La forza dei dubbi

Sin da quando ero bambino… anzi no… sin da quando eravamo bambini tendiamo a lasciarci affascinare dal mondo che per noi è ontologicamente complicato. Io ad esempio ero affascinato dalle radioline che negli anni settanta si usavano moltissimo, quasi come gli smartphone di oggi: si portavano dappertutto, in ufficio, in macchina (non tutti avevano le autoradio anche se l’impianto elettrico disturbava la ricezione), allo stadio. Per capire meglio come funzionava una radiolina la smontavo pezzo per pezzo, insomma la sfasciavo. Ed era un bel paradosso, un paradosso che ha a che fare con molte situazioni che avrei vissuto da grande: certi sentimenti di afflato, amore, passione, curiosità, si attagliano in qualche modo perverso alla distruzione.

Insomma sin da quando ero bambino – sin da quando eravamo bambini – la tendenza era quella della semplificazione: ridurre una macchina complessa a un insieme di viti, di ingranaggi, di fili per decrittarne il funzionamento, per carpirne (o rubarne) l’anima.

È il segreto della vita. Per entrarci – nel segreto e nella vita – bisogna farsi largo attraverso singole serrature e le chiavi le otteniamo studiando, affinando i nostri sensi, alimentando la curiosità: ma è solo il primo passo.

Piano piano, andando avanti ci siamo resi conto che quello della semplificazione non era l’elisir di lunga vita. Persino l’avvento della tecnologia ha contribuito ad alimentare l’illusione. Un mondo infinito ridotto a un codice binario, ma com’è stato possibile crederci! Come la mela primordiale: la mangi o no, on off, maschio femmina, vita morte, albero serpente. Il peccato originale è vegetariano, ahimè.
Abituati a schematizzare al ribasso ci siamo incartati nelle questioni complicate. Prendete la mafia. Ci hanno preso per i capelli e ci hanno sbattuto la verità, anzi la “verità”, in faccia: o con loro, o con noi.
Giusto, però anche in questo caso abbiamo pensato che gli scenari fossero semplici. Bianco o nero, non ci si può sbagliare, facilissimo. Lo confesso. Questo pensiero l’ho maturato in tarda età, quando ho cominciato a scrivere di mafia per il teatro. Il teatro vive di codici, l’arte matura tra gli opposti. Però la narrazione per come ci era stata tramandata era in bianco e nero, cioè non teneva conto delle infinite tonalità intermedie tra un opposto all’altro.
Era semplice e semplificata. E non teneva conto del colore più pericoloso e infido: il grigio.

Oggi, davanti a guerre inaudite, perché moderne e medioevali al tempo stesso, credo che si debba prendere atto che questa narrazione non funziona più.
Serve attribuire la giusta complessità alle cose, senza tuttavia cadere nella trappola del suo eccesso, il complessismo.
Serve una maggiorazione delle quote di pluralismo nei nostri consessi sociali, nelle nostri luoghi della politica, nei nostri luoghi della cultura (molto soffocati dalla paura della complessità che non sia meramente artistica, esecutiva).
Non può esserci un dibattito su Hamas, Gaza e Israele senza una base di difficoltà condivisa, chiara, esplicita, dichiarata.

Io non so, non capisco… Quindi se sono, tipo, Zerocalcare spiego perché diffido di Lucca Comics però non mi astengo, magari vengo solo per raccontare i miei dubbi e raccogliere i vostri.

Non ne sono certo, non sono certo di nulla (tranne delle mie papille gustative che mi fanno giudicare un cibo o un vino in modo per me incontrovertibile).
Il tramonto della semplificazione come salvagente allunga le ombre dell’incoerenza: possiamo cambiare idea, forse dobbiamo, perché i tempi ci impongono di farlo. I nuovi barbari non vengono da un Paese diverso, ma si sono armati nell’appartamento sopra il nostro. Il vero diverso non ha sesso e colore che non sono i nostri, ma un minore rispetto della vita, sua innanzitutto.  
Dovremmo rivedere i nostri riti, le nostre certezze domenicali, i nostri privilegi da tinello.
Prima di discutere dobbiamo imparare a recitare una preghiera laica che ci imponga di scambiarci i dubbi. Come segno di pace.

Inquieti e infelicemente felici

C’è una cosa contro cui combatto ogni giorno che il Signore manda in terra. E cioè l’assioma che anche senza inquietudine si può fare romanzo: ergo che non è vero che belli tranquilli e sereni non si crea un tubo. Una verità anti-storica. Si vada a rileggere i grandi, a studiare le biografie di artisti, scienziati, filosofi eccetera. Dal comodo della nostra scrivania, con coniugi e conti in banca sorridenti, senza alcol, piccoli vizi, riti trasversali o additivi emozionali (come i sentimenti), in linea col politicamente sterilizzato nessuno potrà mai partorire un’idea degna di attenzione al di sopra della cintola dei social.
Ok, tutto normale sin qui.

Il problema è quando – ed è fenomeno abbastanza recente – tutta la narrazione* che parte dalla cronaca e che inesorabilmente lambisce la storia (anche minima) risente di questo mood.
E allora nel mondo dell’informazione si programma in modo tranquillizzante, si racconta col più rassegnato dei cronisti, si ravana negli account Facebook dei protagonisti e delle comparse, si recluta il passante per farne il testimone ideale di qualcosa di eterno (di Zapruder ce n’è uno solo).

Il concetto fondamentale, drammaticamente dirimente, che non deve passare è che le cose belle si fanno sempre canticchiando, che la creatività sia una autostrada tipo la Palermo-Catania, gratuita e senza responsabilità.
Non è così.
Anzi: non – è – così!
I romanzi, veri e metaforici (ognuno di noi ha il suo anche se non è di carta e di parole), sono atti di coscienza. Sono prese di responsabilità in cui uno si alza e dinanzi a una folla distratta ha l’ardire di battere un pugno sul tavolo e gridare: volete ascoltare una storia che non è vostra ma che potrebbe esserlo?
E se sarà fortunato – se lo sarà – qualcuno metterà da parte il telefono, chiederà un altro bicchiere di vino, si metterà comodo, magari abbraccerà la persona che gli sta a fianco. E dirà: dai, racconta.
E sarà un giorno per cui quelli come me, come noi, saranno felici di essere quello che sono. Inquieti e felici. 

*narrazione è parola irritante lo so, ma in questo caso non me ne viene una migliore.      

Tra giudizio e godimento

Se dovessi stilare una classifica dell’imbarazzo, oggi ora subito, metterei al primo posto quella del giudicare. Che detta così sembra una prudenza di facciata, una dichiarazione ecumenica. Invece no, è una sensazione molto attuale, abbastanza imbarazzante e poco condivisa.

Probabilmente si tratta di una conseguenza del periodo di scioccante incertezza nel quale ci troviamo, figlio di un periodo in cui l’incertezza era addirittura tragica. O magari è un semplice rigurgito prudenziale: la prudenza, se si accumulasse, sarebbe la mia risorsa segreta dato che poco o mai l’ho usata. O ancora mi trovo dinanzi a un fisiologico reflusso di disillusione: si cresce a strappi, e negli strappi si perde sempre qualcosa che ha a che fare con la fiducia.
Fatto sta che soffro sempre più quando sono costretto ad arrivare a conclusioni che non siano spontanee, quindi a comando: (anche) per questo scrivo meno sui giornali e più qui.
Il vero rimedio a questo imbarazzo lo trovo rifugiandomi nelle opere dell’ingegno altrui, nelle opere d’arte a qualsiasi livello (dobbiamo smetterla con questa menata dell’arte di serie A e di serie B).
Un’opera d’arte, che sia teatro o musica, cinema o pittura, può lasciarci sospesi in uno spazio di contemplazione di una realtà sociale senza costringerci ad arrivare a una conclusione. A differenza di un’ordinaria chiamata all’azione ci può consentire di goderci tutto il tempo che vogliamo prima del “quindi” finale. Probabilmente tutto ciò è conseguenza della polarizzazione dei nostri rapporti, polarizzazione incrementata dagli algoritmi e dalle politiche estremiste egemoni in questo momento storico. E mentre scrivo queste righe mi rendo conto che il mio imbarazzo in fondo ha figliato negli anni opere che pur aggrappandosi alla cronaca se ne sono discostate nel giudizio, consegnando lo spettatore a quella che più volte ho descritto come la verità del dubbio.

Insomma l’arte può rappresentare una landa di pensiero, magari strano e indeterminato, in cui per una volta le antiteticità si placano. In cui per una volta gli ultras di chi ha torto e di chi ha ragione si mescolano senza doversi costringere al gioco umiliante della resa dei conti.
Mettiamola così: godere per capire e viceversa.     

Purismi

Lavorando in un teatro d’opera, scrivendo per mestiere e invecchiando con allegra libertà sono sempre alle prese con le esigenze (altrui) di purismo. Avvertenza per il lettore: il concetto di purismo che qui affronto non ha nulla a che fare con lo storico movimento che tende(va) “a considerare la tradizione linguistica nazionale come qualcosa che deve essere mantenuto incontaminato da influenze lessicali, sintattiche, morfologiche e fonetiche straniere non solo per ragioni funzionali ma anche per ragioni affettive”. Il “mio” purismo ha più a che fare con una stretta osservanza della tradizione, con l’inchino nei confronti di ciò che è classico: diciamo che è qualcosa che sta sull’altra sponda rispetto all’innovazione; non distante, ma di fronte.
Questo tipo di atteggiamento conservatore non va deprecato, è legittimo e ha una sua utilità: i custodi dell’ortodossia servono sempre, sono depositari di una quota di memoria che non va usata come catalizzatore di nostalgie, bensì come perno sul quale far girare nuove idee.
In particolare mi interessa qui ribadire un antico concetto sulla modernità (e ci scappò l’ossimoro): il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.

Negli ultimi mesi ho avuto a che fare con giovani e giovanissimi in università e scuole. Ho incontrato ragazzi in gamba e meno in gamba, autentici gioielli e figure opache. Ma tutti mi hanno scioccato su una cosa: non conoscono i giornali. Alla domanda “dimmi i nomi di almeno due giornali siciliani” praticamente nessuno di loro è stato in grado di darmi una risposta esaustiva.
Se avessi seguito la mia logica novecentesca avrei dovuto indignarmi, ma siccome occuparsi di futuro significa sforzarsi di galleggiarci dentro, ho tirato un sospiro e ho realizzato che quella è la loro ortodossia, è il principio della loro nuova memoria. I giornali sui quali siamo cresciuti, su quali ci siamo accapigliati non esistono più. Esistono altri prodotti, contaminati e un po’ emergenziali, che dovranno imparare a gestire uno dei beni più importanti per la crescita di una generazione: il sapere della cronaca.

Non voglio sbilanciarmi, ma credo che nelle aziende editoriali le idee non siano troppo chiare in tal senso. A ogni modo queste righe non servono per ispirare nuove fabbriche di news, ma per scavare sentieri per il nuovo pubblico: che sia giornale, teatro, cinema, libri, il sistema dell’apprendimento è un flusso che scorre tra due capi e se ne manca uno, non funziona un bel niente.
Il nuovo pubblico dobbiamo essere noi a plasmarlo, intercettando le sue inclinazioni ma mantenendo il nostro diritto a sperimentare. I successi di oggi non hanno nulla a che fare con quello che accadrà l’anno prossimo. La logica di un aureo mantenimento, come un salvagente per non annegare, è proprio quella perdente. Se c’è un momento in cui bisogna rischiare, credo che sia questo: sparigliando, scommettendo.
Il purismo crede di essere un baluardo della preservazione di un bene comune, mentre rischia di esserne il killer più spietato.

Serve coraggio per imbastire nuovi programmi che guardino a dopodomani, programmi che magari non ci risultino pienamente compiuti ma che ci creino suggestioni: il futuro inizia sempre con una sensazione vaga.
Serve la saggezza di dire “io questa cosa non la so fare quindi mi rivolgo a chi la sa fare”.
Serve soprattutto finirla di essere isole senza traghetto e cominciare a ordire trame a lungo termine, tutti insieme, senza preclusioni. E questo è il più difficile dei banchi di prova di chi amministra, di chi governa, di chi decide e sceglie con chi decidere.

Se ci fosse un partito per la cultura del sano stupore lo voterei immediatamente.  

Cercare il passo giusto

La nuova “Netflix della cultura” di cui parlavamo ieri è lo spunto per affrontare un  ragionamento che parte dalla cultura e arriva a ben altro.

Il tema è il futuro, o meglio la rivoluzione obbligata del futuro.

Sappiamo tutti, anche chi non è interessato a ragionamenti complicati, che il mondo del post pandemia sarà un mondo diverso da quello che abbiamo lasciato, freschi e pettinati, un anno e passa fa. Ci eravamo illusi che sarebbero bastati una cantatina sui balconi, una spruzzata di ottimismo tarocco (“ne usciremo migliori”) e qualche etto di lievito di birra a darci lo speed giusto per ripartire. Invece lo scenario che ci si prospetta è molto complicato. O forse no, complicato è già una semplificazione.

Lo scenario è diverso, totalmente diverso.

Prendendo spunto dal declino di quella che Alessandro Baricco chiama intelligenza novecentesca, c’è una rivoluzione che va affrontata con una certa urgenza. Che è quella, radicale, di come inquadrare le cose, di come adattarsi alle nuove forme del sapere, di come narrare e ascoltare, di come allinearsi con la storia e col progresso.
Fino a oggi l’unico concetto di modernità o di modernizzazione è stato legato alle forme e ai mezzi di comunicazione, di socialità. Il simbolo della modernità è lo smartphone, un tempo era il computer. I social contengono l’alfabeto di un linguaggio che però tramanda sempre gli stessi concetti analogici: perché il pesce fritto lo puoi avvolgere nella carta d’oro in foglia, ma sempre pesce fritto rimarrà.
Ecco, il primo fondamentale passo verso la nostra rivoluzione obbligata non riguarda più le forme o i mezzi, ma i contenuti.
E, badate bene, non parlo di narrazione artistica. Ma ad esempio di politica, di questioni sociali. I nuovi scenari impongono una diversa confidenza col tempo che scorre. Del resto, per dirla in gergo social, le timeline non si fermano mai, a meno che il social non sia down o la vostra connessione non sia a picco, neanche quando il vostro pensiero si prende una pausa.

Il concetto di tempo è interessante da scardinare. L’inizio e la fine di un determinato evento nel mondo com’era prima, rappresentavano l’essenza dell’evento stesso. C’era un prima, un durante e un dopo. Il futuro probabilmente ci chiede di ripensare questa scansione rigida e di dare all’evento una durata non definita, facendolo vivere ad esempio di molte vite (non tutte sue). Come? Con la valorizzazione di ciò che ha portato a quel momento, la semina di nuovi momenti che da quell’evento devono scaturire e la moltiplicazione dei risultati. Uno spettacolo prima viveva due ore, domani potrà vivere all’infinito se gli si danno le giuste ramificazioni logiche: in termini di ispirazione, di investimento in quote di sapere, di tecnologia o altro, a seconda del contesto.

Inevitabilmente ci sono due categorie che diventano cruciali in questa transizione verso il nuovo sentire: gli artisti e gli insegnanti.

L’arte e la scuola possono essere palestre di ginnastica intellettiva, anzi devono esserlo. Sono gli ambiti ideali in cui cose molto moderne possono venire fuori da persone abbastanza antiche. L’intelligenza flessibile, quella che non s’inchina dinanzi alle teste coronate del pensiero iper-specializzato, ha bisogno di spazi su cui crescere: libri, teatro, musica, cinema, pittura, fotografia, e tutto ciò che proviene da quel mix prezioso che è studio e fantasia, sapere e creatività. E in tal senso si dovrà scolpire nella pietra il ruolo principale della scuola: contribuire allo sviluppo di un senso critico che sia traghetto tra le isole delle nozioni.
Insomma la nostra rivoluzione obbligata ha negli insegnanti e negli artisti i loro condottieri. E la politica? E l’informazione?
Ne parleremo domani nell’ultima puntata.

2 – continua

Prima puntata.
Terza e ultima puntata.

Le cazzate sono una cosa seria

Torno su un tema che ho affrontato sinteticamente su Facebook qualche giorno fa perché l’argomento mi piace e mi sta anche a cuore. Dovrebbe interessare tutti dato che l’errore è patrimonio comune dell’umanità. Quindi dinanzi a una tale, eterna (Adamo, la mela e tutti i casini conseguenti) diffusione, l’unica certezza è quella sull’errore più grave: quello di non saper sbagliare da soli.
Senza gli errori non esisterebbero il progresso, la scienza, le arti. Chi ci avrebbe messo Dante nei suoi gironi? Quale teoria avrebbe confutato Copernico? Perché mai Agatha Christie avrebbe dovuto far ammazzare Ratchett/Cassetti nel suo memorabile Assassinio sull’Orient Espress? E via discorrendo, divertitevi a trovare un solo libro, un solo film che non abbia l’errore come protagonista.
Diceva Gianni Rodari: “Gli errori sono necessari, utili come il pane e spesso anche belli: per esempio, la torre di Pisa”. E usava un ottimismo surreale perché in realtà la prima reazione della vittima dell’errore non è certo l’ammirato stupore, ma l’incazzatura con quel che ne consegue.
Personalmente sono un professionista dello sbaglio – ci scrissi su una storia che non ho mai avuto il coraggio di pubblicare – e so che certa compulsività nel premere il tasto errato mi proviene dal mio unico e inseparabile compagno di avventure, il DOC. Per questo ho imparato, anzi sto ancora imparando a sbagliare meglio. Perché, come ripeto sempre ai miei amici, le cazzate sono una cosa seria e come tale richiedono attenzione. Il tasso di noia o quello di divertimento che viene fuori dagli errori dipende esclusivamente dalle intenzioni. Più l’errore è pianificato minore rischia di essere l’inconfessabile vantaggio dello spasso per chi lo commette. Più è breve, istantaneo, più godrà del sospiro della leggerezza calviniana. Più è grave, maggiore è l’importanza della lezione ma anche la pena da scontare.
Insomma l’errore è vita e morte, è buio e arte, può profumare di lenzuola fresche ma anche puzzare di merda. Come nella matematica non sono i numeri l’essenza della scienza ma la loro relazione, così nell’infinito campo degli errori non sono gli sbagli stessi la misura del tutto, ma le loro conseguenze. Lo stesso errore spostato due centimetri più in là diventa un’altra cosa.
Ecco perché, secondo me, bisogna disperatamente cercare di saper sbagliare da soli. Perché c’è un handicap e c’è un vantaggio: non avrai nessuno su cui scaricare la colpa, ma non ti sorprenderai la mattina dopo a guardarti allo specchio quando, lavati faccia e denti, dovrai metterti al lavoro per crescere.

L’artista non è folle

Vorrei essere drastico: la follia non agisce in alcun modo nel processo creativo. Lo dico chiaro e tondo perché circolano ancora molti stereotipi sull’accoppiata “genio e sregolatezza”. Si dà per scontato che la sregolatezza sia il carburante del genio. Ebbene: non è così.

Condivido.

Dal forum di Roberto Alajmo.

Io, pittore in una città che non mi vuole

"Cappuccino italiano sulla rambla", illustrazione di Gianni Allegra
"Cappuccino italiano sulla rambla", illustrazione di Gianni Allegra

di Gianni Allegra

Sapevo che avrei fatto il disegnatore di fumetti già da piccolo. Ma il primo devastante colpo ai miei sogni di gloria lo sferrò un bambino più grande di me di un anno. Lui praticamente era un pre-adolescente, io un pre-pre-adolescente. Portava il mio stesso nome ed essendo brutto come la morte, magro, ma di una magrezza malaticcia e con la forfora che lo faceva somigliare a un cucuzzolo innevato, lo odiavo ferocemente. Ma in silenzio. Era manesco, quel sacco d’ossa incatenate e con la cute in perpetua desquamazione!
Gianni (lui) rise, anzi sghignazzò quando gli dissi che volevo fare il fumettista. Il suo teschio sembrava in preda a una crisi epilettica quando rideva e spruzzava saliva da quella voragine che probabilmente era la bocca. “I fumetti non si disegnano, si stampano!”.
Per un paio d’anni rimasi paralizzato di fronte alla consapevolezza crudele alla quale ero stato richiamato da quel dracula in sedicesimo, e cominciai a considerare seriamente l’ipotesi di fare il piccolo travet, come spesso mio padre lasciava intendere, visto che negli studi non ero brillante a causa di quella maledetta mania di scarabocchiare pupetti e soldatini e Capitan Miki e Grande Blek ovunque. Poi le cose andarono come sono andate, per fortuna.
Sapevo che avrei fatto il pittore quando ormai  non potevo anagraficamente più dirmi giovanissimo: a quarant’anni suonati. Il colore, passione coltivata a lungo e nell’inconscio più profondo, esplose furiosamente e io non potevo farci niente. Era una vendetta che veniva dall’abisso della mia anima: io da bambino non sapevo colorare. Disegnavo ed ero autisticamente attratto dal segno. Che fosse Bic blu macchiosa o pennino sopraffino, la cosa poco importava. Anzi, era la frugalità dei mezzi che mi rendeva eroico. Un eroe a metà: perché quel mostro teschiuto non riuscii ad assassinarlo mai.
Feci la prima mostra dopo cinque mesi scarsi di pittura furibonda, quando la mia cervicale non si lamentava così tanto. Non c’era posto per le mollezze del corpo stanco. Dovevo dipingere e basta. E dipingevo: pesci rossi volanti a tempera su cartoni telati. Una follia di cui ancora oggi non capisco il senso. Fu la Libreria del Mare, a Palermo, che mi battezzò “pittore”. Provai a togliere le virgolette da “pittore”, subito dopo. Il critico d’arte che vide i miei quadri si soffermò su un giallo che reputava pennellato male. “Perché non continui a disegnare fumetti?”. Avrei potuto rispondere che i fumetti si stampano e i critici vengono uccisi. Tacqui. Sono un pacifista, purtroppo.
Non ho cittadinanza nella veste di pittore a Palermo, per farla breve. Ho esposto in gallerie di Milano, Scicli, Siviglia, Londra. A Palermo solo in luoghi deputati ad altro. Questa volta devo l’ospitalità affettuosa ad una banca: Banca Etica (domani, alle 18). Il titolo della mia piccola personale è “Il Desiderio”. Nell’accezione freudiana: il desiderio che sollecita ogni gesto, la vitalità, l’eros. Stavolta, per favore, niente thanatos.

Dalla Russia con valore

tropinin-pushkinLa mia amica Mara mi scrive una e-mail: “Aeroporto di Ginevra. Mentre aspetto che arrivi mia madre entro ed esco dai negozi. In uno di questi, la commessa – avrà avuto più o meno la mia età – è al telefono e sta parlando in russo, lingua che, anche se non capisco, amo moltissimo. Mentre fingo di guardare la merce, la ascolto. Finita la telefonata, mi chiede in francese, con un incantevole accento, se ho bisogno di qualcosa. Io le dico che la sua lingua è bellissima e che mi scuso se le ho ascoltata ma che l’ho fatto perchè la sua lingua mi piace. Lei mi risponde che il suo è un russo autentico perchè lei è nata a Mosca e che parla la lingua di Puškin e di Dostoevskij.
Perché in certi paesi la letteratura, la musica e tutte le forme d’arte sono un fatto endemico quasi cromosomico e, se vogliamo, politico?”.

Sto ancora cercando una risposta. Se, per pietà, mi date qualche suggerimento…

Libri appassionanti

Acrilico su carta di Gianni Allegra (da "Il diario", 2006)
Acrilico su carta di Gianni Allegra (da "Il diario", 2006)

Ho appena finito di leggere “Uomini che odiano le donne” di Stieg Larsson e mi dispiace. Mi dispiace che il libro sia di sole 676 pagine, perché ne desideravo almeno altre cinquecento, tanto la storia è avvincente e ben costruita.
Sono sempre stato contrario all’uso di aggettivi quando si pronuncia (o si scrive, o addirittura si pensa) la parola arte. Alta, bassa, povera, colta, popolare e via modulando. Larsson, pur usando un linguaggio semplice che sembra esser stato studiato per i traduttori di mezzo mondo, costruisce un’opera di innegabile valore estetico che diverte e appassiona.
In un momento in cui, specialmente in Italia, abbondano i manifesti pseudo-idelogici imbottiti di cultura da Reader’s Digest (la cultura non celebra mai se stessa perché è la base di ogni celebrazione) è un piacere scoprire l’incanto di una vicenda narrata a meraviglia. Non so quanti di voi abbiano letto questo libro, però mi piacerebbe sapere se avete altri esempi da proporre. Libri che avete divorato, libri che vi dispiaceva abbandonare per colpa del sonno, libri di cui ricordate passi a memoria. Libri… mmmh, ci vorrebbe un aggettivo…  belli, ecco.

Aggiornamento. Rosa Maria Di Natale segnala quest’articolo, Giacomo Cacciatore invece propone di riflettere su questo.