Mafia, il teatro delle evanescenze

L’articolo pubblicato su Il foglio.

Sentenze, libri, cortei, convegni, navi, musei, orazioni civili, ricordi, comparsate in tv, slogan sferraglianti, impegni solenni. E ancora “pentiti”, suggeritori, veggenti, traditori, impuniti troppo impuniti e colpevoli perfetti troppo perfetti. Nel labirinto di via D’Amelio ci si illude di intravedere l’uscita e invece ci si rende conto, anno dopo anno, di aver sbagliato addirittura l’entrata.
A trentadue anni, celebrati proprio ieri, dalla strage in cui morirono a Palermo il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina poche certezze lambiscono una cronaca nota, cristallizzata nel tempo.

Schematizzando.
Il depistaggio ci fu.
I finti “pentiti” hanno tutti nome e cognome.
I magistrati e i poliziotti che li hanno creati, gestiti e difesi sono stati tutti prosciolti e/o promossi o comunque se la sono fatta franca.
Gli unici colpevoli sono due morti: l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e l’ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra.
A oggi il più grande depistaggio della storia della Repubblica italiana (definizione dei giudici di Caltanissetta) non ha un colpevole punito tra i viventi, ma solo (soliti) noti impuniti.

Ci sarebbe da armare rivoluzioni, da stendere catene umane. Eppure questa strage non interessa a nessuno. A parte qualche sporadico titolo di giornale, perlopiù nelle pagine interne o nei dorsi locali, quel boato riecheggia solo nelle orecchie dei pochi sopravvissuti e dei parenti delle vittime che ci ricordano che non c’è democrazia nel dolore, non c’è una livella delle ingiustizie.
La verità è che se fregano tutti. E non solo a Palermo che è la capitale mondiale dell’amnesia organizzata, ma nell’Italia intera di ogni governo, di ogni colore, di ogni riforma. 

Falcone e Borsellino. Nel binomio partorito dalla cronaca e ancor prima dalla crudeltà degli uomini (perché siamo anche ciò che non ci è stato permesso di essere) c’è tutto il sottotesto di un’antimafia di sussurri, di carriere, di protagonismi, di ingenuità, di coraggio, di forza interiore, di sangue acido, di lavoro silenzioso, di ostentazione, di modestia, di vita con le virgole che ognuno sa darsi.
È un teatro delle evanescenze in cui una scena si apre, un’altra si chiude e una si perde. Come si è persa non solo la ragione di dare un senso definitivo a quei boati, ma anche il tentativo di un racconto diverso oltre che dei caduti in questa lotta tremenda contro Cosa Nostra, dei loro seguaci, degli epigoni, dei parenti acquisiti (le vittime di mafia sono un territorio di grande saccheggio), degli orecchianti che sul ricordo hanno costruito business, politiche, show.
Eppure l’epopea era lì, davanti ai nostri occhi, pronta per essere narrata.

C’era Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia inventato da La Barbera e Tinebra che mandava in tilt la macchina giudiziaria per 16 anni, cioè fin quando non veniva smentito da Gaspare Spatuzza, un “pentito” assassino ma non farlocco. Eppure Scarantino, ragazzotto della Guadagna senza arte né parte, poteva essere stoppato subito. Cioè ben prima che le sue fandonie portassero a tre processi con altrettanti gradi di giudizio (centinaia e centinaia di udienze) su un presupposto falso. Lui non sapeva nulla della strage di via D’Amelio ed erano La Barbera e suoi a imbeccarlo affinché desse le risposte che il pool di Tinebra si aspettava. Nella storia del nefando traccheggio dal quale scaturisce il depistaggio c’è una data cruciale: 13 gennaio 1995. In quel periodo Scarantino stava accusando alla cieca, ma sempre sotto dettatura. Nei mesi precedenti era stato irritualmente sottratto alla cura del Servizio centrale di protezione dei pentiti e affidato a un’entità creata ad hoc: il “gruppo Falcone e Borsellino” di La Barbera. Già allora Scarantino era stato subito sbugiardato da altri collaboratori di giustizia come Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera (soltanto omonimo del capo della squadra mobile) e Santo Di Matteo, padre del piccolo Giuseppe strangolato e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca per ritorsione contro il pentimento. Quindi il depistaggio poteva morire in culla già nel 1995. Ma quel 13 gennaio i pm di Caltanissetta fecero qualcosa di inspiegabile. Decisero di non depositare gli atti in cui il pentito farlocco risultava sbugiardato e di conseguenza nulla di quelle contraddizioni venne reso noto ai difensori degli imputati. Ergo, niente di tutto ciò che poteva disinnescare per tempo la bomba Scarantino entrò nel processo che si aprì il 4 ottobre 1994: il processo Borsellino, che allora era ancora il processo Borsellino e basta, e che pochi mesi dopo diventerà il Borsellino primo, per via di una strana sindrome tutta siciliana, quella della moltiplicazione dei processi. Qui comincia l’ottovolante delle udienze e bisogna aggrapparsi al calendario per non perdersi. Il Borsellino primo arriva a sentenza di primo grado il 26 gennaio 1996. Quello stesso anno, a ottobre, inizia il Borsellino bis. Ma nel frattempo inizia l’appello, cioè il secondo grado, del Borsellino primo e un processo nuovo nuovo, il Borsellino ter. Intanto arrivano anche la sentenza di appello del Borsellino primo e la prima sentenza del Borsellino ter. Mentre nel dicembre del 2000, c’è la sentenza di Cassazione del processo primigenio, il Borsellino primo. La Cassazione: uno pensa, finalmente un punto fermo. Macché, tutta la macchina giudiziaria per i primi tre processi è impantanata nelle fandonie costruite ad arte dal falso pentito.
La mitosi giudiziaria non si ferma. Sempre nel 2000 arrivano le sentenze di appello del Borsellino bis e del Borsellino ter. Tre anni dopo tocca alla Cassazione dire l’ultima parola su questi due processi. Ultima parola che non sarà l’ultima.
Infatti bisognerà attendere altri dieci anni per assistere all’inizio di un ennesimo processo, il Borsellino quater, nato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che, mentre ci aggrovigliavamo in primo bis ter e via numerando, aveva svelato il depistaggio e indicato i veri responsabili della strage: era lui che aveva rubato la 126 fatta esplodere in via D’Amelio e non Scarantino, con quel che ne consegue.
Solo il 20 aprile 2017, cioè 25 anni dopo la strage, si arriverà a una sentenza di primo grado che finalmente non è drogata. Sarà solo l’inizio, un nuovo inizio dopo nove false partenze (primo bis e ter per tre gradi di giudizio) e altrettanti finali fasulli. Nove processi, centinaia di udienze, nessuna verità.

Un labirinto di numeri.
Cento, centodieci, centoventuno.
Avrebbero potuto essere metri, chilometri. O chili, quintali, tonnellate. Avrebbero potuto essere peso o distanza. Invece cento, centodieci, centoventuno sono i “non ricordo” pronunciati da tre dei quattro poliziotti che testimoniarono al processo di Caltanissetta per il depistaggio che ha visto imputati l’ex dirigente Mario Bò, gli ex ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tutti prescritti nel processo di Appello. La sentenza, come tutto in questa storia, offre una lettura bifronte e racconta che i poliziotti concorsero a depistare ma che comunque andavano rimandati a casa perché era passato troppo tempo, che guaio ci fu ma non ci possiamo fare niente. 
È così la vicenda della strage di via D’Amelio. Appena si mette a fuoco una soluzione spunta una lettura di senso opposto. Appena si tira un respiro, un nuovo cappio stringe il collo.

Nel dedalo giudiziario attraversato da verità vaganti spunta periodicamente il dossier “mafia e appalti”. Si tratta un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Quel dossier, indicato tra le cause di un’accelerazione degli attentati a Falcone e Borsellino, sembra un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per esaminare o per cancellare, per indagare o per proteggere. A cominciare dai carabinieri che lo stilarono, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente dopo un estenuante calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con l’ex pm del pool antimafia di Palermo Gioacchino Natoli finito sott’inchiesta a Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Lui si è difeso dicendosi estraneo alla losca vicenda, e ha persino incassato la stima di Maria Falcone.

Gira la giostra, tra coraggiosi e traditori, tra nudi e puri e pataccari. Ed è molto difficile orientarsi senza prendere cantonate.
Il caso di Massimo Ciancimino è emblematico. In principio considerato attendibile dalla Procura di Palermo, ma non da quelle di Caltanissetta e Firenze, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo tentò di accreditarsi come collaboratore di giustizia. Fu così che, tra una decina di comparsate in tv e un libro autobiografico, la sua pulsione dichiaratoria strabordò sui grandi misteri. Si esibì su tutto, dalla morte di Calvi alla strage di Ustica, dagli eccidi del ’92 alla famosa Trattativa, il suo vero capolavoro, finito però, come abbiamo visto, con assoluzioni a raffica. Insomma quella che per un certo momento fu salutata come una messa cantata si rivelò, qualche procuratore dopo, cabaret.

Il labirinto non risparmia nessuno, neanche le figure dolenti che meriterebbero migliore sorte. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, ha intrapreso da anni una crociata sulla strada della verità, anzi di una sua verità. Questa missione solitaria lo ha messo in dura contrapposizione con Maria Falcone che non replica più alle sue argomentazioni: “Meglio ignorarlo”. Persino i suoi nipoti, i figli di Paolo – Lucia, Fiammetta e Manfredi – e il loro avvocato Fabio Trizzino sono finiti nelle sue invettive. La loro colpa? Aver criticato aspramente i magistrati, come ad esempio Nino Di Matteo, che invece lui difende a spada tratta. L’emblema della crociata è una foto del 2014: Salvatore Borsellino abbraccia Massimo Ciancimino in via D’Amelio in quella che Giuseppe Di Lello, ex membro del pool antimafia, definì “l’immagine più distruttiva dell’antimafia”.

Al netto delle indagini a colpo freddo, delle rivelazioni tardive e dei tentativi di filtraggio delle acque torbide in cui uomini delle istituzioni e uomini della mafia si mossero indisturbati, non si può non tenere conto che a quei tempi c’erano due procure che si davano battaglia, tenendosi in ostaggio a vicenda, mentre una guerra vera, terrorizzante, infuriava a Palermo e non solo: la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato. Su ogni cosa la procura di Palermo di Gian Carlo Caselli la pensava all’opposto di quella di Caltanissetta di Giovanni Tinebra. Sui “pentiti” cruciali soprattutto: Caltanissetta aveva uno Scarantino telecomandato, Palermo aveva una pattuglia di collaboratori di giustizia che lo smentivano. Perché Palermo non intervenne per tempo? C’erano patti da rispettare? C’era forse un filo di tensioni incrociate che imbarazzava i due uffici giudiziari?
La battaglia non si limitò al 1992, ma arrivò sino ai giorni nostri quando, ad esempio, nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia, Palermo ipotizzò che la strage Borsellino potesse essere stata accelerata proprio da quella trattativa. Ma se così fosse stato, non avrebbe dovuto occuparsene la Procura di Caltanissetta che proprio su quella strage indagava?

Un labirinto. Un sistema di domande che ne figliano altre, un complicato intrico di persone e personaggi impossibili da recensire.
Come Bruno Contrada, alto esponente del Sisde, irritualmente chiamato a collaborare alle indagini sull’eccidio di via D’Amelio che dice, oggi, che se allora gli avessero affidato Scarantino avrebbe “scoperto subito che si trattava di un cialtrone”. Eppure lui stava lì e le dichiarazioni di Scarantino le conosceva, cosa ci voleva per smascherarlo, una presentazione ufficiale, una cena aziendale?
Come i “signori nessuno” estranei a Cosa Nostra che si materializzarono nei luoghi in cui si custodiva l’esplosivo delle stragi e che suscitarono perplessità persino tra i mafiosi.
Come i due colpevoli perfetti, perché deceduti. L’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che di mafia ammetteva serenamente di sapere poco e l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, al soldo dei servizi segreti, che invece sapeva troppo e che si curava di sceneggiare la storia a modo suo: famosa la sua preveggenza sul tipo di auto usata per la strage Borsellino con cui anticipò di un giorno il risultato di una perizia tecnica.

La verità processuale, labirintica anch’essa, ci dice che il depistaggio c’è stato, ma non si sa bene perché. Il succo è che in una congerie di situazioni spesso grottesche si inventò un castello di falsità per trovare in fretta una soluzione qualunque e che il tutto fu agevolato dalla scarsa qualità professionale dei magistrati che ci lavorarono.
Poco importa se, al netto del mistero dell’agenda rossa scomparsa, nulla si è mai saputo di quali carte avesse con sé Borsellino il pomeriggio del 19 luglio 1992. E soprattutto non si sa ancora cosa gli inquirenti prelevarono quel giorno nel suo ufficio perché non fu mai prodotto un verbale di sequestro dei documenti. Di certo sappiamo che di quelle carte a Riina e compari non gliene fregava nulla.

Ascolta il podcast sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio

La foto è di Franco Lannino.

Peggio per te

È un tema che viene a galla spesso in questo blog (tipo qui) e in zone limitrofe (social, incontri con amici, lavoro, eccetera). E riguarda una mia antica avversione che mi ha causato discussioni accese e peggio ancora. Appena qualcuno mi dice “io dico sempre quello che penso” vantandosene, mi prende un attacco di ira e parto a canini sguainati per la giugulare del propalatore di pensieri non trattenuti.

Dire quello che si pensa è la cosa più facile e superficiale del mondo, al netto di questioni che riguardano regimi dittatoriali e affini, ma in quel caso la discussione è talmente ovvia da non essere esempio utile. Usare questa frase per riscuotere benevolenza o per apparire liberi e puri è da scriteriati giacché è esattamente l’opposto che emerge: una persona senza intestino che ingerisce ed espelle in un fiat (e qui sbizzaritevi con le metafore). 
La cosa veramente complicata che ci differenzia, ci eleva, ci dà pregio è esattamente l’opposto.
Non dire sempre quello che si pensa.
Filtrare i pensieri prima di trasformarli in azione. Perché riflettere è bello, frenarsi è etico, contenersi è utile.

Il rubinetto o meglio il rubinetto con filtro ai pensieri comunicati, condivisi, elargiti e molto spesso imposti senza che nessuno ne abbia fatto richiesta, ammazza persino il più basso livello di “non detto”, quello che dà tridimensionalità ai nostri rapporti e che evita la formazione di trombi pericolosissimi per gli infarti sociali ai quali purtroppo ci stiamo abituando. Pensate all’alibi di moltissimi politici dell’ultimo ventennio (soprattutto grillini e leghisti, due forme di estremismo dialettico opposte e spesso complementari): dire sempre quel che si pensa “perché sono fatto così” è una dichiarazione di impotenza contro se stessi, contro la propria libertà, contro il proprio senso critico (la critica impone riflessione, attenzione, altro che vomito di parole per come vengono). A questi signori che si vantano di non aver filtri andrebbe ricordata la bellezza del trasversalismo che fa grande l’arte.
Talvolta peggio di un sogno deplorevole c’è un sogno irreprensibile.

Una volta, non molti anni fa, mi ritrovai a cena con una persona che non conoscevo (ero stato invitato per discutere una possibile partnership lavorativa). Questa persona ancora prima di bere un bicchiere di vino disse una scemenza titanica. Non me la presi troppo sin quando non sorrise mettendo le mani avanti: “Devi capirmi io sono una persona che dice quello che pensa”.
“Peggio per te”, risposi diluendo il sorriso in un vino consono alla serata.
Fu un’ultima cena rapida.

E vissero volgari e contenti

Sono a casa, costretto da un problema di salute. Fuori è bello, dentro è bello incasinato. Come incasinati sono stati gli ultimi mesi in cui i miei attributi sono stati limati al limite della frantumazione da personaggi inaffidabili e congiunture astrali che sembrano architettate da un negazionista in crisi di astinenza di chip sottopelle. Leggo i giornali, come ogni giorno: solo che oggi è un po’ presto per un non mattiniero come me.
Caffè, musica. Metto da parte un bel libro che mi ha fatto compagnia in una notte selvaggia, ma solo di lettura (ahimè) in questo momento.
Oggi, per via della limatura di cui sopra, me la prendo comoda e così sarà ancora per un po’ almeno sin quando il capo della mia Centrale Operativa Corporea non deciderà di togliere il limitatore di potenza alle macchine.
Plano sulla timeline social e atterro sulla notizia che è morto un caro collega col quale ho condiviso venti-anni-venti di Giornale di Sicilia, lui capo della Cronaca di Palermo io capo della Cronaca Siciliana, migliaia di riunioni, pagine, telefonate, discussioni, sigarette (lui fumava il sigaro), nottate di lavoro.
Si chiamava Nino Giaramidaro e non ho voglia qui di fare il suo panegirico anche perché dovrei raccontare una mezza dozzina di episodi esilaranti (e istruttivi) che lo videro protagonista e che oggi preferisco tenere per me. E poi c’è in giro una buona quantità di ricordi di altri amici e colleghi che rende omaggio all’uomo e al professionista.
C’è però qualcosa che mi colpisce. Un pensiero. Un pensiero catalizzato da Nino e dal suo non esserci più. E non è una questione di ricordi, ma di presente, di attualità.
La sua gentilezza.
Nino Giaramidaro era una persona gentile: non era uno che sbrodolava, anzi era spesso tranchant nei giudizi, ma era di buoni modi. Ed era il bersaglio preferito di un condirettore che lo trattava talvolta con deprecabile prepotenza. Lui non ha mai reagito con una parola fuori posto: assorbiva il colpo e dato che non era un buon incassatore ne portava i segni per lungo tempo.

Mi faccio un altro caffè e mi metto comodo davanti al computer. Apro un foglio di Word e scrivo. Scrivo quello che adesso state leggendo.

Diciamo spesso che la verità non esiste. Invece esiste, esiste eccome.
Però quando se ne va una persona gentile, un granello di verità si perde. Perché la verità esiste in contrapposizione alla menzogna, e se la prima può essere sia buona che meno buona, la seconda è perlopiù cattiva.
Se si perde gentilezza, per omeostasi etica e sociale, ci guadagna la malvagità quindi per effetto diretto la menzogna.

È così che decido di riaprire i giornali e di rimettere mano ai miei appunti di cassettista maniacale per trovare ciò che so già che troverò: a conferma del fatto che non sempre un pregiudizio è un aborto di ragionamento.
Atterro sulle cronache di Cateno De Luca, leader di Sud chiama Nord la cui sguaiataggine è lo specchio fin troppo lucido di una politica di volgarità e di violenza verbale che non merita troppe parole: come la bellezza è un principio fragile, la bruttezza è refrattaria al ragionamento, quindi risparmio pensieri e punto e a capo.

C’è la scenetta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni che si vendica della “stronza” datagli dal presidente della regione Campania Vincenzo De Luca: uno scontro al vertice del minimo gusto.     

C’è il reflusso acido della “frociaggine” di Papa Francesco: a conferma che il vento in chiesa non spegne solo le candele, ma anche certe fiammelle interiori.

C’è un ennesimo capitolo della saga che vede protagonista Gianfranco Miccichè, uno il cui massimo ragionamento politico verte sul “ce la possono sucare altamente”. Ora pare che il suo pescivendolo sia stato assunto come consulente per la pesca al Senato: a conferma che esiste anche una volgarità silenziosa del sistema, grottesca e paradossale.

C’è la storia dell’eurodeputato di Fratelli d’Italia Giuseppe Milazzo incluso tra gli impresentabili della Commissione parlamentare antimafia alle prossime elezioni europee. E anche qui l’effetto Giaramidaro ha i suoi effetti per contrappasso quanto a gentilezza. Uno dei più significativi atti politici di Milazzo risale al dicembre scorso quando l’esponente di FdI saltò fisicamente sul banco della presidenza del Consiglio comunale di Palermo, strappando il microfono dalle mani del vicepresidente Giuseppe Mancuso “per la mancata discussione del regolamento sulla movida, mentre le notti di Palermo venivano segnate dalla violenza”, scrive Repubblica. Insomma Milazzo nelle sue battaglie contro la violenza non è proprio un gandhiano (e mi viene l’urgenza di comunicargli, a scanso di equivoci, che Gandhi non è la marca di una pastiglia per lavastoviglie, quindi non gli ho dato del detersivo).

Ci sono altre notizie che l’enzima messo in circolo dalla scomparsa di una persona gentile mi colpiscono, ma a questo punto temo di arenarmi in una secca di pregiudizi dai quali sarebbe difficile tirare fuori un ragionamento non contundente. Non si può essere allo stesso tempo a favore della democrazia e tolleranti a lungo. Vorrei urlare di cacciare questi signori dal posto in cui si trovano, di non votare nessuno che non pratichi la gentilezza, di rifiutare ogni contatto coi protervi di potere. Però poi mi fermo e mi arrendo all’ultima riga, quella che segue.

La verità (come l’amore) non dipende dal giudizio, ma dalla decisione di sospendere il giudizio.

Spremuta di fan

Il famoso caso Ferragni, dopo le rivelazioni di Selvaggia Lucarelli recentemente compattate nel suo libro “Il vaso di Pandoro, ascesa e caduta dei Ferragnez”, è uno spunto importante per identificare il nostro periodo storico come l’epoca dei fan.

I fan hanno acquisito un ruolo sempre più determinante, soprattutto nel mondo dell’arte ma penso anche ad ambiti diversi come quello della pubblicità e della comunicazione in generale, grazie alla possibilità (molto moderna) della cosiddetta riproducibilità tecnica delle opere. Un tempo infatti un’opera veniva ammirata, ascoltata una tantum. Oggi invece viene riprodotta e necessita quindi di un gran numero di persone che la consumino, la digeriscano a ripetizione. Attenzione, non sto parlando di pubblico generico, ma di fan. La differenza è abissale e la spiega bene Claire Dederer nel suo libro “Mostri” (che vi consiglio vivamente): “Chi fa parte di un pubblico generico consuma un’opera d’arte senza esserne definito; il fan invece è un superconsumatore, un ultraconsumatore, un consumatore che viene consumato”. Nel libro la Dederer affronta il tema dei temi: distinguere o no le vite dalle opere di geni come Roman Polanski, Picasso, J.K. Rowling, Michael Jackson, Woody Allen, Vladimir Nabokov? Possiamo continuare ad ammirare le loro opere anche se alcuni di loro si sono comportanti in modo discutibile se non addirittura criminale?

Il caso Ferragnez è ovviamente ben diverso: non si tratta, senza offesa per nessuno, di geni o di pilastri culturali. Ma il ruolo dei fan è comunque identico a quello che si verifica nei casi degli artisti di cui sopra.

Il fan davanti al prodotto dei suo divo, che sia pandoro o romanzo, che sia canzone o reel, si nutre bulimicamente dell’oggetto del suo desiderio e tende a perpetrarlo ciecamente, in un ciclo senza fine. Per dire, in molti hanno pianto per i Beatles o per l’addio dei Take That, ma lì c’era un’emozione lineare: che nasceva, esplodeva e si spegneva.
Oggi si parla di fan impazziti proprio perché il fluido del prodotto si miscela con l’allure più o meno sintetica del produttore conferendo al seguace (follower) una passione cieca, irrazionale, spesso contraddittoria: si amano personaggi negativi le cui opere diventano gesta. Questo status speciale del fan condiziona tutte le scelte dell’industria che pare coccolare il suo pargolo adorante, ma invece lo rende qualunque, inutile come singolo, inesistente come essere pensante.

L’esperienza estetica è legata alla nostalgia, al ricordo, al vissuto di ognuno di noi. La riproducibilità tecnica estremizzata dai nuovi mezzi di fruizione tecnologici azzera i puntelli del ricordo in quanto spalma l’evento che doveva essere memorabile in un tempo in(de)finito e artificiale (la compulsività del fan lo rende cieco).  
I Ferragnez sono il frutto perfetto di questo albero dai frutti artificiali. Plastica, bit, algoritmi. Come i loro fan, solo più ricchi.

Peana per Cuffaro (e ce ne vuole)

Prima incantava: come un pifferaio magico, decine di migliaia di adepti lo seguivano guadando assessorati, scavalcando segreterie, rimbalzando da un favore all’altro.
Poi cadeva: come un eroe storto, l’arena ammutoliva confidando in una rapida espiazione o chissà in una resurrezione.
Poi si rialzava: come un apostolo di se stesso ritrovava coi giusti tempi (teatrali) vigore e ostentata saggezza.
Sulla parabola di Salvatore Totò Cuffaro si è pronunciato l’universo mondo, dai detrattori delusi, perché un altro che assorbe i colpi come lui devono ancora inventarlo, agli adoratori ringalluzziti, perché un altro che fa miracoli come lui devono ancora crearlo.
Ora però mettiamo da parte il florilegio di scuse che si tira fuori ogni volta che c’è da affrontare una questione delicata (da “ho tanti amici gay” a “la mia libertà finisce dove inizia la tua”) e liquidiamo in nove parole l’antologia di frasi di circostanza sul Cuffaro uno e due: è stato un pessimo amministratore e un ottimo carcerato.

Siamo alla fase tre. Quella più difficile, in cui tra due contendenti è più difficile distinguere la scarsezza dell’uno o l’abilità dell’altro.
Di certo c’è che Cuffaro, con il suo bagaglio scomodo di errori e di reticenze, ha saputo ricreare un ambito politico classico nel fallout di un’Italia esplosa per una bomba di qualunquismo ignorante senza precedenti, senza ideologie che vadano oltre una storia di Instagram.
Di certo c’è anche che il succedaneo della politica che avrebbe dovuto sterilizzarlo non è mai stato in grado di dire apertamente una cosa semplice: e cioè che si può fare a meno di un bagaglio di voti, firme, simpatizzanti, correi, adoranti che in qualche modo a lui fa capo, e a nessun altro.

Cuffaro è un caso unico in Italia e non solo. Si potrebbe fare un paragone col Sudamerica, ma lì è difficile che un condannato si faccia tutta la galera, senza favori, per poi cominciare a risalire la china dal livello meno dieci: lì lo sconto comincia prima dell’arresto e generalmente costa qualche morto.
Nell’anno di grazia 2024 Cuffaro è difficile da raccontare senza incorrere nella furia livellatrice della cretinocrazia, frutto dell’impegno nefasto di Grillo e dei Cinque stelle (culturalmente distruttivi come dieci Berlusconi, che di suo era ben messo), e riarrangiata con notevoli variazioni cromatiche dalla destra di governo e dalla Lega di antigoverno.
Perché lui, Cuffaro Salvatore detto Totò, è più furbo di loro. Conosce la politica meglio di tutti ‘sti peones e sa che, Vannacci o no, antifascismo blaterato o no, Lucchini o no, quello che conta alla fine della discussione è il conto presentato dall’oste.

Quello che i giornali fanno fatica a raccontare è innanzitutto il fallimento della loro narrazione, che deve necessariamente avere i buoni da un lato e i cattivi dall’altro, anche quando i ruoli si invertono: perché nulla in Italia, soprattutto in Sicilia, è più reale dell’indefinito. Quindi raccontare di un Cuffaro che, nonostante tutto (lui per primo), si appresta a ridiventare ago della bilancia, senza correre il rischio di essere accusati di essere come minimo mafiosi è opera assai difficile. E chi se l’accollerebbe mai?
In realtà, senza atti di eroismo, tutta questa vicenda può essere inquadrata da un punto di vista molto laterale, in linea però coi limiti e la grandezza dei nuovi sistemi di relazione.
Cuffaro sta dimostrando il trionfo dell’analogico in tutte le sue forme più efficaci. Proprio per i suoi crimini, reali e definiti, ha avuto l’occasione di dimostrare una cosa antica: che l’impunità non conviene se si ha un piano a lunga scadenza.
Infatti oggi detrattori e non, traditori e non, inquisitori e non, hanno l’imbarazzo (tutto social e distintivo) di voler chiedere, ma al contempo di non poter chiedere, un appoggio a Cuffaro. Che ha i suoi uomini, i suoi tasselli, le sue carte: tutte analogiche, tutte reali, tutte di carne e sangue.
Pensate al povero Michele Santoro che cerca firme per la sua lista alle Europee e si ritrova a essere appoggiato proprio da quel Cuffaro che aveva ridicolizzato (lasciando che si ridicolizzasse da solo).
Questione di errori. Sapere sbagliare è un’arte simile al saper rimediare.

Approfondimento. Un podcast su Libero Grassi e sul fuoco amico contro Giovanni Falcone nel giorno in cui Salvatore Cuffaro finì in diretta a reti unificate Rai- Mediaset.

Vacche e voti

C’è un tema apparentemente laterale che è il terreno di coltura di gran parte del malaffare applicato alla politica. E ha a che fare con una frequentazione svantaggiosa e desueta, quella con la coerenza.

Il recente caso dei “voti sporchi” alla Regione Sicilia, con il coinvolgimento tra gli altri del vicegovernatore Luca Sammartino, non va guardato con la lente del recentismo, non va considerato come l’ennesima conferma che le cose vanno sempre peggio e che non ci sono più i politici di una volta. Perché dietro la vicenda di questo esponente della Lega – presunto colpevole, ricordiamolo – proveniente dalle lande del Pd c’è tutto il marasma della noncuranza dei partiti, sempiterna come le tentazioni storte e le convenienze umane.
Il cambio di casacca è un capitolo del Guinnes dei primati in continuo aggiornamento. Dalla siciliana Alice Anselmo che riuscì a cambiare sei partiti in due anni e mezzo (uno ogni cinque mesi) peraltro senza suscitare alcun sussulto, alle statistiche del Parlamento dove un terzo degli onorevoli cambia bandiera a giochi in corso (calpestando quindi il nobile mandato per cui sono stati messi lì) la mancanza di coerenza è sempre stata rinfacciata ai singoli candidati e raramente ai partiti che consentono questa pratica.
È vero che la responsabilità personale di chi, eletto per rappresentare qualcuno e qualcosa, sceglie di rappresentare qualcun altro e qualcosa altro dovrebbe bruciare sulle carni di chi si imbarca in certe scelte, ma è anche vero che se Caterina Chinnici, una che in politica ha sempre perso, passa con nonchalance dal Pd a Forza Italia qualche problema nel sistema dei partiti c’è.

Ci siamo impantanati da tempo, da troppo tempo, nella pesatura delle vacche ergo nel bagaglio di voti che un tale porta con sé. E abbiamo perso di vista la scrematura delle idee, il censimento di quelli che un tempo si chiamavano valori: tipo, io ti voto perché mi piace il tuo concetto di welfare o la tua attitudine per i diritti umani, non perché mi riempi uno stadio con due post sui social o mi consenti di mettere i tavolini del bar in strada.
La selezione operata dalla politica non si fa sui cammelli e sui soldi per comprarli (o venderli), ma sul deserto da superare. L’emergenza climatica è anche sul fronte morale.     

L’asino (verificato) che vola

Avvertenza prima della lettura: gli esempi, spero abbastanza generici, riportati nelle righe che seguono sono solo un appiglio per il ragionamento. Non ci si fermi ad analizzarli e a farne spunti di polemica, quel che contano sono i concetti che cerco di portare alla vostra attenzione. Insomma fate conto che ho cucinato per voi un bel piatto di pasta: non state a interrogarvi sui mestoli che ho usato, ma dedicatevi alla pietanza.

Lo scenario è noto. Ogni giorno, soprattutto per veicolo dei social e purtroppo anche dei giornali che dai social attingono in modo sempre più scriteriato, una pietrina diventa valanga a insaputa della montagna (e spesso anche della pietrina). I nuovi scandali fanno perno su un cambio di stato su FB o su una storia di Instagram. Persino una foto profilo cambiata, chessò, da gabbiano a beccaccia fa tremare i polsi a un’opinione pubblica polpastrellocentrica. Un’occhiata di troppo alla ragazza che passa davanti alla fermata del bus, ripresa su TikTok dà la stura all’indignazione collettiva di un popolo che, se solo lo conoscesse, metterebbe al rogo il Bufalo Bill di Francesco De Gregori che “giocava a ramino e fischiava alle donne”: ludopatia e catcalling in un colpo solo, l’ergastolo come minimo.
Un tale viene assolto perché non ci sono prove che abbia rivolto offese pubbliche a un altro e scoppia la rivoluzione perché la soluzione non è quella che ci si aspettava: per crocifiggere servono solo chiodi e legno, mica ci si può amminchiare con il garantismo.
Un ristorante o una pizzeria o una bettola con cucina denunciano a mezzo social l’odiosa reazione di un anonimo cliente verso un collaboratore che ha un colore della pelle diverso da quello del paese in cui si trova, e a nessuno viene in mente che, come tristemente dimostrato, l’intolleranza è una piaga di questo Paese anche perché ogni tanto qualcuno cerca di farla diventare business.

Se hai dubbi e, peggio, li manifesti sei fascista.
Sei li hai ma non li manifesti sei un gattopardiano del web.
Sei non li hai sei Matteo Salvini.

Il succo è che alla sovrabbondanza di denunce, di merce esposta in bacheche di cui non siamo manco proprietari ma che portano l’insegna e la responsabilità nostre, non corrisponde un’affezione alla verifica, al controllo di qualità. L’asino che vola non lo ha inventato Zuckerberg, tutt’al più gli ha dato un account verificato.

I primi responsabili siamo noi giornalisti.
I secondi responsabili siamo noi cittadini.

Dio, patria e ‘staminchia

La bocciatura per ispirazione governativa del giorno di chiusura per Ramadan della scuola di Pioltello è il più fulgido esempio di pericolosità sociale del pregiudizio.
Non sono un esperto, ma leggendo qualche giornale, mi sono fatto un’idea di questo tipo (se qualcuno di voi ha da correggermi sulle questioni tecniche lo faccia pure): il Consiglio d’Istituto aveva deciso di sospendere le lezioni il 10 aprile, giorno della fine del Ramadan, in virtù dei tre giorni discrezionali di vacanza che si aggiungono a quelli canonici stabiliti dall’Ufficio scolastico regionale; la scelta era stata votata all’unanimità dai docenti presenti e accolta all’unanimità dal Consiglio di istituto e soprattutto non era una cosa che si erano tirati fuori dal cilindro ma era frutto di una considerazione elementare dato che la  scuola “Iqbal Masih” ha un’utenza multiculturale con predominanza araba e pakistana e con una percentuale di bambini di religione islamica del 40 per cento.
Non ci vuole una scienza per capire che una scuola in cui bambini di varie etnie si confrontano, crescono insieme, imparano a evitare le cazzate di noi adulti che ancora stiamo attenti al colore della pelle o al dio invocato più o meno forzatamente prima dei pasti, dovrebbe essere salvaguardata, valorizzata, protetta: della serie un giorno si celebra il mio dio, un altro il tuo, un altro ancora studiamo insieme e un altro ancora facciamo vacanza insieme. Comunque insieme, perché il mio dio e il tuo sono, nel migliore dei casi, compagni di banco.
Invece accade che in Italia questa scuola diventa il bersaglio della peggiore visione antisociale e antistorica, quella che non guarda al futuro, cercando di aggrapparsi a un passato che è irrimediabilmente defunto. Loro chiamano tutto ciò tradizione, il resto del mondo, quello senziente, lo chiama immondizia.
Perché è immondizia culturale quella che non vede nelle diversità una vera occasione di crescita: anche sul fronte economico, il bastione dei nazionalisti che ci tritano i coglioni con fandonie tipo “gli immigrati ci rubano il lavoro”. Basta informarsi e leggere i rapporti statistici e i report di chi misura le cose con il metro della scienza che da anni confermano che senza gli immigrati regolari non avremmo crescita demografica, faremmo i conti con decine di miliardi in meno di contribuzione e saremmo condannati a essere un paese di pensionati che stanno a guardare cantieri stradali dove nessuno lavora.  

C’è infine un aspetto non secondario. Diffondere benessere, spalmare attenzioni sul mondo che ci circonda è il migliore investimento per il futuro che una nazione possa fare per i suoi figli rivedendo il concetto propagandistico di “dio, patria e famiglia”, assimilabile a un (tristemente) più realistico “dio, patria e ‘staminchia”. Quando invece una via chiara, luminosa e attuale esiste.
Dio, un dio che comunque lo si chiami sia una guida di tolleranza e carità.
Patria, che sia di tutti quelli che la abitano, la vivono e la onorano con il lavoro e la cura per l’altro.
Famiglia, che sia quella in cui l’unico vincolo è l’amore, e il resto non conta perché il mondo cambia e chi non cambia sta fuori dal mondo.

Una scuola come quella di Pioltello che insegna ai suoi ragazzi che ci sono feste, celebrazioni, ricorrenze che fanno parte di varie culture e che per questo sono belle anche da osservare (la meraviglia negli occhi di un bambino è la scintilla dell’intelligenza), fa il suo mestiere nel migliore dei modi. Che è quello, come cantava Eugenio Finardi, di “insegnare a imparare”.

P.S.
Ora che siete arrivati sin qui prendetevi altri tre minuti e ascoltatevela, questa canzone che pare scritta oggi, ma è del 1977.

Schettino e il naufragio dell’informazione

Il caso della gaffe di Televideo su “Io capitano” associato alla storia di Schettino e del naufragio della Concordia rimanda a due considerazioni, che vi porgo in modo spero agile (perché il discorso potrebbe essere complesso).

La prima riguarda il disagio dei giornalisti come categoria in un Paese (verrebbe da dire in un mondo, ma restiamo circoscritti) che legge sempre meno e che, soprattutto, è sempre meno interessato alla qualità della lettura. E lettori pessimi si accontentano di giornali pessimi. Lo dimostra il fatto che esistono ottimi prodotti editoriali che nessuno compra, perché si preferisce la spazzatura gratuita dei social o di bassa lega.
Le redazioni sono svuotate per motivi economici, il lavoro che veniva fatto da dieci persone è oggi fatto da due, il che alimenta l’offerta di informazione scadente. In più ci si mette l’uso folle dell’intelligenza artificiale, che pare aver un ruolo nell’incidente di Televideo.

La seconda considerazione è figlia della prima. Nei giornali che vogliono essere troppo nuovi le decisioni editoriali sono guidate da statistiche che, analizzando ciò che genera più traffico, decretano la morte dell’idea originale, del guizzo, della bracciata controcorrente. In un loop paradossale (di cui stiamo già pagando le conseguenze) gli algoritmi non riflettono solo le tendenze, ma addirittura le creano incrementando la popolarità di temi già popolari e determinando una polarizzazione dei lettori che non riflette gli equilibri reali. Insomma – come scrissi qui qualche tempo fa – se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali.
La verità è una sola: il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. Se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale. Morale storta: cercando di essere più grandi, si rischia di diventare più piccoli.
Il bello, o meglio il brutto, è che colpevolmente quasi nessuno nelle aziende editoriali italiane (e non) è mai stato colpito dall’idea che bisogna cambiare radicalmente il modo di lavorare, di scegliere le notizie, persino di reclutare giornalisti. Ma questo è un problema di conoscenza e di coraggio. E il coraggio viene dopo.

Come Keith Jarret

Ieri.
In una sera d’estate di quasi trentasei anni fa Keith Jarrett aveva cominciato a suonare (male) al Teatro di Verdura di Palermo quando uno spettatore lo fischiò. Il famoso pianista mollò tutto e minacciò di far saltare l’esibizione. Lo spettatore fu identificato e additato come un molestatore di arte pubblica. Mentre rischiava di essere ammanettato disse: “Amo troppo Jarret per sentirlo suonare così male”. Difesi pubblicamente quello spettatore, lui e il suo diritto di protesta. Perché non c’è contratto di consenso tra un artista e il pubblico pagante e perché, secondo me, nel merito aveva ragione.

Oggi.
Rientravo a piedi da una serata tra amici (fantastici, perché tutti loro rincasano allegramente a piedi come me e alla fine l’unico inquinamento prodotto da una simile adunata è quello acustico, per certe risate al di sopra di un’eventuale ordinanza). Lungo il tragitto ho incontrato un posto di blocco della polizia, in una zona dove spesso si posizionano le pattuglie per controlli.
Qualcosa ha attirato la mia attenzione. Ed era qualcosa di recondito.
La pattuglia aveva fermato una ragazza.

Reset.
Quante volte ho visto ragazze fermate a un posto di blocco?

Mi sono fermato, nel buio del marciapiede tipo maniaco dei giardinetti, senza l’impermeabile che cela nudità però.
E ho capito cosa c’era di recondito in questa mia esperienza.
Negli anni ho visto troppe ragazze e signore fermate ai posti di blocco. Infatti solo ieri sera, nel giro di pochi minuti, un’altra auto è stata fermata. E chi c’era alla guida?
Ora, io capisco che ci sono i controlli a campione, ma ‘sto campione lo vogliamo verificare, benedetto dio?

Non sono uno che sbava per certi estremismi moderni, per cui se non chiami avvocata un avvocato donna ti devono venire a prendere i carabinieri (anzi le carabiniere). Sono uno che se pensa alla schwa nella lingua italiana gli passa la fame di scrivere (che non è detto che sia un male per l’umanità, ma per me sicuramente lo è). Sono anche uno al quale piace la magia della contrapposizione maschio femmina, con le sue derivazioni maschio maschio, femmina femmina o quel che è, ognuno per i suoi gusti. Perché è fecondità mentale, curiosità, gioia, vita.
Però quest’immagine serenamente tollerata di posti di blocco pieni di femmine presunte sospette controllate da maschi presunti integerrimi, mi insospettisce.
Anzi, da cittadino dico che non mi piace affatto.

Sarebbe bene dare una sbirciatina a campione negli elenchi delle persone controllate ogni sera nelle nostre città, sempre che questi passaggi di “favorisca i documenti” siano documentati. Perché le nostre forze dell’ordine sono garanti, da me ammirate, di forza gentile, e di ordine indiscusso anche se talvolta la mia fede vacilla. Fugare un sospetto quando si parla di cose così delicate è un sollievo o un miraggio, a seconda del gradi di ottimismo. Comunque fa bene a quell’anima comune e desueta che un tempo chiamavamo società.
Insomma come allora al Teatro di Verdura, oggi scrivo da fan e difendo chi fischia se sul palco si stecca.
Amo troppo le nostre forze dell’ordine per vederle cadere in fallo.
Le amo come Keith Jarrett.