Giunta: finì 149 a 141, con il voto favorevole e decisivo dei Cinque Stelle. Che invece pochi mesi prima, nel marzo 2019, quando ancora governavano con la Lega, avevano espresso un giudizio diametralmente opposto (Salvini non è l’unico campione di bizzarra coerenza) schierandosi contro il processo all’allora ministro dell’Interno. Eppure l’accusa era identica, sequestro di persona per aver trattenuto 150 migranti a bordo della nave italiana Diciotti, e per il quale un altro tribunale per i reati ministeriali aveva chiesto l’autorizzazione.
“In quell’occasione – ricorda oggi Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera  – i grillini affidarono la decisione al voto degli iscritti alla loro piattaforma telematica, ponendo un quesito che nei tribunali si chiamerebbe ‘domanda suggestiva’, perché implicitamente suggeriva la risposta: ‘Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari Paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?’. Il 60 per cento disse sì, seguendo le indicazioni della classe dirigente del Movimento, e il processo fu negato”. Bastò meno di un anno e quando il sodalizio di governo Lega – Cinque Stelle fini a tarallucci e vino, i grillini ci misero poco a voltare le spalle al loro ex alleato e lo mandarono a processo a Palermo.
Va detto che quello era il periodo d’oro di Salvini, quello in cui apriva e chiudeva i porti con un tweet e si rivolgeva ai poveri migranti scrivendo frasi tipo “la pacchia è finita” (qui il pezzo che scrissi per il Foglio su “La nuova malvagità democratica”). Il suo modello vincente è rimasto sempre lo stesso, quello di un ministro che sorride nella raffica di selfie e spara battute come un liceale in gita d’istruzione sfuggito al controllo dei professori.
Va anche detto – perché la memoria purtroppo non è come la lingua che batte sul dente che duole ma se ne fotte – che era anche l’epoca del vergognoso pacchetto sicurezza secondo il quale trenta morti di fame, al gelo di una deriva in pieno Mediterraneo invernale e incazzato, costituivano una minaccia per la sicurezza nazionale.
E come se non bastasse va altresì detto che il primo a opporsi a quel decreto ingiusto e oltraggioso fu l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando con una decisione di grande civiltà (e di grande spessore politico) che resta nella mia memoria e spero in quella di altri.

Tornando a oggi, e alla luce di tutto ciò, si impone una domanda: quale e dove sarebbe l’ideologizzazione in una magistratura che vuole punire un ministro che sapeva di violare i trattati internazionali con un atto di becera presunzione politica? Salvini voleva far sazia la pancia di quel paese che lo aveva votato, una pancia che se ne infischiava dello Stato di diritto e che voleva ributtare gli immigrati a mare, in barba a ogni legge di ogni paese civile. È stato Salvini a portarsi davanti ai giudici in quell’agosto 2019, consapevole di fare un atto contro il diritto internazionale, un atto di propaganda personale. Ora grida alla costruzione di un complotto, ma i mattoni li ha impilati lui.
La richiesta di condanna a sei anni della Procura di Palermo è un atto conseguente a una detestabile provocazione fatta sulla pelle dei deboli, dei disperati e dei volontari che cercano di salvare vite. Salvini se l’è cercata, irresponsabilmente come è suo costume. Ed è giusto che paghi.

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