Finire ovvero ricominciare

Dalle parti di Santiago.

Eccomi alla fine. Anzi rieccomi in un’altra fine. Perché di finali come questi ne ho vissuti un bel po’ negli ultimi anni. L’arrivo di un Cammino è l’esatto contrario della fine di un viaggio: non fai consuntivi, ma al contrario guardi (ancora) avanti perché non sei andato a cercare qualcosa ma, almeno nel mio caso, qualcosa ti ha raggiunto. Il percorso che farai adesso sarà di certo diverso, nuovo rispetto a quello fatto finora.

Un Cammino cambia. Cambia tutti, persino quelli più refrattari ai cambiamenti o quelli scafati, e parlo per cognizione di causa. Per questo l’arrivo è una partenza: c’è sempre una fulminazione che ti ha preso strada facendo e che, insinuandosi nelle pieghe della tua inerzia di uomo abitudinario, darà i suoi frutti mesi, anni dopo. 
So della vita poco, perlopiù recensisco quello che mi gira intorno, e manco troppo perché spesso mi rompo i coglioni e giro i tacchi (l’ho fatto con giornali, cristiani, istituzioni, compagnie sentimentali, finti amici eccetera).  
Eppure ogni volta che ho finito un Cammino ho combinato qualcosa di utile per me stesso. In fondo siamo fatti di un 90 per cento di decisioni non prese, quindi basta prenderne un paio in più per poter dichiarare a se stessi di essersi dati una mossa. 

Un pensiero ricorrente che dà frutti inaspettati, passo dopo passo, è quello che investe il rapporto con gli altri, nelle sue infinite declinazioni: è innegabile che un Cammino rappresenti uno stress-test in tal senso. L’idea consolidata è che non ci aspetta nessuno (per le implicazioni e le eccezioni vi rimando a questo post di qualche anno fa). Il che non significa affatto che la solitudine sia la panacea: io odio la solitudine perché è uno stato d’animo che induce depressione, isolamento, masochismo. Al contrario – ma non è tema nuovo per chi segue queste pagine – il muoversi da solisti spinge a guardare l’altro, a dargli l’attenzione che merita, a coltivare con passione la positività che è pianta siccagna, e che vive con pochissima acqua fuori dalle staccionate del Mulino Bianco. 
Credo che imparare a stare da soli sia qualcosa di molto simile a fare un corso di primo soccorso, solo che il paziente siamo noi. Che poi diciamolo stare da soli è un eccitante trampolino verso la socialità di ritorno, anzi del ritorno. Solo prendendo una rincorsa si salta più lontano: il mio settembre è generalmente il mese più sociale dell’anno ;) 

Tutto questo per dirvi che in questo Cammino Francese è andata bene nonostante i mesi precedenti siano stati bruttini (e bruttini è un eufemismo, come i miei amici più cari sanno bene). Sono ideologicamente contrario ai panni sporchi lavati malamente in pubblico quindi su questo argomento metto un punto e a capo. Come si fa in un Cammino, punto e a capo. Ci vuole sempre tempo per ricominciare, e ricominciare è il principio dell’arte e della natura. La prima dipende da noi, l’altra dal nostro Principale.
Ecco, un Cammino serve a rendere compatibili queste visioni, ci aiuta a esplorare la lunga ferita della nostra felicità –  una felicità che non ha sanguinato è un imbroglio – ci fa ridere davanti al nulla e commuovere persino davanti al qualunque. E ci induce a godere di tutto ciò che, immenso, ci sta nel mezzo. 

Grazie di avermi letto.

21 – fine

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il limite

Da Portomarin a Melide.

Sono arrivato quasi alla fine, al ventottesimo giorno di scarpinata ininterrotta: nella tappa di oggi ne ho concentrate due, per un totale di quasi di 40 chilometri, in modo da contenere in 30 giorni totali questo Cammino Francese. Del resto la fatica ha smesso di essere un tema di riflessione già da tempo essendo ineludibile e soprattutto non imprevista. C’è, sta lì, ce l’hai messa tu e ha un compito cruciale, quello di darti quella minima sofferenza che serve a darti vigore. Come gli evoluzionisti sanno bene, la felicità infiacchisce. Ogni progresso, ogni cambiamento ha sempre una parentela di primo grado con una crisi, con uno sforzo, con una delusione, con un fallimento (parlo di evoluzione in larga scala, non di vacanze ordinarie eh). Però un Cammino è comunque una preziosa occasione per fare i conti, controllare le cifre sul taccuino e magari correggere qualcosa.    

La fatica non è affatto gioia, piuttosto è un enzima che catalizza reazioni che magari sarebbero avvenute anche senza aiutino, ma chissà quando. Ci mostra non eroici – a meno che non siamo recordman olimpici – ma perfettamente imperfetti, allineati una volta tanto con la nostra preziosa e trascurata modestia. La fatica evidenzia i nostri difetti, rimarca l’età, apparecchia con cura la tavola di fastidi e doloretti. Ma al contempo ci consegna a una legge di natura: ogni nostro progresso proviene da una imperfezione. Senza l’ostacolo non salti. Senza la salita non avrai mai confidenza con alcuni muscoli. Senza il sudore non conoscerai il tuo odore.

Infine il tema più mistificato o equivocato. Molti credono che chi scala le montagne, chi corre le maratone, chi cammina per mille chilometri sotto il sole o sui ghiacci, lo faccia per tentare di superare un limite. È una lettura sbrigativa, superficiale e di conseguenza errata. Far pace con i propri limiti significa al contrario accettarli. Significa capire, anzi provare sulla propria pelle che il confronto col nostro senso del limite è l’unico modo che abbiamo per vivere civilmente, senza invadere l’altro, senza discriminarlo. 
Ricordiamocelo. Ogni forma di prevaricazione nasce dall’inadeguatezza di fronte a un limite nostro e soltanto nostro. 

20 – continua 

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Adoranti e rotolanti

Da Barbadelo a Portomarìn.

La cosa più difficile da spiegare è quella che non conosci o al contrario che pochi conoscono come te. Tolta di mezzo la prima opzione – generalmente non solo non parlo di ciò di cui non so, ma detesto violentemente chi lo fa – la seconda va affrontata con cautela. 
Ho più volte blaterato su come i miei Cammini siano combacianti con un (non monastico) stile solistico: cioè mi piace stare da solo fin quando l’altro posso contingentarlo come dico io (e siamo in pieno onanismo relazionale ma ognuno ha i suoi pregi). È un contratto che ho firmato con me stesso e per onorare il quale ho fatto un mutuo a vita, tipo polizza no-scassaminchia Unipol. 
Insomma adoro questo mese in cui tutto il mondo cerca il caos organizzato, onora il circolo esclusivo cenando con chi non vorrebbe accanto manco al semaforo e finge il divertimento assoluto nella più relativa delle alcove turistiche dove in una visione di 360 gradi 300 sono panorami di scontrini non fiscali, e io sono altrove.
Un altrove che alcuni di voi conoscono in prima persona, perché molti lettori di questo blog sono più assatanati di me. 
Però siccome il paradiso in terra non esiste, almeno fin quando l’unica posizione orizzontale di cui sappiamo dire è quella in cui scandiamo il nostro respiro, c’è un angolo in cui siamo costretti a svoltare.

E lì capita che becchi l’altro che non volevi incontrare in quel frangente. E dici: minchia!
Lo ribadisco e lo scolpisco nella pietra del web tipo codice di Hammurabi: gli ultimi cento chilometri del Cammino sono il ricovero di tutta quella fauna pellegrina che vorrei evitare come l’herpes. 

Oggi ho (ri)preso confidenza con torme tatuate e smartphonanti che intasano sentieri, mangiano e bevono a ogni bar come se non ce ne fosse uno cento passi più avanti, blaterano ad alta voce, cantano stonati e soprattutto si esibiscono nel loro numero peggiore, quello dell’elastico. Camminano veloce fino quando possono, sono freschi e con bagaglio leggero quasi inesistente, ti superano. Poi li blocca una crisi cardiaca e si fermano: sbafano. Li superi col tuo passo timido e costante e con quel cazzo di zaino che ti abbraccia tipo amante fatale da 700 chilometri mentre loro sulle spalle hanno la felpina arrotolata. Ingurgitano e riprendono a correre a scatta-cuore e ti superano ancora fino a stramazzare al suolo, poi c’è l’albergue seguente. E tu vai. E loro si inchiummano. E loro ripartono. E tu cammini. E loro si ripropongonio ingiustificati come la Tari o crudeli come la peperonata di Pasquetta. E tu li sopporti mentre passano coi cellulari a musica sguainata (gli auricolari sono un’invenzione barbara per questi Unni undercover che governeranno il mondo). Così per chilometri. Ormai lo so, è il dazio da pagare per i giorni di inusitata e solitaria felicità: questi ultimi chilometri sono una terra che confonde camminanti con blateranti, adoranti con rotolanti.
Ma come dicevo all’inizio è difficile da spiegare per quei due motivi lì.

19 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Partire è un po’ smarrire

Da O Cebreiro a Triacastela.
Da Triacastela a Barbadelo.

Nei momenti di spostamento la nostra vita si sostanzia di sparizioni. Quante cose avete perso durante un trasloco? Ho un piccolo record. Molti anni fa mi capito, durante uno dei soliti naufragi della vita, di fare tre traslochi nel giro di sette mesi. Ebbene ci furono un paio di pantaloni e un paio di scarpe che apparirono dal nulla al primo trasloco (le avevo date per disperse da tempo), scomparvero al secondo, e riapparvero al terzo, ma misteriosamente una scarpa non si trovò più. Erano nella stessa scatola: un po’ come il delitto della porta chiusa. 

Durante i viaggi ho perso di tutto, molto difficili le riapparizioni, non impossibili le reincarnazioni: ho un prezioso portachiavi che rappresenta tutti i lucchetti opposti all’invadenza di chi scambia un abbraccio per un passepartout e che reincarna chi non voglio mai più incrociare. Ma perdere una cosa non è come vederla scomparire. È peggio, perché manca la componente metafisica del dissolversi, quella specie di aura magica che ci illude di vivere in un’illusione in cui lo spazzolino che c’era e non c’è più non è una iattura ma un segno del destino (i denti, i denti cosa ci vorranno tramandare…), e ci si rassegna all’autoflagellazione della manata in fronte: e che cazzo!

Vi dissi della bandana dimenticata, non vi dirò del cappellino comprato in sostituzione e smarrito qualche albergue dopo. E qui serve approfondimento. Una cosa è dimenticare, smarrire. Un’altra è capire che hai dimenticato quando è troppo presto per rassegnarsi e troppo tardi per rimediare: un limbo in cui sei comunque sconfitto e per di più con la consapevolezza di essere uno che la sconfitta se l’è cercata. Se perdo una cosa voglio accorgermene in punto di morte, quando non ho cartucce da sparare, non quando posso ipoteticamente mettere mano a un rimedio seppur fantascientifico. Dimenticare può essere taumaturgico se non s’affaccia l’ometto che ti sussura “te l’avevo detto io”.
Come le storie d’amore alle quali chiediamo di eccitarci come un’anfetamina o di nascondere un dolore come un analgesico.
Partire è un po’ smarrire. Il viceversa, se ci pensate, sarebbe una fortuna.

18 – continua

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Doping

Da Ponferrada a Villafranca del Bierzo.
Da Villafranca del Bierzo a O Cebreiro.

Dalle pietraie delle mesetas al verde rigoglioso del Cebreiro, dalla Castiglia e dal Bierzo alla Galizia, questa parte del cammino mette a dura prova la forza di adattamento climatica, orografica, e soprattutto le gambe che, giunte al seicentotrentesimo chilometro, provano a protestare.
Per fortuna ci sono varie forme di doping, parliamo di quelle lecite, a venirti incontro. Una di queste è quella che chiamo “musica inusitata” cioè quella musica che calpesta ogni tuo gusto, ogni tua storia, ogni tua memoria eppure ti spinge. Vi faccio l’esempio di oggi, mentre ero alle prese con un dislivello in salita di 1.015 metri su una tappa di 28,2 chilometri: mica bambole spettinate. Il mio doping di oggi è stato questo (ascoltatelo se ne avete il coraggio). Una cosa che non c’entra nulla con la mia ostentata raffinatezza di gusti musicali, con quello che chiamiamo background (o forse freudianamente sì). Un’unica infilata di pattern sempre uguali dove il ritmo prevale su ogni significato o forse è esso stesso significato: chi l’ha detto che la mente non ami il junk food? E soprattutto che non le faccia bene ogni tanto? 

Oggi sono finito ad adagiare le mie membra in un agglomerato di case, tra cui l’affittacamere che mi ospita (un tipo gentilissimo) e un bar che si spaccia per ristorante, quattro chilometri fuori dal Cammino: il che significa che tra oggi e domani dovrò percorrere otto chilometri in più (due ore). Nel presunto ristorante una ragazza che giustamente vorrebbe essere altrove anziché spazzare, servire ai tavoli, prendere ordinazioni con un’insofferenza che non posso che capire e giustificare, mi porta una cena che in altri ambiti mi farebbe scappare a zampe levate. E invece mangio e ringrazio, ringrazio a vuoto perché lei si rifiuta di capirmi, unico esemplare di spagnola che rifiuta l’italiano (dell’inglese manco a parlarne). Anche qui, in altri ambiti mi sarei lasciato prendere da un attacco Torquemada, ho il mio rimedio magico. La “musica inusitata”. Infilo auricolari e scrivo queste righe.
Prego che il doping valga anche per l’apparato digerente.

17  – continua

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Artrite spirituale

Da Rabanal del Camino a Ponferrada.

Ho un incubo ricorrente che si propone in due versioni coincidenti. Sogno di tornare all’improvviso a scuola per sostenere l’esame di maturità. Inutilmente dico che l’ho fatto molti anni fa e che adesso ho un lavoro, ho fatto cose… niente: l’angoscia sale verso l’inesorabile bocciatura. Oppure sogno di tornare al giornale dove ho lavorato per vent’anni. Mi danno un posto da occupare per passare le pagine provinciali: ma io ho improvvisamente dimenticato tutto e non riesco neanche a trovare il fax, non ho un computer, una macchina da scrivere. Tutti mi guardano, i miei colleghi di allora, e dicono tra loro “vedi com’è finito”. E ridono di me che resto fino a notte fonda senza neanche chiudere una pagina.

Ultimamente mi è capitato un altro incubo che si è riproposto. Sono in un Cammino – non quello che sto facendo, un altro che pure ho concluso felicemente – e devo affrontare una lunga salita. Arrivato in cima, affaticato, c’è una via obbligata che fa un percorso strano e senza scendere,  come in un romanzo di Stephen King (di cui in questi giorni ho letto una bella biografia), mi riporta giù al punto di partenza, tre litri di sudore più in basso. Devo ricominciare, molte volte: fin quando rantolante non mi sveglio gridando: “E che cazzo!” E l’eco di questa imprecazione mi tormenta fin quando non mi attacco alla bottiglia dell’acqua e bevo come uno sconsiderato. 

La scorsa notte ho fatto proprio quest’incubo, quello della salita. E non per caso. Oggi avevo in programma la tappa più dura (che se la gioca con la prima sui Pirenei) in cui su 32 chilometri, una dozzina erano in salita sino a 1.200 metri e i restanti venti erano un’infinita pietraia molto ripida (pensate che la quota di dislivello in discesa è di 1.267 metri). 
Insomma l’incubo premonitore, o come caspita si può definire, rischiava di fiaccarmi. Invece forse per via delle ore di sonno (nove tonde tonde), forse per gli undici meravigliosi gradi al risveglio, o forse per un compromesso storico dei miei bioritmi, stamattina ero bello tosto, di buon umore (nonostante la sveglia anticipata di un’ora). Risultato: mi sono divorato la salita fresco come un Sangiuliano dopo la lettura del libro quotidiano, nonostante fosse il ventiduesimo giorno di marcia ininterrotta (a un’età, la mia, non proprio da tempo delle mele). Soprattutto l’altimetria mi ha consegnato un pensiero – qui si pensa, eh! – su quella che definirei artrite spirituale. 
Tendiamo a irrigidirci nelle nostre considerazioni, siamo poco elastici nel tradurre i segnali del nostro corpo e troppo proni verso quelli della nostra psiche. O meglio, non riusciamo a mettere in contatto i vari reparti operativi della nostra persona e lasciamo convergere nello spirito tutto quello che ci scoccia decrittare. 
L’artrite spirituale si guarisce rispettando la vera essenza delle salite e delle discese. Soprattutto uscendo dal luogo comune che vede le prime come sinonimo di sforzo, difficoltà, e le seconde come portatrici di agevolazioni, facilitazioni. Niente di più falso come sa chi fa trekking a buon livello, maratone in alta quota, trail, cammini lunghi con uno zaino in spalla.
Nella stragrande maggioranza dei casi le discese sono molto più impegnative delle salite e richiedono uno sforzo tanto maggiore quanto è mancato un allenamento a parte. Perché mettono in gioco altri muscoli, che tendiamo a sottovalutare.

Ecco, metteteci tutte le metafore di cui siete capaci e ditemi se la vostra artrite spirituale non ha bisogno di un occhio diverso. Meno ordinario, meno sbrigativo, meno convenzionale.
D’ora in poi quando vi troverete in una salita della vita, provate a pensare che non è il peggio che poteva capitarvi. Poteva essere una discesa. 

Nella foto una minima idea della pietraia di stamattina.

16 – continua

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Molliche

Da San Martin del Camino ad Astorga.

Man mano che ci si avvicina a Santiago il cammino diventa ahimè sempre meno solitario. Per intenderci, dopo venti giorni di passi in compagnia esclusiva di me stesso medesimo mi infastidisco anche solo se qualcuno mi affianca (l’effetto rompicoglioni ungherese non si è mai esaurito e in tal senso non ammetto cali di tensione, tipo Caselli con la mafia negli anni del depistaggio). 
Santiago è la nota dolente di questo cammino, perché è un luogo fondamentale per chi ci arriva una volta, due, ma alla terza cominciano a pesare la folla, i prezzi alle stelle, l’invivibilità di una città simbolo che diventa simbolo di altro, qualcosa di diverso, irritante. Infatti ho deciso che stavolta la eviterò e me ne andrò lontano, dritto verso Porto (ma in pullman) che, tra l’altro ha il volo diretto per Palermo.  
Tenete conto di un fatto incontrovertibile: la maggior parte di quelli che dicono di aver fatto il Cammino di Santiago hanno percorso solo le ultime due o tre tappe: insomma è il Cammino dell’hinterland di Santiago. Questo vi dà la misura di quanto la città sia imbuto e contenitore di un fenomeno globale ancor prima che di un pellegrinaggio.

Tra le dieci-undici persone che ho incontrato stamattina lungo una tappa inaspettatamente fresca, causa pioggia annunciata e pervenuta come un coitus interruptus (cioè scaricando altrove), c’era un padre in bici con tre figli tutti bardati per una missione di lunga pedalata. Si capiva tutto chiaramente: padre e figli perché identici con la stessa corporatura longilinea e la stessa fisionomia; lunga pedalata perché avevano tutti un bagaglio ben evidente; una squadra educata al profitto fisico (andavano forte e si capiva che erano allenati) e alla netiquette (precedenza ai pedoni sempre); e un dettaglio delizioso per me, il “buen camino” ripetuto da ciascuno di loro con sorriso di ordinanza davanti al camminatore affaticato. Un quadretto di armonia familiare, di solidità sportiva, di educazione semplice ma inderogabile. 

Lo confesso, ho un nervo scoperto per certi quadri di vita. Ed è un ambito talmente delicato che la mia indole mi consente di affrontarlo pubblicamente solo con un numero di parole ridotto.
Non sono stato padre per scelta. Non ho mai voluto figli e non ho mai imposto questa mia scelta a nessuno. Chi mi ha condotto o affiancato per un tratto di vita lo ha fatto condividendo e/o rispettando questa visione delle cose. Quindi bandita la parola “rimorso”.

Però quel padre che pedala coi figli lungo una strada lunga giorni che diventeranno anni di ricordi ed eternità umana di gioia ha suscitato nel sottoscritto, catorcio monocilindrico, un sentimento che a voi descrivo come ammirazione, e a me, nell’abbaino angusto del mio cuore, confesso come dolce invidia. 
Penso alla fabbrica di ricordi che quel padre ha messo su con lungimiranza. Al divertimento che quei ragazzini, sgommando ordinati sullo sterrato, stanno capitalizzando. A quella quota di affetto e cura di sé che diventerà rispetto, condivisione, investimento sui sentimenti. Pedalare insieme, sudare insieme, cenare insieme, dormire insieme, progettare insieme, per giorni che resteranno per una vita. Se siete genitori fatelo ora, subito.
Imbastite una missione, prendete una striscia di tempo, staccatela dal resto e dividetela in tante strisce coi vostri figli, progettate avventure alle quali dedicherete mesi e mesi di preparazione, fatevi comandanti e complici, esploratori e turisti. Faticate coi vostri figli, ve ne saranno grati.
Prima che la pigrizia vi ingrigisca, prima che l’ordinario vi sommerga, prima che ci sia un dopo imprescindibile. 
Mollate tutto e andate a impastare il pane del vostro futuro. Perché in fondo presi a solo, siamo molliche.
La quota di parole a me concessa per questo argomento finisce qui.

15 – continua

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Così così

Da León a San Martin del Camino.

Prologo.
Prima dei social le nostre vacanze erano belle o brutte come tutte le vacanze. C’erano le fregature e le scoperte, con tutti i gradi intermedi. E soprattutto esisteva il così così. 
Il così così risolveva ogni dubbio, eliminava ogni decisione, appianava ogni diatriba.
Com’è andata? Così così. Amen.
Oggi è impensabile un giudizio così poco fotogenico, non screenshottabile. La mezza misura è bannata in un mondo in cui il padrone di una gran fetta dei social è un miliardario che fomenta le folle e soffia sul fuoco anche per il peto di una vacca (oddio la metafora è abominevole, ma tutto sommato scialba rispetto ai contenuti di X). Se non avessi questo blog anche io sarei caduto in questa dittatura degli estremi, o meraviglioso o merda, o “lasciatemi qui” o vergogna”, o “se è porno tolgo” o “da dimenticare”. 

Fine del prologo.
Sono a San Martin del Camino, nell’unico albergue in cui hanno una stanza non condivisa, in cui uno può farsi una doccia senza dover fare la fila, insomma in cui la condivisione forzata del pellegrino non è la way of life dominante. Un paese (paese?) in cui puoi cenare in un solo posto e in cui se per caso fai antipatia alla cameriera sei fottuto. Indovinate come è andata? 
In questo inusitato assembramento di persone dove per un abitante si contano un milione di mosche (cifra arrotondata per difetto) si misura la durezza di un cammino così lungo.

Mi è capitato più volte di trovarmi in situazioni dove il così così sarebbe stato un compromesso ruffiano. Una volta, qualche anno fa, mancai clamorosamente un paese, che a dire il vero non si trovò mai come se fosse scomparso dalla carta geografica o come se al contrario fosse stato segnato solo sulla mia, e riparai a casa di una signora che ebbe pietà di me che ovviamente ero a piedi. Un’altra volta il tale che doveva ospitarmi a casa sua si fregò i soldi e vendette la camera a un altro, mi accampai davanti al portone per fargli assaggiare le mie rimostranze solide ma poi fui convinto a ripiegare in un nonviolento rimborso spese. Proprio ieri, un albergo raffinato (uno dei pochissimi) che doveva ospitarmi nel centro di León si è mangiata la mia prenotazione rimbalzandomi in un anonimo hotel ai margini. Anche qui esercizio olimpico di pazienza a corpo libero e via andare (di reclamo). 
Accade. Viaggiare è vivere: se non ci sono imprevisti, nel migliore dei casi significa che sei morto. 
E quindi.
Stasera in questa ridente cittadina di mosche felici, per sfamarmi sono costretto a mangiare pizza scongelata male (nella foto, e quelli non sono funghi ma comparse reclutate ad hoc nel favoloso mondo dei vegetali da fiction) e olive in salamoia. Accanto a me un gruppo di ragazzi italiani che anzichè gioire della loro condizione (di giovani, viaggiatori, camminatori o pellegrini, viventi con prospettiva, costruttori di futuro) si lamentano delle piaghe ai piedi e pianificano un ritiro anticipato. Avranno manco trent’anni e li giustizierei sommariamente coi noccioli delle olive.

Insomma.
In questo Cammino Francese sto visitando posti meravigliosi, come vi ho raccontato, ma per onorare l’oggettività di una narrazione accettabile è giusto togliere ogni forma di eroismo, calare la telecamera del racconto ad altezza uomo, stangare ogni tentativo in cui il pittoresco offusca il reale. 
L’unica costante è la felice fatica, felice perché sino a ora reggo con malcelata soddisfazione (e sono a ben oltre metà dell’opera), fatica perché non c’è sinonimo che renda in modo adeguato il ripetersi costante di mattine, chilometri, arsura, chilometri, passi, chilometri, arrivi e di nuovo mattine, chilometri… 
Come nella vita di tutti i giorni spesso va benissimo, raramente va male, ogni tanto va così così.

14 – continua

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Il tratto fisico e la variante buon gusto

Da El Burgo Ranero a Leòn.

In alcuni dei miei Cammini ci sono stati momenti in cui spinte di cronaca estranea ai miei passi, pochissime a dire il vero, hanno condizionato le mie scelte strategiche. Che so, ricordo la famosa tagliata di faccia di Conte a Salvini nel 2019: ero nel Cammino del Nord e grazie a un itinerario in cui c’era copertura telefonica riuscii ad ascoltare lo scontro al Senato: meglio di un film. Oggi c’era la finale del volley femminile alle Olimpiadi e sono riuscito a seguirla grazie a un intricatissimo (credetemi) sistema di orari di partenze e spostamenti di tappa. Perché comunque è vero che una delle attrattive di queste esperienze è il ritiro da tutto e il sottrarsi dal tran tran, ma è anche vero che per via di un mestiere e di un’indole ci sono cose che ci interessa seguire e che non vanno sacrificate per partito preso.
Non vi dico come e dove ho visto la meravigliosa finale di oggi. L’importante è stata viverla con tutti gli elementi di una vera festa: la gioia, l’orgoglio, il significato.

In questi giorni di fatica mi è spesso tornato in mente il concetto di “tratto fisico” di cui ancora ieri il solito Vannacci andava vagheggiando. E ci ho pensato per vari motivi. Innanzitutto perché la fatica cambia i nostri tratti somatici: ne ho conferma ogni volta che incappo in uno specchio dopo 25-30 chilometri sotto il sole. Poi perché muovendomi per un paese multiculturale come la Spagna ho modo di godere lentamente del mix di colori e tradizioni. Infine perché il Cammino Francese è un crogiolo di lingue e culture incredibile. Negli ultimi giorni ho cenato con americani, chiacchierato con francesi, scherzato con coreani e il succo del discorso era sempre lo stesso: trovare concetti che uniscano, che sia cibo o passione sportiva. È un atteggiamento che, lo confesso, tengo con parsimonia dato che, come ho più volte detto, preferisco il viaggio in solitaria. Del resto straparlo abbondantemente nei restanti undici mesi dell’anno, trenta giorni a regime vocale ridotto fanno bene tanto allo spirito quanto alla laringe.
Però mi pare interessante che il “tratto fisico” abbia perso negli anni la sua finta valenza rappresentativa almeno nei paesi civili. Perché, diciamolo, è un elemento di distrazione, una gran perdita di tempo. Ve li immaginate i leghisti più retrogradi censire i punti fatti ieri sul campo di volley dalle atlete bianche e sbattersi la testa al muro perché i conti non tornano?

La verità è che tra storia e narrazione c’è un abisso e i fascisti di ogni epoca pretendono che la prima si inchini alla seconda. Churcill puntava al Nobel per la pace e, quasi contrariato, si trovò a vincere quello per la letteratura. “Alice nel paese delle meraviglie” doveva essere una favola per bambini e invece fu un gran romanzo lisergico, per di più scritto da un matematico sotto pseudonimo (ne parlo in “1979”). In “Willy il coyote” per la prima volta in un cartoon il vero eroe è un perdente che perpetua la sua sconfitta. E così via. Il “tratto fisico” come metafora della scontatezza, della versione preconfezionata, dell’offesa al genio dell’uomo che sia poeta o sportivo, avvocato o poliziotto, martello o chiodo. Per quel che ho capito della vita, pochissimo, il dipanarsi del nostro tempo libero è una buona palestra per i muscoli della nostra narrazione. Senza nulla togliere alla beatitudine dell’ozio e al gusto del buon vivere (che è uno dei concetti più relativi che si possano tirare in ballo in quest’ambito) le cose che sembrano superflue riescono alla lunga a risultare fondamentali.

Non mi stanco di ripeterlo. Viaggiare a piedi è un discreto modo per esercitarsi in concetti semplici ma cruciali. Tipo che essere tutti uguali è giusto, ed essere tutti diversi è divertente (scoprire che non sono concetti alternativi è illuminante). E che dichiararsi liberi è una cosa facile da far male, come la pasta aglio e olio. Lo insegna ancora una volta il Cammino dove i passi vanno misurati, preparati responsabilmente.
Non c’è libertà senza responsabilità.

Nella foto, un murales di Sahagùn, una cittadina a metà tra il molto pittoresco e l’abbastanza scarso.

13 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

La certezza che vacilla

Da Fròmista a Carriòn de los Condes
Da Carriòn de los Condes a Ledigos.

Crollo delle certezze? Ti svegli, barcolli sino a un simulacro di bar, ingolli le calorie necessarie per una giornata di sudore e fatica, ti carichi lo zaino in spalla. E prima che tu possa fare il primo passo, un furgoncino con la scritta “Caminofacil” accosta al portoncino del tuo B&B e ritira due zaini e quattro trolley giganti. È un servizio abbastanza noto tra chi si cimenta nei vari Cammini e consiste nel trasporto del bagaglio in modo che il pellegrino\camminatore possa fare il suo itinerario senza pesi sulle spalle. Che non è come fare le escursioni con la bici elettrica, godendo di una legittima seppur snaturante agevolazione, ma peggio. La voce più oltranzista del mio spirito di avventura dice che lo zaino è parte integrante del viaggio e mollarlo significa barare. Quella più trasversale dice: magari!

Ne scrivo da anni, lo zaino è il pegno e il bottino di un camminatore. È casa e fuga, è peso e sicurezza, è espiazione e crocifisso. Non potrei mai immaginare una scorciatoia fisica così sleale (io che odio le scorciatoie). Eppure. 
Eppure oggi nel famoso tratto di cui vi avevo detto qualche giorno fa, senza un albero senza una fonte senza un paese, un miraggio mi ha colto. Un miraggio di undici lettere: Caminofacil.

Era stata una tappa complicata. Con tripla scorta d’acqua cioè con tre chili in più sul groppone. Con una linea di orizzonte ingannevole che ti dice che tutto è vicino mentre non è manco a portata di maledizione. Con un misto di terra-sassi-sassi-terra che ti ricorda che le caviglie sono articolazioni misteriosamente connesse ai centri della tua sopportazione che non hanno a che fare con muscoli e tendini ma con parti meno descrivibili.
Le certezze vacillarono sino all’arrivo a destinazione, Ledigos, un non paese basato su un paio di albergue (e ovviamente una chiesa) con trionfo di cene comunitarie, dove la temperatura garbatamente alta ti induce all’unica tentazione accessibile: la cerveza 1906 per la quale ho una passione inconfessabile e alla quale devo il punto finale di queste righe.  

P.S.
La foto di questo post non a caso è simile a quella del precedente: siamo nella stessa regione, ma il terreno si asciuga sempre più.

12 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.