Il paradosso dell’immondizia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

L’immondizia a Palermo non è solo un grave problema (come il traffico, la siccità e altre piaghe frutto di storiche ironie cinematografiche) ma è un paradosso complicato. I rifiuti che ammorbano le nostre contrade sono l’eterno termine di paragone (benaltrista) quando c’è un problema da risolvere o una nuova iniziativa da pesare. Tipo: invece di pensare agli immigrati pensate alla munnizza; prima di restaurare quel monumento pensate alla munnizza; anziché finanziare quella mostra pensate alla munnizza. C’è sempre un cassonetto stracolmo in cima ai pensieri di un palermitano, qualunque sia il discorso. E qui scatta il paradosso poiché l’immondizia di cui ci si lamenta è sempre quella dell’altro, e anzi quando si tratta di darsi da fare per centrare un cestino di rifiuti, per osservare un turno di conferimento, per non lordare strade e marciapiedi il problema evapora. Anche se la Rap avesse la potenza e la spietatezza di un battaglione israeliano, anche se la dotazione dei mezzi fosse finanziata da Elon Musk, ogni mattina all’angolo della strada comparirebbe il solito “sacchetto zero”, abbandonato selvaggiamente, destinato a figliare centinaia di altri sacchetti sino a farsi montagna maleodorante. Lo abbiamo visto a Mondello dove pure la raccolta differenziata era stata richiesta a gran voce dai residenti: niente da fare, lì dove c’erano i cassonetti sorgono pile di rifiuti. E ovviamente si invocano più controlli, telecamere, vigili, droni. Come se senza la pistola puntata non ci potesse essere civiltà, come se l’immondizia avesse i piedi e le ali (quindi la si abbandona in un parco o per strada e il cassonetto se lo va a cercare da sola).
Strana città quella che invoca la forza contro la sua stessa debolezza, che chiede un rispetto unilaterale, che annega senza volersene accorgere.

Il disprezzo per i giornali

Si discute spesso e in modo troppo sbrigativo della crisi del giornalismo. È un problema di livello mondiale che si riverbera, amplificandosi, nelle testate regionali e locali.
La prima cosa da dire è che i mezzi di informazione hanno fatto di tutto per meritarsi il disprezzo che li circonda. In America come in Italia i giornali, a causa di ristrettezze economiche ma anche di una discreta quota di imperizia, hanno mostrato un’ostinazione nel far male il loro lavoro che rasenta il fantascientifico.

Da un lato molti colossi dell’informazione hanno messo gli obiettivi politici davanti a ogni cosa, piegandosi anzi inginocchiandosi davanti a quel potere che avrebbero dovuto sorvegliare. Dall’altro l’imbarazzante ricerca affannosa di contenuti acchiappa-clic ha impoverito l’offerta informativa contribuendo pericolosamente alla creazione di bolle e al proliferare dei pregiudizi. In pratica i mezzi di informazione si sono messi a scimmiottare l’algoritmo di quei social che un tempo consideravano veleno.
Ma la parte più pericolosa l’ha evidenziata Rebecca Solnit sul Guardian: “Vogliono darsi (sottinteso i giornali, nda) una parvenza di equità ed equilibrio trattando il vero e il falso, il normale e l’inaudito come ugualmente validi, e normalizzando i repubblicani, soprattutto Donald Trump, traducendo in frasi comprensibili le sue farneticazioni, mentre sorvolano sui crimini che ha commesso e sulle attuali menzogne e minacce. Oscurano continuamente storie importanti con conseguenze reali”.

Seguendo il ragionamento della Solnit una delle accuse che mi provoca più imbarazzo quando leggo le cronache di un qualunque giornale è, ad esempio riferita a un politico, quella di “non sapere comunicare”. Che è un vero cortocircuito logico giacché il compito dei giornali dovrebbe essere proprio quello di raccontare cosa fa quel politico e non recensire come lui parla di sé. Secondo questa logica un politico che invece comunica bene si dovrebbe prendere un applauso dalle redazioni per via della semplificazione del lavoro. Ovviamente ogni generalizzazione va evitata: sappiamo bene che esistono prodotti giornalistici di gran livello e che l’informazione di qualità resiste (anche se a fatica).

È in questo scenario che, per fortuna, prendono piede o in certi casi resistono newsletter di giornalisti intraprendenti e blog di personaggi ostinati (tipo il sottoscritto, perdonate l’autocitazione ma ognuno a casa propria può sentirsi un re). Solo che è un lavoraccio perlopiù gratuito che non dà altra soddisfazione che quella di una coscienza pulita (con la quale non si mangia ma si dorme benissimo).

Se Brusca si racconta in un libro

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Non si recensisce l’aria che respiriamo. Per questo il libro in cui Giovanni Brusca si racconta a don Marcello Cozzi, sacerdote, ex vicepresidente di Libera, componente della commissione di Papa Francesco per la scomunica alle mafie, va inquadrato in un’ottica molto ampia, non letteraria, forse civile. Di certo è l’idea quella sulla quale discutere. L’idea che un uomo dalle gesta criminali come Brusca, colpevole dei più orribili tra gli orribili omicidi di Cosa Nostra, abbia modo di dipanare il suo rosario di indecisioni, di rimorsi, di scelte è oggettivamente urticante.

Nella sua personalissima parabola l’assassino del giudice e del bambino, dell’amico e del rivale, del passante e del fuggiasco ci ha mostrato il lato più oscuro della sua scala di odio personale: quello che mette alla pari tutti e che impressiona per lo stesso identico grado di ferocia riservato ai primi e agli ultimi. Le memorie di Brusca sono anche un caso eccezionale di recupero dei ricordi per uno che ha ammesso di non tenere a mente neanche quanti omicidi ha commesso (“molti più di cento, sicuro meno di duecento”, ha testimoniato). E, badate bene, qui non si discetta di opportunità o di rispetto per le vittime: quelli sono argomenti che stanno alla base e che, come da copione, vengono tenuti in soffitta e rispolverati a ogni tot di commemorazioni. Il tema è un altro. E lo pongo come domanda che non ha una risposta precisa: il liberarsi nel ricordo è un succedaneo dell’espiazione?

La forma routinaria degli omicidi commessi da Giovanni Brusca ha reso un inferno persino la memoria di quelle vite bruciate come erba secca. Ed è comprensibile come i sopravvissuti abbiano esercitato, spesso controcorrente ma in modo nonviolento, il diritto di non perdono. Oggi il rischio è che, anche involontariamente, gli incubi del carnefice si diluiscano in sogni di remissione, mentre quelli della vittima sono solo fumo disperso nel cielo. Ed è questa l’aria che respiriamo.

Perché quello a Salvini non è affatto un processo politico

Nel suo video a metà tra il Sorrentinesco e il ridicolo, Matteo Salvini dice che lo vogliono arrestare per aver fatto il suo dovere (costituzionale) cioè per aver difeso i confini nazionali. Eppure già nel 2019 lui stesso aveva sfidato la giustizia italiana dicendo “processatemi pure tanto io non cambio idea”. Ma questo è solo il riflesso dialettico della bizzarra coerenza del leader della Lega che lancia la pietra e nasconde la mano.
Il caso – qui un link utile – è quello della nave della ONG spagnola Open Arms alla quale nell’agosto del 2019 fu negato di far sbarcare nel porto di Lampedusa 147 profughi soccorsi in mare.
Senza impelagarci in disquisizioni giuridiche, senza spaccare in due il pelo della politica si capisce a distanza di un miglio marino che in questa vicenda non c’entrano nulla l’intrusione della magistratura nella politica, il complotto delle toghe rosse per rovesciare un governo di destra, l’invenzione di un crimine ad hoc per incastrare un ministro che ha fatto solo il suo dovere (e qui la presidente Meloni o è in malafede o è malconsigliata).
In realtà i magistrati palermitani stanno evidenziando come un ministro ha calpestato il diritto internazionale per far fede a una propaganda non soltanto sua ma di un intero Governo, il governo Conte con i fantastici Cinque stelle che per un certo periodo avallarono quelle scelte.

E qui va aperta una parentesi in cui la politica, sì, c’entra.

Il processo di Palermo si celebra perché nel 2020 il Senato ha concesso l’autorizzazione a procedere ribaltando la decisione dell’apposita Giunta: finì 149 a 141, con il voto favorevole e decisivo dei Cinque Stelle. Che invece pochi mesi prima, nel marzo 2019, quando ancora governavano con la Lega, avevano espresso un giudizio diametralmente opposto (Salvini non è l’unico campione di bizzarra coerenza) schierandosi contro il processo all’allora ministro dell’Interno. Eppure l’accusa era identica, sequestro di persona per aver trattenuto 150 migranti a bordo della nave italiana Diciotti, e per il quale un altro tribunale per i reati ministeriali aveva chiesto l’autorizzazione.
“In quell’occasione – ricorda oggi Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera  – i grillini affidarono la decisione al voto degli iscritti alla loro piattaforma telematica, ponendo un quesito che nei tribunali si chiamerebbe ‘domanda suggestiva’, perché implicitamente suggeriva la risposta: ‘Il ritardo dello sbarco della nave Diciotti, per redistribuire i migranti nei vari Paesi europei, è avvenuto per la tutela di un interesse dello Stato?’. Il 60 per cento disse sì, seguendo le indicazioni della classe dirigente del Movimento, e il processo fu negato”. Bastò meno di un anno e quando il sodalizio di governo Lega – Cinque Stelle fini a tarallucci e vino, i grillini ci misero poco a voltare le spalle al loro ex alleato e lo mandarono a processo a Palermo.
Va detto che quello era il periodo d’oro di Salvini, quello in cui apriva e chiudeva i porti con un tweet e si rivolgeva ai poveri migranti scrivendo frasi tipo “la pacchia è finita” (qui il pezzo che scrissi per il Foglio su “La nuova malvagità democratica”). Il suo modello vincente è rimasto sempre lo stesso, quello di un ministro che sorride nella raffica di selfie e spara battute come un liceale in gita d’istruzione sfuggito al controllo dei professori.
Va anche detto – perché la memoria purtroppo non è come la lingua che batte sul dente che duole ma se ne fotte – che era anche l’epoca del vergognoso pacchetto sicurezza secondo il quale trenta morti di fame, al gelo di una deriva in pieno Mediterraneo invernale e incazzato, costituivano una minaccia per la sicurezza nazionale.
E come se non bastasse va altresì detto che il primo a opporsi a quel decreto ingiusto e oltraggioso fu l’ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando con una decisione di grande civiltà (e di grande spessore politico) che resta nella mia memoria e spero in quella di altri.

Tornando a oggi, e alla luce di tutto ciò, si impone una domanda: quale e dove sarebbe l’ideologizzazione in una magistratura che vuole punire un ministro che sapeva di violare i trattati internazionali con un atto di becera presunzione politica? Salvini voleva far sazia la pancia di quel paese che lo aveva votato, una pancia che se ne infischiava dello Stato di diritto e che voleva ributtare gli immigrati a mare, in barba a ogni legge di ogni paese civile. È stato Salvini a portarsi davanti ai giudici in quell’agosto 2019, consapevole di fare un atto contro il diritto internazionale, un atto di propaganda personale. Ora grida alla costruzione di un complotto, ma i mattoni li ha impilati lui.
La richiesta di condanna a sei anni della Procura di Palermo è un atto conseguente a una detestabile provocazione fatta sulla pelle dei deboli, dei disperati e dei volontari che cercano di salvare vite. Salvini se l’è cercata, irresponsabilmente come è suo costume. Ed è giusto che paghi.

L’immagine di questo post è generata con intelligenza artificiale.

Il sigaro di Bill e la cenere di Sangiuliano

Quando la scorsa settimana l’ex ministro Gennaro Sangiuliano ha cercato di mettere una pezza al disastro combinato con la presunta consulente Maria Rosaria Boccia rilasciando una lunga (c’è chi dice troppo) intervista al Tg1, sono bastati un paio di post su Instagram per annientarlo politicamente e umiliarlo umanamente. Di fatto c’erano un ministro e la cosiddetta rete ammiraglia della televisione pubblica da un lato (senza tener conto del prime time e dell’intervistatore, il direttore del Tg1) e una privata cittadina col suo account di un social network dall’altro. È noto a tutti chi ha vinto il braccio di ferro, ma è noto non a tutti da dove proviene la forza dei nuovi media, il loro carico di rischio, gli equivoci che si ingenerano quando li si invoca come simbolo di libertà.

È una storia che parte da lontano, infatti questo articolo fa parte della categoria long form, quindi mettetevi comodi e se possibile dedicatevi anche ai link (tanto è gratis).

La sera del 17 gennaio 1998 su un sito americano di news e gossip, il “Drudge Report” di Matt Drudge, viene pubblicata una soffiata: “Il ‘Newsweek’ ha bloccato una storia destinata a scuotere Washington dalle fondamenta: una stagista della Casa Bianca ha avuto una relazione sessuale con il presidente degli Stati Uniti!”. Il sito si riferisce a un articolo del giornalista Michael Isikoff, non pubblicato in attesa di ulteriori verifiche. Ma il web in quel momento è davvero un’altra cosa e se ne frega di ogni controllo (molto più di oggi). È l’inizio del famoso scandalo Clinton-Lewinsky. Qualcuno tra i commentatori del tempo storce il muso e saluta la nuova era con diffidenza: così si abbassano gli standard del giornalismo, è l’accusa (piuttosto fondata). Eppure i giornali, assorbito il colpo, si fiondano sulla notizia che entra nelle case di tutti i lettori del mondo non più solo attraverso la porta principale dei media tradizionali (quotidiani, radio e tv), ma anche da quella dei computer con connessioni traballanti, modem a carbone e immagini sgranate. La vera svolta, fondamentale per la nostra storia, arriva qualche mese dopo, l’11 settembre del 1998 quando il Congresso americano pubblica per la prima volta sul web il report redatto dal grande accusatore di Bill Clinton, il procuratore Kenneth Starr. Ricordo quella sera al Giornale di Sicilia, davanti al mio computer con una connessione quasi clandestina. Era – va detto –  il giornale in cui il caporedattore centrale proprio in quei giorni aveva pronunciato una frase ormai famosa: “Propongo di non scrivere la parola internet sui giornali perché è una cosa che tra qualche mese finisce”. Quella sera tutti si riunirono attorno alla mia postazione per ammirare la magia di una notizia – e che notizia – che arrivava nientemeno che dal web, cioè da un non luogo di perditempo e segaioli (così eravamo considerati noi testardi che ci ostinavamo a vedere in internet una risorsa inaudita). E lì accaddero due prodigi.
Il primo fu la materializzazione del report in tempo reale sul monitor, proprio qualche secondo dopo il suo rilascio.
Il secondo, ancora più incredibile, fu quando attivai la funzione “cerca” nel documento e digitai le due parole chiave che tutto il mondo in quel momento sussurava: “cigar” cioè sigaro e “blowjob” cioè pompino (se lo fate anche voi ora, vi rendete conto del perché). La storia si svelò subito, senza inutili perdite di tempo nel vagare tra pagine e pagine, nei suoi aspetti più grottescamente piccanti e politicamente detonanti.

Il caso Clinton Lewinsky – e non lo scandalo di Berlusconi con le sue “cene eleganti” – è il riferimento ideale per cercare di capire il rapporto tra cronaca e nuovi media. E di conseguenza tra cronaca e social network.
Il problema dei problemi è oggi quello legato alla libertà di espressione che è una questione di valutazioni, di norme sociali e di equilibri legali. “La libertà di espressione non è un diritto assoluto – scrive Alan Rusbridger, ex direttore del Guardian – se non nella mente di libertari come Elon Musk. Perfino lui dev’essere consapevole del fatto che è meglio non urlare “Al fuoco!” dentro un cinema. Eppure, durante le violenze seguite ai fatti di Southport, quando ad agosto in tutto il Regno Unito sono scoppiate proteste contro l’immigrazione organizzate da gruppi di estrema destra, non ha fatto altro che gettare benzina sul fuoco con le sue dichiarazioni. Musk è convinto che la libertà d’espressione coincida con la verità, come se conoscesse il Saggio sulla libertà del 1859 di John Stuart Mill, in cui il filosofo scriveva: ‘Le opinioni e le pratiche erronee cedono gradualmente ai fatti e agli argomenti’.”

Ecco il punto: il più grande errore che, rispetto ai social, si possa commettere è confondere la libertà di parola con la verità rivelata. Come se tutto ciò che si dice, e si scrive, fosse lo specchio del vero.
Le statistiche ci dicono che in Italia, ogni cento persone il 2,22 per cento fa o aspira a fare l’influencer. Un utente medio di X ha settecento follower. Elon Musk ne ha 196 milioni, quindi la sua voce è 280mila volte più potente. “L’imprenditore però – continua Rusbridger –  ha insistito perché la sua piattaforma fosse riprogettata per amplificare le sue opinioni. Ora esercita un dominio intergalattico sul dibattito pubblico. Nel momento in cui twitta informazioni false mentre delle bande si aggirano per le strade cercando di dare fuoco agli alberghi che ospitano i richiedenti asilo, si comporta come Donald Trump quando ha alimentato l’insurrezione del 6 gennaio 2021”.  
È chiara – anche senza Musk – la pericolosità della presunta “parola libera” non solo a seconda di chi la pronuncia, ma anche a seconda dell’ambito in cui si propaga.

E siamo di nuovo al caso Sangiuliano-Boccia. Di cui Michele Serra, nella newsletter del Post Ok Boomer, ha stigmatizzato “la sua decrepitezza, la sua scontatezza. Miliardesimo remake di un film vecchio almeno tre o quattromila anni. Il maschio di potere che usa il suo ruolo per sedurre (o illudersi di sedurre) la dama ambiziosa che lo corrisponde per farsi strada in società. Non stiamo parlando di Luigi XV e della du Barry, non stiamo parlando di Versailles ma della provincia campana e della sua piccola borghesia, tutto è in scala minima, le grandi cortigiane erano colte e ingegnose, usavano l’eros come chiave per schiudere le porte del Palazzo ma una volta dentro sapevano essere artefici, o tra gli artefici, della politica e della cultura. Se du Barry avesse avuto un account Instagram, sarebbe stato in tre lingue, raffinatissimo, e fotoscioppato (ante litteram) dai più prestigiosi truccatori, parrucchieri, sarti, decoratori e tappezzieri di Francia”.
Qui, al di là del distacco morale giustamente ostentato da Serra, va sottolineata la forza di impatto dei social sui media tradizionali. Non conta l’attendibilità della notizia, quanto la sua istantaneità, la falsa unicità del rapporto autore-utente. Boccia scrive in diretta su Instagram, di notte, a ciascuno di noi. Non è filtrata da una telecamera, non è introdotta da un mezzobusto, non deve convincerci. Digita ergo c’è, sul pezzo, con la sua verità che non viene messa in dubbio per un semplice motivo: non interessa. Importa solo che lei ci sia, reale eppure impalpabile, che dia il suo contributo alla Grande Illusione che ci fa credere di essere tutti Davide contro Golia, uno smartphone come una spada, un’ideuzza come un proclama.

Ecco, nella scomparsa dei fatti, lungo le finte praterie dei social galoppano bufale senza padrone: conta l’effetto non l’attendibilità. È un fenomeno di cui abbiamo parlato più volte, qui e altrove, in cui l’antica credulità popolare si è fatta mainstream, in cui l’odio non è più solo un sentimento ma un condimento con cui insaporire il piatto scialbo di una realtà che cambia a nostro piacimento. E che se fosse soltanto virtuale almeno si potrebbe spegnere con un clic.

L’immagine di questo post è generata con intelligenza artificiale.

(Anti)Mafia, il coraggio che manca

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Per descrivere le cose di mafia trafughiamo e/o ricicliamo idee dei Grandi pur di mascherare la nostra indolenza. Lo facciamo usando spesso a sproposito un profluvio di aggettivi che accorciano i ragionamenti, vestendoli sgraziatamente: sciasciano per indicare posizioni e visioni asimmetriche rispetto al pensiero dominante; pirandelliano per accennare all’impossibilità di distinguere tra realtà, finzione e apparenza; gattopardiano per dire dell’adattabilità rispetto ai cambiamenti con l’obiettivo di mantenere intonsi i privilegi acquisiti. Mai che ci scappi il gesto barbaro di un’invenzione, di una lettura non viziata da quella che oggi possiamo definire come un’epidemia di distrazione sociale.
E poi, a guardare le nuove inchieste che attingono a piene mani dal passato del cosiddetto dossier “mafia e appalti”, c’è un vizio che intorbida le nostre sensazioni: il recentismo, cioè l’accumularsi di nuove informazioni che non valutano la prospettiva storica. Attenzione, non parlo della legittimità delle indagini ma dell’effetto che esse hanno sulla memoria collettiva giacché il recentismo in quest’ambito è lo strangolatore di essa.

Il dossier “mafia e appalti” è un evergreen in tal senso. È bene ricordare di cosa parliamo: un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Appare e scompare ogni tot di anni e si porta appresso una sorta di maledizione. Indentificato come una delle cause della vertiginosa accelerazione degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, rappresenta un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per stilare o per correggere, per indagare o per nascondere. A cominciare dai carabinieri che lo scrissero, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per via di una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente al termine di un lungo calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con i magistrati Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone indagati dalla Procura di Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Indagini complicate, com’è complicato mettere le mani in un vaso di Pandora in cui si mescolano soldi, sangue e patti inconfessabili, ma afflitte nel sentire comune dal recentismo che, per dire, non tiene conto di cosa significava fare il poliziotto nelle contrade percorse da proiettili vaganti, di quanto pesavano la politica delle promesse e l’antimafia delle carriere. Soprattutto non tiene conto di cos’era quel palazzo di giustizia di Palermo con tutta un’allegoria di animali: corvi, talpe, colombe, falchi, serpi, coccodrilli (molte le lacrime). Un’Arca di Noè dove però alla fine non si salvò nessuno.

Ecco, quando siamo tentati di abbozzare giudizi a proposito del passato sull’onda di un’ urgenza del presente (un’inchiesta riesumata o una qualunque interessantissima scoperta di archeologia giudiziaria) sarebbe cosa buona e giusta arginare il recentismo. E contestualizzare.

Per dire, allora c’era la “società civile” coi suoi lenzuoli candidi, con le sue mobilitazioni spontanee che non hanno mai conosciuto la droga dei social, col suo essere ago preciso di bilance perlopiù altrui. Oggi non c’è più e nessuno l’ha uccisa, nessuno l’ha rapita. Si è estinta a causa di quel cataclisma sociale che ci ha portato a essere tutti (forzatamente) presenti pur non essendoci: partecipanti in contumacia, movimentisti da polpastrello. Anche l’humus sul quale era nata e cresciuta è cambiato. L’urgenza drammatica dell’aggressione mafiosa ha lasciato spazio ad altre urgenze: dai rifiuti dietro la porta all’odio dietro lo schermo. Le emergenze fanno il loro lavoro che è quello di sommare problemi a problemi senza sommergerli, e in tal modo ci ingannano: in fondo non cambia nulla a eccezione del nostro modo di reagire. La mafia non è mai finita, ma non è più tra i trend topic, anzi non lo è mai stata diciamo per mission aziendale. Come in ogni estinzione che si rispetti la specie scomparsa farà sentire la sua assenza dopo molto tempo. Per capire com’è andata col dinosauro della società civile e con gli altri fossili di mafia più o meno incravattata, bisognerà scavare ancora. Magari trovando il coraggio di farlo in terreni miracolosamente intonsi tipo quello del depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio, unico caso al mondo in cui tutti i magistrati che portarono a decenni di deragliamenti giudiziari non sono mai stati puniti. E lì non c’è recentismo che tenga. Eterno è il peso di dolore sociale di uno sfacelo senza responsabili.

Perché è lì

Si narra che alla domanda “perché scalare l’Everest?”, il grande alpinista George Mallory, precursore delle spedizioni oltre gli ottomila, abbia risposto: “Perché è lì”.
Oggettivando l’essenza dell’avventura, togliendo se stesso dal palcoscenico, Mallory spiegò in tre parole il senso di una missione. Non disse “perché ci sono io”, né “perché è il mio sogno”. No, diede la responsabilità e il merito alla montagna.
Una bella lezione anche fuori dall’ambito dell’avventura geografica, dalla scommessa umana. Nei miei viaggi ho imparato a imparare come non assorbire pregi che non sono nostri, come restare sempre altro rispetto a quello che mi circondava: il migliore punto di vista sulle cose non è appropriarsene, ma girarci attorno, osservarle, studiarle e lasciarle lì dove sono.
La nostra abitudine social a entrare nel panorama dice molto di noi stessi, della insopportabile superficialità con la quale pretendiamo di farci monumento, di raccontarci con l’arte altrui, di strappare la bellezza dal quadro per farne un gadget da salotto.

Ogni volta che rientro da un viaggio faticoso, tipo un cammino in cui non mi sono fermato per trenta giorni, devo fare i conti con una cosa che gli sportivi conoscono bene: la crisi delle endorfine. Insomma mi sento svuotato, ho più sonno del solito, mi annoio esageratamente, mi prende un senso di inutilità come se senza la razione di chilometri quotidiani il mio corpo occupasse abusivamente uno spazio immobile. È il momento in cui cerco di stilare più progetti perché so che qualcuno lo perderò per strada per inerzia o addirittura per capriccio (c’è un sottile autocompiacimento nel concedersi un piano che non pretende la sicura attuazione e al contempo strizza l’occhio a una lenta dissoluzione). Ed è il momento in cui ripasso le storie dei grandi esploratori, alpinisti, viaggiatori estremi e immagino come si sono sentiti quando, dopo le loro incredibili avventure, magari sopravvissuti per un soffio (non è il caso di Mallory), hanno dovuto fare i conti con i loro spettri: il rientro a casa, l’obbedienza all’ordinarietà, l’impossibilità di trovare un nuovo palcoscenico da cui scansarsi pur facendone parte.
E li immagino ripetersi domanda e risposta.
Perché hai fatto quella cosa così difficile?
Perché era lì.

Finire ovvero ricominciare

Dalle parti di Santiago.

Eccomi alla fine. Anzi rieccomi in un’altra fine. Perché di finali come questi ne ho vissuti un bel po’ negli ultimi anni. L’arrivo di un Cammino è l’esatto contrario della fine di un viaggio: non fai consuntivi, ma al contrario guardi (ancora) avanti perché non sei andato a cercare qualcosa ma, almeno nel mio caso, qualcosa ti ha raggiunto. Il percorso che farai adesso sarà di certo diverso, nuovo rispetto a quello fatto finora.

Un Cammino cambia. Cambia tutti, persino quelli più refrattari ai cambiamenti o quelli scafati, e parlo per cognizione di causa. Per questo l’arrivo è una partenza: c’è sempre una fulminazione che ti ha preso strada facendo e che, insinuandosi nelle pieghe della tua inerzia di uomo abitudinario, darà i suoi frutti mesi, anni dopo. 
So della vita poco, perlopiù recensisco quello che mi gira intorno, e manco troppo perché spesso mi rompo i coglioni e giro i tacchi (l’ho fatto con giornali, cristiani, istituzioni, compagnie sentimentali, finti amici eccetera).  
Eppure ogni volta che ho finito un Cammino ho combinato qualcosa di utile per me stesso. In fondo siamo fatti di un 90 per cento di decisioni non prese, quindi basta prenderne un paio in più per poter dichiarare a se stessi di essersi dati una mossa. 

Un pensiero ricorrente che dà frutti inaspettati, passo dopo passo, è quello che investe il rapporto con gli altri, nelle sue infinite declinazioni: è innegabile che un Cammino rappresenti uno stress-test in tal senso. L’idea consolidata è che non ci aspetta nessuno (per le implicazioni e le eccezioni vi rimando a questo post di qualche anno fa). Il che non significa affatto che la solitudine sia la panacea: io odio la solitudine perché è uno stato d’animo che induce depressione, isolamento, masochismo. Al contrario – ma non è tema nuovo per chi segue queste pagine – il muoversi da solisti spinge a guardare l’altro, a dargli l’attenzione che merita, a coltivare con passione la positività che è pianta siccagna, e che vive con pochissima acqua fuori dalle staccionate del Mulino Bianco. 
Credo che imparare a stare da soli sia qualcosa di molto simile a fare un corso di primo soccorso, solo che il paziente siamo noi. Che poi diciamolo stare da soli è un eccitante trampolino verso la socialità di ritorno, anzi del ritorno. Solo prendendo una rincorsa si salta più lontano: il mio settembre è generalmente il mese più sociale dell’anno ;) 

Tutto questo per dirvi che in questo Cammino Francese è andata bene nonostante i mesi precedenti siano stati bruttini (e bruttini è un eufemismo, come i miei amici più cari sanno bene). Sono ideologicamente contrario ai panni sporchi lavati malamente in pubblico quindi su questo argomento metto un punto e a capo. Come si fa in un Cammino, punto e a capo. Ci vuole sempre tempo per ricominciare, e ricominciare è il principio dell’arte e della natura. La prima dipende da noi, l’altra dal nostro Principale.
Ecco, un Cammino serve a rendere compatibili queste visioni, ci aiuta a esplorare la lunga ferita della nostra felicità –  una felicità che non ha sanguinato è un imbroglio – ci fa ridere davanti al nulla e commuovere persino davanti al qualunque. E ci induce a godere di tutto ciò che, immenso, ci sta nel mezzo. 

Grazie di avermi letto.

21 – fine

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il limite

Da Portomarin a Melide.

Sono arrivato quasi alla fine, al ventottesimo giorno di scarpinata ininterrotta: nella tappa di oggi ne ho concentrate due, per un totale di quasi di 40 chilometri, in modo da contenere in 30 giorni totali questo Cammino Francese. Del resto la fatica ha smesso di essere un tema di riflessione già da tempo essendo ineludibile e soprattutto non imprevista. C’è, sta lì, ce l’hai messa tu e ha un compito cruciale, quello di darti quella minima sofferenza che serve a darti vigore. Come gli evoluzionisti sanno bene, la felicità infiacchisce. Ogni progresso, ogni cambiamento ha sempre una parentela di primo grado con una crisi, con uno sforzo, con una delusione, con un fallimento (parlo di evoluzione in larga scala, non di vacanze ordinarie eh). Però un Cammino è comunque una preziosa occasione per fare i conti, controllare le cifre sul taccuino e magari correggere qualcosa.    

La fatica non è affatto gioia, piuttosto è un enzima che catalizza reazioni che magari sarebbero avvenute anche senza aiutino, ma chissà quando. Ci mostra non eroici – a meno che non siamo recordman olimpici – ma perfettamente imperfetti, allineati una volta tanto con la nostra preziosa e trascurata modestia. La fatica evidenzia i nostri difetti, rimarca l’età, apparecchia con cura la tavola di fastidi e doloretti. Ma al contempo ci consegna a una legge di natura: ogni nostro progresso proviene da una imperfezione. Senza l’ostacolo non salti. Senza la salita non avrai mai confidenza con alcuni muscoli. Senza il sudore non conoscerai il tuo odore.

Infine il tema più mistificato o equivocato. Molti credono che chi scala le montagne, chi corre le maratone, chi cammina per mille chilometri sotto il sole o sui ghiacci, lo faccia per tentare di superare un limite. È una lettura sbrigativa, superficiale e di conseguenza errata. Far pace con i propri limiti significa al contrario accettarli. Significa capire, anzi provare sulla propria pelle che il confronto col nostro senso del limite è l’unico modo che abbiamo per vivere civilmente, senza invadere l’altro, senza discriminarlo. 
Ricordiamocelo. Ogni forma di prevaricazione nasce dall’inadeguatezza di fronte a un limite nostro e soltanto nostro. 

20 – continua 

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Adoranti e rotolanti

Da Barbadelo a Portomarìn.

La cosa più difficile da spiegare è quella che non conosci o al contrario che pochi conoscono come te. Tolta di mezzo la prima opzione – generalmente non solo non parlo di ciò di cui non so, ma detesto violentemente chi lo fa – la seconda va affrontata con cautela. 
Ho più volte blaterato su come i miei Cammini siano combacianti con un (non monastico) stile solistico: cioè mi piace stare da solo fin quando l’altro posso contingentarlo come dico io (e siamo in pieno onanismo relazionale ma ognuno ha i suoi pregi). È un contratto che ho firmato con me stesso e per onorare il quale ho fatto un mutuo a vita, tipo polizza no-scassaminchia Unipol. 
Insomma adoro questo mese in cui tutto il mondo cerca il caos organizzato, onora il circolo esclusivo cenando con chi non vorrebbe accanto manco al semaforo e finge il divertimento assoluto nella più relativa delle alcove turistiche dove in una visione di 360 gradi 300 sono panorami di scontrini non fiscali, e io sono altrove.
Un altrove che alcuni di voi conoscono in prima persona, perché molti lettori di questo blog sono più assatanati di me. 
Però siccome il paradiso in terra non esiste, almeno fin quando l’unica posizione orizzontale di cui sappiamo dire è quella in cui scandiamo il nostro respiro, c’è un angolo in cui siamo costretti a svoltare.

E lì capita che becchi l’altro che non volevi incontrare in quel frangente. E dici: minchia!
Lo ribadisco e lo scolpisco nella pietra del web tipo codice di Hammurabi: gli ultimi cento chilometri del Cammino sono il ricovero di tutta quella fauna pellegrina che vorrei evitare come l’herpes. 

Oggi ho (ri)preso confidenza con torme tatuate e smartphonanti che intasano sentieri, mangiano e bevono a ogni bar come se non ce ne fosse uno cento passi più avanti, blaterano ad alta voce, cantano stonati e soprattutto si esibiscono nel loro numero peggiore, quello dell’elastico. Camminano veloce fino quando possono, sono freschi e con bagaglio leggero quasi inesistente, ti superano. Poi li blocca una crisi cardiaca e si fermano: sbafano. Li superi col tuo passo timido e costante e con quel cazzo di zaino che ti abbraccia tipo amante fatale da 700 chilometri mentre loro sulle spalle hanno la felpina arrotolata. Ingurgitano e riprendono a correre a scatta-cuore e ti superano ancora fino a stramazzare al suolo, poi c’è l’albergue seguente. E tu vai. E loro si inchiummano. E loro ripartono. E tu cammini. E loro si ripropongonio ingiustificati come la Tari o crudeli come la peperonata di Pasquetta. E tu li sopporti mentre passano coi cellulari a musica sguainata (gli auricolari sono un’invenzione barbara per questi Unni undercover che governeranno il mondo). Così per chilometri. Ormai lo so, è il dazio da pagare per i giorni di inusitata e solitaria felicità: questi ultimi chilometri sono una terra che confonde camminanti con blateranti, adoranti con rotolanti.
Ma come dicevo all’inizio è difficile da spiegare per quei due motivi lì.

19 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.