Il sigaro di Bill e la cenere di Sangiuliano

Quando la scorsa settimana l’ex ministro Gennaro Sangiuliano ha cercato di mettere una pezza al disastro combinato con la presunta consulente Maria Rosaria Boccia rilasciando una lunga (c’è chi dice troppo) intervista al Tg1, sono bastati un paio di post su Instagram per annientarlo politicamente e umiliarlo umanamente. Di fatto c’erano un ministro e la cosiddetta rete ammiraglia della televisione pubblica da un lato (senza tener conto del prime time e dell’intervistatore, il direttore del Tg1) e una privata cittadina col suo account di un social network dall’altro. È noto a tutti chi ha vinto il braccio di ferro, ma è noto non a tutti da dove proviene la forza dei nuovi media, il loro carico di rischio, gli equivoci che si ingenerano quando li si invoca come simbolo di libertà.

È una storia che parte da lontano, infatti questo articolo fa parte della categoria long form, quindi mettetevi comodi e se possibile dedicatevi anche ai link (tanto è gratis).

La sera del 17 gennaio 1998 su un sito americano di news e gossip, il “Drudge Report” di Matt Drudge, viene pubblicata una soffiata: “Il ‘Newsweek’ ha bloccato una storia destinata a scuotere Washington dalle fondamenta: una stagista della Casa Bianca ha avuto una relazione sessuale con il presidente degli Stati Uniti!”. Il sito si riferisce a un articolo del giornalista Michael Isikoff, non pubblicato in attesa di ulteriori verifiche. Ma il web in quel momento è davvero un’altra cosa e se ne frega di ogni controllo (molto più di oggi). È l’inizio del famoso scandalo Clinton-Lewinsky. Qualcuno tra i commentatori del tempo storce il muso e saluta la nuova era con diffidenza: così si abbassano gli standard del giornalismo, è l’accusa (piuttosto fondata). Eppure i giornali, assorbito il colpo, si fiondano sulla notizia che entra nelle case di tutti i lettori del mondo non più solo attraverso la porta principale dei media tradizionali (quotidiani, radio e tv), ma anche da quella dei computer con connessioni traballanti, modem a carbone e immagini sgranate. La vera svolta, fondamentale per la nostra storia, arriva qualche mese dopo, l’11 settembre del 1998 quando il Congresso americano pubblica per la prima volta sul web il report redatto dal grande accusatore di Bill Clinton, il procuratore Kenneth Starr. Ricordo quella sera al Giornale di Sicilia, davanti al mio computer con una connessione quasi clandestina. Era – va detto –  il giornale in cui il caporedattore centrale proprio in quei giorni aveva pronunciato una frase ormai famosa: “Propongo di non scrivere la parola internet sui giornali perché è una cosa che tra qualche mese finisce”. Quella sera tutti si riunirono attorno alla mia postazione per ammirare la magia di una notizia – e che notizia – che arrivava nientemeno che dal web, cioè da un non luogo di perditempo e segaioli (così eravamo considerati noi testardi che ci ostinavamo a vedere in internet una risorsa inaudita). E lì accaddero due prodigi.
Il primo fu la materializzazione del report in tempo reale sul monitor, proprio qualche secondo dopo il suo rilascio.
Il secondo, ancora più incredibile, fu quando attivai la funzione “cerca” nel documento e digitai le due parole chiave che tutto il mondo in quel momento sussurava: “cigar” cioè sigaro e “blowjob” cioè pompino (se lo fate anche voi ora, vi rendete conto del perché). La storia si svelò subito, senza inutili perdite di tempo nel vagare tra pagine e pagine, nei suoi aspetti più grottescamente piccanti e politicamente detonanti.

Il caso Clinton Lewinsky – e non lo scandalo di Berlusconi con le sue “cene eleganti” – è il riferimento ideale per cercare di capire il rapporto tra cronaca e nuovi media. E di conseguenza tra cronaca e social network.
Il problema dei problemi è oggi quello legato alla libertà di espressione che è una questione di valutazioni, di norme sociali e di equilibri legali. “La libertà di espressione non è un diritto assoluto – scrive Alan Rusbridger, ex direttore del Guardian – se non nella mente di libertari come Elon Musk. Perfino lui dev’essere consapevole del fatto che è meglio non urlare “Al fuoco!” dentro un cinema. Eppure, durante le violenze seguite ai fatti di Southport, quando ad agosto in tutto il Regno Unito sono scoppiate proteste contro l’immigrazione organizzate da gruppi di estrema destra, non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco con le sue dichiarazioni. Musk è convinto che la libertà d’espressione coincida con la verità, come se conoscesse il Saggio sulla libertà del 1859 di John Stuart Mill, in cui il filosofo scriveva: ‘Le opinioni e le pratiche erronee cedono gradualmente ai fatti e agli argomenti’.”

Ecco il punto: il più grande errore che, rispetto ai social, si possa commettere è confondere la libertà di parola con la verità rivelata. Come se tutto ciò che si dice, e si scrive, fosse lo specchio del vero.
Le statistiche ci dicono che in Italia, ogni cento persone il 2,22 per cento fa o aspira a fare l’influencer. Un utente medio di X ha settecento follower. Elon Musk ne ha 196 milioni, quindi la sua voce è 280mila volte più potente. “L’imprenditore però – continua Rusbridger –  ha insistito perché la sua piattaforma fosse riprogettata per amplificare le sue opinioni. Ora esercita un dominio intergalattico sul dibattito pubblico. Nel momento in cui twitta informazioni false mentre delle bande si aggirano per le strade cercando di dare fuoco agli alberghi che ospitano i richiedenti asilo, si comporta come Donald Trump quando ha alimentato l’insurrezione del 6 gennaio 2021”.  
È chiara – anche senza Musk – la pericolosità della presunta “parola libera” non solo a seconda di chi la pronuncia, ma anche a seconda dell’ambito in cui si propaga.

E siamo di nuovo al caso Sangiuliano-Boccia. Di cui Michele Serra, nella newsletter del Post Ok Boomer, ha stigmatizzato “la sua decrepitezza, la sua scontatezza. Miliardesimo remake di un film vecchio almeno tre o quattromila anni. Il maschio di potere che usa il suo ruolo per sedurre (o illudersi di sedurre) la dama ambiziosa che lo corrisponde per farsi strada in società. Non stiamo parlando di Luigi XV e della du Barry, non stiamo parlando di Versailles ma della provincia campana e della sua piccola borghesia, tutto è in scala minima, le grandi cortigiane erano colte e ingegnose, usavano l’eros come chiave per schiudere le porte del Palazzo ma una volta dentro sapevano essere artefici, o tra gli artefici, della politica e della cultura. Se du Barry avesse avuto un account Instagram, sarebbe stato in tre lingue, raffinatissimo, e fotoscioppato (ante litteram) dai più prestigiosi truccatori, parrucchieri, sarti, decoratori e tappezzieri di Francia”.
Qui, al di là del distacco morale giustamente ostentato da Serra, va sottolineata la forza di impatto dei social sui media tradizionali. Non conta l’attendibilità della notizia, quanto la sua istantaneità, la falsa unicità del rapporto autore-utente. Boccia scrive in diretta su Instagram, di notte, a ciascuno di noi. Non è filtrata da una telecamera, non è introdotta da un mezzobusto, non deve convincerci. Digita ergo c’è, sul pezzo, con la sua verità che non viene messa in dubbio per un semplice motivo: non interessa. Importa solo che lei ci sia, reale eppure impalpabile, che dia il suo contributo alla Grande Illusione che ci fa credere di essere tutti Davide contro Golia, uno smartphone come una spada, un’ideuzza come un proclama.

Ecco, nella scomparsa dei fatti, lungo le finte praterie dei social galoppano bufale senza padrone: conta l’effetto non l’attendibilità. È un fenomeno di cui abbiamo parlato più volte, qui e altrove, in cui l’antica credulità popolare si è fatta mainstream, in cui l’odio non è più solo un sentimento ma un condimento con cui insaporire il piatto scialbo di una realtà che cambia a nostro piacimento. E che se fosse soltanto virtuale almeno si potrebbe spegnere con un clic.

L’immagine di questo post è generata con intelligenza artificiale.

(Anti)Mafia, il coraggio che manca

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Per descrivere le cose di mafia trafughiamo e/o ricicliamo idee dei Grandi pur di mascherare la nostra indolenza. Lo facciamo usando spesso a sproposito un profluvio di aggettivi che accorciano i ragionamenti, vestendoli sgraziatamente: sciasciano per indicare posizioni e visioni asimmetriche rispetto al pensiero dominante; pirandelliano per accennare all’impossibilità di distinguere tra realtà, finzione e apparenza; gattopardiano per dire dell’adattabilità rispetto ai cambiamenti con l’obiettivo di mantenere intonsi i privilegi acquisiti. Mai che ci scappi il gesto barbaro di un’invenzione, di una lettura non viziata da quella che oggi possiamo definire come un’epidemia di distrazione sociale.
E poi, a guardare le nuove inchieste che attingono a piene mani dal passato del cosiddetto dossier “mafia e appalti”, c’è un vizio che intorbida le nostre sensazioni: il recentismo, cioè l’accumularsi di nuove informazioni che non valutano la prospettiva storica. Attenzione, non parlo della legittimità delle indagini ma dell’effetto che esse hanno sulla memoria collettiva giacché il recentismo in quest’ambito è lo strangolatore di essa.

Il dossier “mafia e appalti” è un evergreen in tal senso. È bene ricordare di cosa parliamo: un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Appare e scompare ogni tot di anni e si porta appresso una sorta di maledizione. Indentificato come una delle cause della vertiginosa accelerazione degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, rappresenta un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per stilare o per correggere, per indagare o per nascondere. A cominciare dai carabinieri che lo scrissero, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per via di una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente al termine di un lungo calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con i magistrati Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone indagati dalla Procura di Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Indagini complicate, com’è complicato mettere le mani in un vaso di Pandora in cui si mescolano soldi, sangue e patti inconfessabili, ma afflitte nel sentire comune dal recentismo che, per dire, non tiene conto di cosa significava fare il poliziotto nelle contrade percorse da proiettili vaganti, di quanto pesavano la politica delle promesse e l’antimafia delle carriere. Soprattutto non tiene conto di cos’era quel palazzo di giustizia di Palermo con tutta un’allegoria di animali: corvi, talpe, colombe, falchi, serpi, coccodrilli (molte le lacrime). Un’Arca di Noè dove però alla fine non si salvò nessuno.

Ecco, quando siamo tentati di abbozzare giudizi a proposito del passato sull’onda di un’ urgenza del presente (un’inchiesta riesumata o una qualunque interessantissima scoperta di archeologia giudiziaria) sarebbe cosa buona e giusta arginare il recentismo. E contestualizzare.

Per dire, allora c’era la “società civile” coi suoi lenzuoli candidi, con le sue mobilitazioni spontanee che non hanno mai conosciuto la droga dei social, col suo essere ago preciso di bilance perlopiù altrui. Oggi non c’è più e nessuno l’ha uccisa, nessuno l’ha rapita. Si è estinta a causa di quel cataclisma sociale che ci ha portato a essere tutti (forzatamente) presenti pur non essendoci: partecipanti in contumacia, movimentisti da polpastrello. Anche l’humus sul quale era nata e cresciuta è cambiato. L’urgenza drammatica dell’aggressione mafiosa ha lasciato spazio ad altre urgenze: dai rifiuti dietro la porta all’odio dietro lo schermo. Le emergenze fanno il loro lavoro che è quello di sommare problemi a problemi senza sommergerli, e in tal modo ci ingannano: in fondo non cambia nulla a eccezione del nostro modo di reagire. La mafia non è mai finita, ma non è più tra i trend topic, anzi non lo è mai stata diciamo per mission aziendale. Come in ogni estinzione che si rispetti la specie scomparsa farà sentire la sua assenza dopo molto tempo. Per capire com’è andata col dinosauro della società civile e con gli altri fossili di mafia più o meno incravattata, bisognerà scavare ancora. Magari trovando il coraggio di farlo in terreni miracolosamente intonsi tipo quello del depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio, unico caso al mondo in cui tutti i magistrati che portarono a decenni di deragliamenti giudiziari non sono mai stati puniti. E lì non c’è recentismo che tenga. Eterno è il peso di dolore sociale di uno sfacelo senza responsabili.

Perché è lì

Si narra che alla domanda “perché scalare l’Everest?”, il grande alpinista George Mallory, precursore delle spedizioni oltre gli ottomila, abbia risposto: “Perché è lì”.
Oggettivando l’essenza dell’avventura, togliendo se stesso dal palcoscenico, Mallory spiegò in tre parole il senso di una missione. Non disse “perché ci sono io”, né “perché è il mio sogno”. No, diede la responsabilità e il merito alla montagna.
Una bella lezione anche fuori dall’ambito dell’avventura geografica, dalla scommessa umana. Nei miei viaggi ho imparato a imparare come non assorbire pregi che non sono nostri, come restare sempre altro rispetto a quello che mi circondava: il migliore punto di vista sulle cose non è appropriarsene, ma girarci attorno, osservarle, studiarle e lasciarle lì dove sono.
La nostra abitudine social a entrare nel panorama dice molto di noi stessi, della insopportabile superficialità con la quale pretendiamo di farci monumento, di raccontarci con l’arte altrui, di strappare la bellezza dal quadro per farne un gadget da salotto.

Ogni volta che rientro da un viaggio faticoso, tipo un cammino in cui non mi sono fermato per trenta giorni, devo fare i conti con una cosa che gli sportivi conoscono bene: la crisi delle endorfine. Insomma mi sento svuotato, ho più sonno del solito, mi annoio esageratamente, mi prende un senso di inutilità come se senza la razione di chilometri quotidiani il mio corpo occupasse abusivamente uno spazio immobile. È il momento in cui cerco di stilare più progetti perché so che qualcuno lo perderò per strada per inerzia o addirittura per capriccio (c’è un sottile autocompiacimento nel concedersi un piano che non pretende la sicura attuazione e al contempo strizza l’occhio a una lenta dissoluzione). Ed è il momento in cui ripasso le storie dei grandi esploratori, alpinisti, viaggiatori estremi e immagino come si sono sentiti quando, dopo le loro incredibili avventure, magari sopravvissuti per un soffio (non è il caso di Mallory), hanno dovuto fare i conti con i loro spettri: il rientro a casa, l’obbedienza all’ordinarietà, l’impossibilità di trovare un nuovo palcoscenico da cui scansarsi pur facendone parte.
E li immagino ripetersi domanda e risposta.
Perché hai fatto quella cosa così difficile?
Perché era lì.

La morte dimenticata di Libero Grassi

Strana storia quella in cui c’è un delitto, c’è il movente, ci sono i colpevoli, c’è il tempo che ha provato a lasciar sedimentare la rabbia (anche se la rabbia non sedimenta mai, al limite si cementifica, cresce in verticale come un pilone di autostrada) eppure non c’è la fine. Una storia senza fine non è una storia, è una bici senza ruote, un coltello senza lama, una minestra senza ingredienti.

In questo podcast si ripercorre la vicenda dimenticata di Libero Grassi, l’imprenditore coraggioso che osò ribellarsi al racket delle estorsioni a Palermo e che per questo fu ucciso in uno dei più annunciati delitti di mafia. Ma soprattutto si ricostruisce il contesto in cui quell’omicidio nacque: tra imprenditori apertamente collusi, giornali ipergarantisti, antimafiosi incauti e giudici soli.
Soli come lui.
Cadaveri ambulanti come lui.

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La morte dimenticata di Libero Grassi
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Finire ovvero ricominciare

Dalle parti di Santiago.

Eccomi alla fine. Anzi rieccomi in un’altra fine. Perché di finali come questi ne ho vissuti un bel po’ negli ultimi anni. L’arrivo di un Cammino è l’esatto contrario della fine di un viaggio: non fai consuntivi, ma al contrario guardi (ancora) avanti perché non sei andato a cercare qualcosa ma, almeno nel mio caso, qualcosa ti ha raggiunto. Il percorso che farai adesso sarà di certo diverso, nuovo rispetto a quello fatto finora.

Un Cammino cambia. Cambia tutti, persino quelli più refrattari ai cambiamenti o quelli scafati, e parlo per cognizione di causa. Per questo l’arrivo è una partenza: c’è sempre una fulminazione che ti ha preso strada facendo e che, insinuandosi nelle pieghe della tua inerzia di uomo abitudinario, darà i suoi frutti mesi, anni dopo. 
So della vita poco, perlopiù recensisco quello che mi gira intorno, e manco troppo perché spesso mi rompo i coglioni e giro i tacchi (l’ho fatto con giornali, cristiani, istituzioni, compagnie sentimentali, finti amici eccetera).  
Eppure ogni volta che ho finito un Cammino ho combinato qualcosa di utile per me stesso. In fondo siamo fatti di un 90 per cento di decisioni non prese, quindi basta prenderne un paio in più per poter dichiarare a se stessi di essersi dati una mossa. 

Un pensiero ricorrente che dà frutti inaspettati, passo dopo passo, è quello che investe il rapporto con gli altri, nelle sue infinite declinazioni: è innegabile che un Cammino rappresenti uno stress-test in tal senso. L’idea consolidata è che non ci aspetta nessuno (per le implicazioni e le eccezioni vi rimando a questo post di qualche anno fa). Il che non significa affatto che la solitudine sia la panacea: io odio la solitudine perché è uno stato d’animo che induce depressione, isolamento, masochismo. Al contrario – ma non è tema nuovo per chi segue queste pagine – il muoversi da solisti spinge a guardare l’altro, a dargli l’attenzione che merita, a coltivare con passione la positività che è pianta siccagna, e che vive con pochissima acqua fuori dalle staccionate del Mulino Bianco. 
Credo che imparare a stare da soli sia qualcosa di molto simile a fare un corso di primo soccorso, solo che il paziente siamo noi. Che poi diciamolo stare da soli è un eccitante trampolino verso la socialità di ritorno, anzi del ritorno. Solo prendendo una rincorsa si salta più lontano: il mio settembre è generalmente il mese più sociale dell’anno ;) 

Tutto questo per dirvi che in questo Cammino Francese è andata bene nonostante i mesi precedenti siano stati bruttini (e bruttini è un eufemismo, come i miei amici più cari sanno bene). Sono ideologicamente contrario ai panni sporchi lavati malamente in pubblico quindi su questo argomento metto un punto e a capo. Come si fa in un Cammino, punto e a capo. Ci vuole sempre tempo per ricominciare, e ricominciare è il principio dell’arte e della natura. La prima dipende da noi, l’altra dal nostro Principale.
Ecco, un Cammino serve a rendere compatibili queste visioni, ci aiuta a esplorare la lunga ferita della nostra felicità –  una felicità che non ha sanguinato è un imbroglio – ci fa ridere davanti al nulla e commuovere persino davanti al qualunque. E ci induce a godere di tutto ciò che, immenso, ci sta nel mezzo. 

Grazie di avermi letto.

21 – fine

Il limite

Da Portomarin a Melide.

Sono arrivato quasi alla fine, al ventottesimo giorno di scarpinata ininterrotta: nella tappa di oggi ne ho concentrate due, per un totale di quasi di 40 chilometri, in modo da contenere in 30 giorni totali questo Cammino Francese. Del resto la fatica ha smesso di essere un tema di riflessione già da tempo essendo ineludibile e soprattutto non imprevista. C’è, sta lì, ce l’hai messa tu e ha un compito cruciale, quello di darti quella minima sofferenza che serve a darti vigore. Come gli evoluzionisti sanno bene, la felicità infiacchisce. Ogni progresso, ogni cambiamento ha sempre una parentela di primo grado con una crisi, con uno sforzo, con una delusione, con un fallimento (parlo di evoluzione in larga scala, non di vacanze ordinarie eh). Però un Cammino è comunque una preziosa occasione per fare i conti, controllare le cifre sul taccuino e magari correggere qualcosa.    

La fatica non è affatto gioia, piuttosto è un enzima che catalizza reazioni che magari sarebbero avvenute anche senza aiutino, ma chissà quando. Ci mostra non eroici – a meno che non siamo recordman olimpici – ma perfettamente imperfetti, allineati una volta tanto con la nostra preziosa e trascurata modestia. La fatica evidenzia i nostri difetti, rimarca l’età, apparecchia con cura la tavola di fastidi e doloretti. Ma al contempo ci consegna a una legge di natura: ogni nostro progresso proviene da una imperfezione. Senza l’ostacolo non salti. Senza la salita non avrai mai confidenza con alcuni muscoli. Senza il sudore non conoscerai il tuo odore.

Infine il tema più mistificato o equivocato. Molti credono che chi scala le montagne, chi corre le maratone, chi cammina per mille chilometri sotto il sole o sui ghiacci, lo faccia per tentare di superare un limite. È una lettura sbrigativa, superficiale e di conseguenza errata. Far pace con i propri limiti significa al contrario accettarli. Significa capire, anzi provare sulla propria pelle che il confronto col nostro senso del limite è l’unico modo che abbiamo per vivere civilmente, senza invadere l’altro, senza discriminarlo. 
Ricordiamocelo. Ogni forma di prevaricazione nasce dall’inadeguatezza di fronte a un limite nostro e soltanto nostro. 

20 – continua 

Adoranti e rotolanti

Da Barbadelo a Portomarìn.

La cosa più difficile da spiegare è quella che non conosci o al contrario che pochi conoscono come te. Tolta di mezzo la prima opzione – generalmente non solo non parlo di ciò di cui non so, ma detesto violentemente chi lo fa – la seconda va affrontata con cautela. 
Ho più volte blaterato su come i miei Cammini siano combacianti con un (non monastico) stile solistico: cioè mi piace stare da solo fin quando l’altro posso contingentarlo come dico io (e siamo in pieno onanismo relazionale ma ognuno ha i suoi pregi). È un contratto che ho firmato con me stesso e per onorare il quale ho fatto un mutuo a vita, tipo polizza no-scassaminchia Unipol. 
Insomma adoro questo mese in cui tutto il mondo cerca il caos organizzato, onora il circolo esclusivo cenando con chi non vorrebbe accanto manco al semaforo e finge il divertimento assoluto nella più relativa delle alcove turistiche dove in una visione di 360 gradi 300 sono panorami di scontrini non fiscali, e io sono altrove.
Un altrove che alcuni di voi conoscono in prima persona, perché molti lettori di questo blog sono più assatanati di me. 
Però siccome il paradiso in terra non esiste, almeno fin quando l’unica posizione orizzontale di cui sappiamo dire è quella in cui scandiamo il nostro respiro, c’è un angolo in cui siamo costretti a svoltare.

E lì capita che becchi l’altro che non volevi incontrare in quel frangente. E dici: minchia!
Lo ribadisco e lo scolpisco nella pietra del web tipo codice di Hammurabi: gli ultimi cento chilometri del Cammino sono il ricovero di tutta quella fauna pellegrina che vorrei evitare come l’herpes. 

Oggi ho (ri)preso confidenza con torme tatuate e smartphonanti che intasano sentieri, mangiano e bevono a ogni bar come se non ce ne fosse uno cento passi più avanti, blaterano ad alta voce, cantano stonati e soprattutto si esibiscono nel loro numero peggiore, quello dell’elastico. Camminano veloce fino quando possono, sono freschi e con bagaglio leggero quasi inesistente, ti superano. Poi li blocca una crisi cardiaca e si fermano: sbafano. Li superi col tuo passo timido e costante e con quel cazzo di zaino che ti abbraccia tipo amante fatale da 700 chilometri mentre loro sulle spalle hanno la felpina arrotolata. Ingurgitano e riprendono a correre a scatta-cuore e ti superano ancora fino a stramazzare al suolo, poi c’è l’albergue seguente. E tu vai. E loro si inchiummano. E loro ripartono. E tu cammini. E loro si ripropongonio ingiustificati come la Tari o crudeli come la peperonata di Pasquetta. E tu li sopporti mentre passano coi cellulari a musica sguainata (gli auricolari sono un’invenzione barbara per questi Unni undercover che governeranno il mondo). Così per chilometri. Ormai lo so, è il dazio da pagare per i giorni di inusitata e solitaria felicità: questi ultimi chilometri sono una terra che confonde camminanti con blateranti, adoranti con rotolanti.
Ma come dicevo all’inizio è difficile da spiegare per quei due motivi lì.

19 – continua

Partire è un po’ smarrire

Da O Cebreiro a Triacastela.
Da Triacastela a Barbadelo.

Nei momenti di spostamento la nostra vita si sostanzia di sparizioni. Quante cose avete perso durante un trasloco? Ho un piccolo record. Molti anni fa mi capito, durante uno dei soliti naufragi della vita, di fare tre traslochi nel giro di sette mesi. Ebbene ci furono un paio di pantaloni e un paio di scarpe che apparirono dal nulla al primo trasloco (le avevo date per disperse da tempo), scomparvero al secondo, e riapparvero al terzo, ma misteriosamente una scarpa non si trovò più. Erano nella stessa scatola: un po’ come il delitto della porta chiusa. 

Durante i viaggi ho perso di tutto, molto difficili le riapparizioni, non impossibili le reincarnazioni: ho un prezioso portachiavi che rappresenta tutti i lucchetti opposti all’invadenza di chi scambia un abbraccio per un passepartout e che reincarna chi non voglio mai più incrociare. Ma perdere una cosa non è come vederla scomparire. È peggio, perché manca la componente metafisica del dissolversi, quella specie di aura magica che ci illude di vivere in un’illusione in cui lo spazzolino che c’era e non c’è più non è una iattura ma un segno del destino (i denti, i denti cosa ci vorranno tramandare…), e ci si rassegna all’autoflagellazione della manata in fronte: e che cazzo!

Vi dissi della bandana dimenticata, non vi dirò del cappellino comprato in sostituzione e smarrito qualche albergue dopo. E qui serve approfondimento. Una cosa è dimenticare, smarrire. Un’altra è capire che hai dimenticato quando è troppo presto per rassegnarsi e troppo tardi per rimediare: un limbo in cui sei comunque sconfitto e per di più con la consapevolezza di essere uno che la sconfitta se l’è cercata. Se perdo una cosa voglio accorgermene in punto di morte, quando non ho cartucce da sparare, non quando posso ipoteticamente mettere mano a un rimedio seppur fantascientifico. Dimenticare può essere taumaturgico se non s’affaccia l’ometto che ti sussura “te l’avevo detto io”.
Come le storie d’amore alle quali chiediamo di eccitarci come un’anfetamina o di nascondere un dolore come un analgesico.
Partire è un po’ smarrire. Il viceversa, se ci pensate, sarebbe una fortuna.

18 – continua

Doping

Da Ponferrada a Villafranca del Bierzo.
Da Villafranca del Bierzo a O Cebreiro.

Dalle pietraie delle mesetas al verde rigoglioso del Cebreiro, dalla Castiglia e dal Bierzo alla Galizia, questa parte del cammino mette a dura prova la forza di adattamento climatica, orografica, e soprattutto le gambe che, giunte al seicentotrentesimo chilometro, provano a protestare.
Per fortuna ci sono varie forme di doping, parliamo di quelle lecite, a venirti incontro. Una di queste è quella che chiamo “musica inusitata” cioè quella musica che calpesta ogni tuo gusto, ogni tua storia, ogni tua memoria eppure ti spinge. Vi faccio l’esempio di oggi, mentre ero alle prese con un dislivello in salita di 1.015 metri su una tappa di 28,2 chilometri: mica bambole spettinate. Il mio doping di oggi è stato questo (ascoltatelo se ne avete il coraggio). Una cosa che non c’entra nulla con la mia ostentata raffinatezza di gusti musicali, con quello che chiamiamo background (o forse freudianamente sì). Un’unica infilata di pattern sempre uguali dove il ritmo prevale su ogni significato o forse è esso stesso significato: chi l’ha detto che la mente non ami il junk food? E soprattutto che non le faccia bene ogni tanto? 

Oggi sono finito ad adagiare le mie membra in un agglomerato di case, tra cui l’affittacamere che mi ospita (un tipo gentilissimo) e un bar che si spaccia per ristorante, quattro chilometri fuori dal Cammino: il che significa che tra oggi e domani dovrò percorrere otto chilometri in più (due ore). Nel presunto ristorante una ragazza che giustamente vorrebbe essere altrove anziché spazzare, servire ai tavoli, prendere ordinazioni con un’insofferenza che non posso che capire e giustificare, mi porta una cena che in altri ambiti mi farebbe scappare a zampe levate. E invece mangio e ringrazio, ringrazio a vuoto perché lei si rifiuta di capirmi, unico esemplare di spagnola che rifiuta l’italiano (dell’inglese manco a parlarne). Anche qui, in altri ambiti mi sarei lasciato prendere da un attacco Torquemada, ho il mio rimedio magico. La “musica inusitata”. Infilo auricolari e scrivo queste righe.
Prego che il doping valga anche per l’apparato digerente.

17  – continua

Artrite spirituale

Da Rabanal del Camino a Ponferrada.

Ho un incubo ricorrente che si propone in due versioni coincidenti. Sogno di tornare all’improvviso a scuola per sostenere l’esame di maturità. Inutilmente dico che l’ho fatto molti anni fa e che adesso ho un lavoro, ho fatto cose… niente: l’angoscia sale verso l’inesorabile bocciatura. Oppure sogno di tornare al giornale dove ho lavorato per vent’anni. Mi danno un posto da occupare per passare le pagine provinciali: ma io ho improvvisamente dimenticato tutto e non riesco neanche a trovare il fax, non ho un computer, una macchina da scrivere. Tutti mi guardano, i miei colleghi di allora, e dicono tra loro “vedi com’è finito”. E ridono di me che resto fino a notte fonda senza neanche chiudere una pagina.

Ultimamente mi è capitato un altro incubo che si è riproposto. Sono in un Cammino – non quello che sto facendo, un altro che pure ho concluso felicemente – e devo affrontare una lunga salita. Arrivato in cima, affaticato, c’è una via obbligata che fa un percorso strano e senza scendere,  come in un romanzo di Stephen King (di cui in questi giorni ho letto una bella biografia), mi riporta giù al punto di partenza, tre litri di sudore più in basso. Devo ricominciare, molte volte: fin quando rantolante non mi sveglio gridando: “E che cazzo!” E l’eco di questa imprecazione mi tormenta fin quando non mi attacco alla bottiglia dell’acqua e bevo come uno sconsiderato. 

La scorsa notte ho fatto proprio quest’incubo, quello della salita. E non per caso. Oggi avevo in programma la tappa più dura (che se la gioca con la prima sui Pirenei) in cui su 32 chilometri, una dozzina erano in salita sino a 1.200 metri e i restanti venti erano un’infinita pietraia molto ripida (pensate che la quota di dislivello in discesa è di 1.267 metri). 
Insomma l’incubo premonitore, o come caspita si può definire, rischiava di fiaccarmi. Invece forse per via delle ore di sonno (nove tonde tonde), forse per gli undici meravigliosi gradi al risveglio, o forse per un compromesso storico dei miei bioritmi, stamattina ero bello tosto, di buon umore (nonostante la sveglia anticipata di un’ora). Risultato: mi sono divorato la salita fresco come un Sangiuliano dopo la lettura del libro quotidiano, nonostante fosse il ventiduesimo giorno di marcia ininterrotta (a un’età, la mia, non proprio da tempo delle mele). Soprattutto l’altimetria mi ha consegnato un pensiero – qui si pensa, eh! – su quella che definirei artrite spirituale. 
Tendiamo a irrigidirci nelle nostre considerazioni, siamo poco elastici nel tradurre i segnali del nostro corpo e troppo proni verso quelli della nostra psiche. O meglio, non riusciamo a mettere in contatto i vari reparti operativi della nostra persona e lasciamo convergere nello spirito tutto quello che ci scoccia decrittare. 
L’artrite spirituale si guarisce rispettando la vera essenza delle salite e delle discese. Soprattutto uscendo dal luogo comune che vede le prime come sinonimo di sforzo, difficoltà, e le seconde come portatrici di agevolazioni, facilitazioni. Niente di più falso come sa chi fa trekking a buon livello, maratone in alta quota, trail, cammini lunghi con uno zaino in spalla.
Nella stragrande maggioranza dei casi le discese sono molto più impegnative delle salite e richiedono uno sforzo tanto maggiore quanto è mancato un allenamento a parte. Perché mettono in gioco altri muscoli, che tendiamo a sottovalutare.

Ecco, metteteci tutte le metafore di cui siete capaci e ditemi se la vostra artrite spirituale non ha bisogno di un occhio diverso. Meno ordinario, meno sbrigativo, meno convenzionale.
D’ora in poi quando vi troverete in una salita della vita, provate a pensare che non è il peggio che poteva capitarvi. Poteva essere una discesa. 

Nella foto una minima idea della pietraia di stamattina.

16 – continua