Contrordine, la normalità è un valore

Ci sono parole che cambiano significato col tempo. E diversi studi pubblicati da un’autorità in questo campo, Mark Pagel, ci dicono che le parole cambiano soprattutto quando si usano poco.
Già molti anni fa Pagel dimostrò che le parole più usate, come i nomi dei numeri o i termini che esprimono concetti importanti e universali tipo mamma, sono rimaste pressoché invariate nel corso dei millenni in tutte le lingue indoeuropee, tanto da aver mantenuto perfino una somiglianza trasversale in lingue molto lontane tra loro.

Ad esempio, due si dice dos in spagnolo, deux in francese, two in inglese, dva in russo (tutte parole caratterizzate dai suoni d oppure t). Allo stesso modo i termini per indicare la mamma e i concetti collegati sono caratterizzati nella stragrande maggioranza delle lingue indoeuropee dal fonema m (madre in italiano, mother in inglese, mutter in tedesco, mère in francese, moeder in olandese, mat in russo).

Eppure c’è una parola in italiano che, negli ultimi anni, ha cambiato la sua valenza in modo incredibile. Pur essendo usata moltissimo.
Pensateci.
La parola è: normalità.

Noi ex ragazzi degli anni Settanta (ma penso anche a quelli degli anni Sessanta) siamo cresciuti con un’idea pressoché standard: la normalità nel migliore dei casi è un’omologazione dalle aspettative collettive. Quindi è una palla mortale: veleno per la fantasia, pialla delle ambizioni, roba da vecchi decrepiti insomma. E nemmeno: i vecchi che immaginavamo di diventare a quei tempi sarebbero stati i vendicatori di un concetto di normalità imposta per decreto generazionale. Il modello era Charles Bukowski: “Tante volte uno deve lottare così duramente per la vita che non ha tempo di viverla”. Alla faccia della serena rassegnazione.
Insomma vedevamo la normalità come nostra concorrente nella vita: vince chi arriva prima.
Invece le cose sono cambiate e questa parola ha cambiato pelle. C’è voluta una pandemia, c’è voluto un inaudito uragano di provvisorietà per stravolgere decenni di studi di Mark Pagel e un secolo di lotte generazionali.

Oggi la normalità è l’anelito del ribelle, che chiede di poter tornare a scorrazzare libero nella testa e nelle gambe. È l’uscita di sicurezza in una sala deserta dove siamo attori e spettatori al contempo. È il rifugio per distinguere la sensazione di essere soli al mondo dalla certezza di esserlo, pur restando circondati da persone.
Recuperare questi due anni di chiusura totale – anni che ne valgono cinque, come scrisse in questo bellissimo articolo Baricco – è impossibile. Il tempo è come il sonno, quello perso non si può mai recuperare, almeno sin quando si è vivi.
Però la normalità oggi ci appare come qualcosa di rivoluzionario.
Un tempo era la follia degli incapaci, oggi è la soluzione del grande enigma di una sopravvivenza, il trampolino del resistente, il primo capitolo di una nuova epica.
Libera, speriamo.   

Cercare il passo giusto

La nuova “Netflix della cultura” di cui parlavamo ieri è lo spunto per affrontare un  ragionamento che parte dalla cultura e arriva a ben altro.

Il tema è il futuro, o meglio la rivoluzione obbligata del futuro.

Sappiamo tutti, anche chi non è interessato a ragionamenti complicati, che il mondo del post pandemia sarà un mondo diverso da quello che abbiamo lasciato, freschi e pettinati, un anno e passa fa. Ci eravamo illusi che sarebbero bastati una cantatina sui balconi, una spruzzata di ottimismo tarocco (“ne usciremo migliori”) e qualche etto di lievito di birra a darci lo speed giusto per ripartire. Invece lo scenario che ci si prospetta è molto complicato. O forse no, complicato è già una semplificazione.

Lo scenario è diverso, totalmente diverso.

Prendendo spunto dal declino di quella che Alessandro Baricco chiama intelligenza novecentesca, c’è una rivoluzione che va affrontata con una certa urgenza. Che è quella, radicale, di come inquadrare le cose, di come adattarsi alle nuove forme del sapere, di come narrare e ascoltare, di come allinearsi con la storia e col progresso.
Fino a oggi l’unico concetto di modernità o di modernizzazione è stato legato alle forme e ai mezzi di comunicazione, di socialità. Il simbolo della modernità è lo smartphone, un tempo era il computer. I social contengono l’alfabeto di un linguaggio che però tramanda sempre gli stessi concetti analogici: perché il pesce fritto lo puoi avvolgere nella carta d’oro in foglia, ma sempre pesce fritto rimarrà.
Ecco, il primo fondamentale passo verso la nostra rivoluzione obbligata non riguarda più le forme o i mezzi, ma i contenuti.
E, badate bene, non parlo di narrazione artistica. Ma ad esempio di politica, di questioni sociali. I nuovi scenari impongono una diversa confidenza col tempo che scorre. Del resto, per dirla in gergo social, le timeline non si fermano mai, a meno che il social non sia down o la vostra connessione non sia a picco, neanche quando il vostro pensiero si prende una pausa.

Il concetto di tempo è interessante da scardinare. L’inizio e la fine di un determinato evento nel mondo com’era prima, rappresentavano l’essenza dell’evento stesso. C’era un prima, un durante e un dopo. Il futuro probabilmente ci chiede di ripensare questa scansione rigida e di dare all’evento una durata non definita, facendolo vivere ad esempio di molte vite (non tutte sue). Come? Con la valorizzazione di ciò che ha portato a quel momento, la semina di nuovi momenti che da quell’evento devono scaturire e la moltiplicazione dei risultati. Uno spettacolo prima viveva due ore, domani potrà vivere all’infinito se gli si danno le giuste ramificazioni logiche: in termini di ispirazione, di investimento in quote di sapere, di tecnologia o altro, a seconda del contesto.

Inevitabilmente ci sono due categorie che diventano cruciali in questa transizione verso il nuovo sentire: gli artisti e gli insegnanti.

L’arte e la scuola possono essere palestre di ginnastica intellettiva, anzi devono esserlo. Sono gli ambiti ideali in cui cose molto moderne possono venire fuori da persone abbastanza antiche. L’intelligenza flessibile, quella che non s’inchina dinanzi alle teste coronate del pensiero iper-specializzato, ha bisogno di spazi su cui crescere: libri, teatro, musica, cinema, pittura, fotografia, e tutto ciò che proviene da quel mix prezioso che è studio e fantasia, sapere e creatività. E in tal senso si dovrà scolpire nella pietra il ruolo principale della scuola: contribuire allo sviluppo di un senso critico che sia traghetto tra le isole delle nozioni.
Insomma la nostra rivoluzione obbligata ha negli insegnanti e negli artisti i loro condottieri. E la politica? E l’informazione?
Ne parleremo domani nell’ultima puntata.

2 – continua

Prima puntata.
Terza e ultima puntata.

I barbari

Io che non amo Alessandro Baricco, vi invito a leggere un suo classico: “I barbari, saggio sulla mutazione”. C’è scritto, nero su bianco, come e perché la civiltà dell’era berlusconiana è diversa da quella che c’era prima. Come e perché nel nome del movimento perenne, che è un modo barbarico di ingannare il pensiero proprio e altrui, si perde l’anima. Come e perché  non esiste più la noia, che fa parte dell’esperienza così come il riposo fa parte dell’esercizio fisico. Come e perché il vino, il calcio e i libri sono importanti per capire il nostro grado di colonizzazione. Per non parlare di Google e di internet…