Dalle parti di Santiago.
Eccomi alla fine. Anzi rieccomi in un’altra fine. Perché di finali come questi ne ho vissuti un bel po’ negli ultimi anni. L’arrivo di un Cammino è l’esatto contrario della fine di un viaggio: non fai consuntivi, ma al contrario guardi (ancora) avanti perché non sei andato a cercare qualcosa ma, almeno nel mio caso, qualcosa ti ha raggiunto. Il percorso che farai adesso sarà di certo diverso, nuovo rispetto a quello fatto finora.
Un Cammino cambia. Cambia tutti, persino quelli più refrattari ai cambiamenti o quelli scafati, e parlo per cognizione di causa. Per questo l’arrivo è una partenza: c’è sempre una fulminazione che ti ha preso strada facendo e che, insinuandosi nelle pieghe della tua inerzia di uomo abitudinario, darà i suoi frutti mesi, anni dopo.
So della vita poco, perlopiù recensisco quello che mi gira intorno, e manco troppo perché spesso mi rompo i coglioni e giro i tacchi (l’ho fatto con giornali, cristiani, istituzioni, compagnie sentimentali, finti amici eccetera).
Eppure ogni volta che ho finito un Cammino ho combinato qualcosa di utile per me stesso. In fondo siamo fatti di un 90 per cento di decisioni non prese, quindi basta prenderne un paio in più per poter dichiarare a se stessi di essersi dati una mossa.
Un pensiero ricorrente che dà frutti inaspettati, passo dopo passo, è quello che investe il rapporto con gli altri, nelle sue infinite declinazioni: è innegabile che un Cammino rappresenti uno stress-test in tal senso. L’idea consolidata è che non ci aspetta nessuno (per le implicazioni e le eccezioni vi rimando a questo post di qualche anno fa). Il che non significa affatto che la solitudine sia la panacea: io odio la solitudine perché è uno stato d’animo che induce depressione, isolamento, masochismo. Al contrario – ma non è tema nuovo per chi segue queste pagine – il muoversi da solisti spinge a guardare l’altro, a dargli l’attenzione che merita, a coltivare con passione la positività che è pianta siccagna, e che vive con pochissima acqua fuori dalle staccionate del Mulino Bianco.
Credo che imparare a stare da soli sia qualcosa di molto simile a fare un corso di primo soccorso, solo che il paziente siamo noi. Che poi diciamolo stare da soli è un eccitante trampolino verso la socialità di ritorno, anzi del ritorno. Solo prendendo una rincorsa si salta più lontano: il mio settembre è generalmente il mese più sociale dell’anno ;)
Tutto questo per dirvi che in questo Cammino Francese è andata bene nonostante i mesi precedenti siano stati bruttini (e bruttini è un eufemismo, come i miei amici più cari sanno bene). Sono ideologicamente contrario ai panni sporchi lavati malamente in pubblico quindi su questo argomento metto un punto e a capo. Come si fa in un Cammino, punto e a capo. Ci vuole sempre tempo per ricominciare, e ricominciare è il principio dell’arte e della natura. La prima dipende da noi, l’altra dal nostro Principale.
Ecco, un Cammino serve a rendere compatibili queste visioni, ci aiuta a esplorare la lunga ferita della nostra felicità – una felicità che non ha sanguinato è un imbroglio – ci fa ridere davanti al nulla e commuovere persino davanti al qualunque. E ci induce a godere di tutto ciò che, immenso, ci sta nel mezzo.
Grazie di avermi letto.
21 – fine
A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.