La forza dei dubbi

Sin da quando ero bambino… anzi no… sin da quando eravamo bambini tendiamo a lasciarci affascinare dal mondo che per noi è ontologicamente complicato. Io ad esempio ero affascinato dalle radioline che negli anni settanta si usavano moltissimo, quasi come gli smartphone di oggi: si portavano dappertutto, in ufficio, in macchina (non tutti avevano le autoradio anche se l’impianto elettrico disturbava la ricezione), allo stadio. Per capire meglio come funzionava una radiolina la smontavo pezzo per pezzo, insomma la sfasciavo. Ed era un bel paradosso, un paradosso che ha a che fare con molte situazioni che avrei vissuto da grande: certi sentimenti di afflato, amore, passione, curiosità, si attagliano in qualche modo perverso alla distruzione.

Insomma sin da quando ero bambino – sin da quando eravamo bambini – la tendenza era quella della semplificazione: ridurre una macchina complessa a un insieme di viti, di ingranaggi, di fili per decrittarne il funzionamento, per carpirne (o rubarne) l’anima.

È il segreto della vita. Per entrarci – nel segreto e nella vita – bisogna farsi largo attraverso singole serrature e le chiavi le otteniamo studiando, affinando i nostri sensi, alimentando la curiosità: ma è solo il primo passo.

Piano piano, andando avanti ci siamo resi conto che quello della semplificazione non era l’elisir di lunga vita. Persino l’avvento della tecnologia ha contribuito ad alimentare l’illusione. Un mondo infinito ridotto a un codice binario, ma com’è stato possibile crederci! Come la mela primordiale: la mangi o no, on off, maschio femmina, vita morte, albero serpente. Il peccato originale è vegetariano, ahimè.
Abituati a schematizzare al ribasso ci siamo incartati nelle questioni complicate. Prendete la mafia. Ci hanno preso per i capelli e ci hanno sbattuto la verità, anzi la “verità”, in faccia: o con loro, o con noi.
Giusto, però anche in questo caso abbiamo pensato che gli scenari fossero semplici. Bianco o nero, non ci si può sbagliare, facilissimo. Lo confesso. Questo pensiero l’ho maturato in tarda età, quando ho cominciato a scrivere di mafia per il teatro. Il teatro vive di codici, l’arte matura tra gli opposti. Però la narrazione per come ci era stata tramandata era in bianco e nero, cioè non teneva conto delle infinite tonalità intermedie tra un opposto all’altro.
Era semplice e semplificata. E non teneva conto del colore più pericoloso e infido: il grigio.

Oggi, davanti a guerre inaudite, perché moderne e medioevali al tempo stesso, credo che si debba prendere atto che questa narrazione non funziona più.
Serve attribuire la giusta complessità alle cose, senza tuttavia cadere nella trappola del suo eccesso, il complessismo.
Serve una maggiorazione delle quote di pluralismo nei nostri consessi sociali, nelle nostri luoghi della politica, nei nostri luoghi della cultura (molto soffocati dalla paura della complessità che non sia meramente artistica, esecutiva).
Non può esserci un dibattito su Hamas, Gaza e Israele senza una base di difficoltà condivisa, chiara, esplicita, dichiarata.

Io non so, non capisco… Quindi se sono, tipo, Zerocalcare spiego perché diffido di Lucca Comics però non mi astengo, magari vengo solo per raccontare i miei dubbi e raccogliere i vostri.

Non ne sono certo, non sono certo di nulla (tranne delle mie papille gustative che mi fanno giudicare un cibo o un vino in modo per me incontrovertibile).
Il tramonto della semplificazione come salvagente allunga le ombre dell’incoerenza: possiamo cambiare idea, forse dobbiamo, perché i tempi ci impongono di farlo. I nuovi barbari non vengono da un Paese diverso, ma si sono armati nell’appartamento sopra il nostro. Il vero diverso non ha sesso e colore che non sono i nostri, ma un minore rispetto della vita, sua innanzitutto.  
Dovremmo rivedere i nostri riti, le nostre certezze domenicali, i nostri privilegi da tinello.
Prima di discutere dobbiamo imparare a recitare una preghiera laica che ci imponga di scambiarci i dubbi. Come segno di pace.

Le bombe e i bambini

Illustrazione di Gianni Allegra

I tempi cambiano. E ultimamente sembra che cambino più in fretta. Tralascio le mode (di cui non capisco niente), l’economia (di cui capisco, se possibile, ancora meno) e le tendenze (nelle quali c’è poco da capire).
Politica.
Frequento molti blog: ritengo che, proprio per effetto dei tempi che cambiano, siano il vero termometro di quello che una volta si chiamava sentire comune. Trovo che quelli di sinistra siano più interessanti degli altri. E non per fede politica, quanto per volume di stimoli, contraddizioni, cortocircuiti.
C’è però qualcosa di irritante (per me, ovviamente) nei contenuti, una specie di virus subdolo che scatena tutto il suo potenziale di disturbo a distanza di tempo. Per descriverlo mi ci vorrebbero centinaia di righe, però ci ho pensato e ho trovato una parola, una parola sola, per risparmiarvi una tediosa lettura: disfattismo.
L’accettazione di una sconfitta senza lottare e la conseguente acquisizione di un dato di fatto senza schermarlo dai partiti presi è una malattia endemica della sinistra italiana.
Ecco un esempio che mi pare illuminante.
Nel sanguinoso conflitto tra israeliani e palestinesi c’è una visione univoca della vicenda, politicamente e assurdamente empatica: i buoni sono i palestinesi, i cattivi sono gli altri. Per assioma.
Ora, io non ho alcuna propensione per l’arrogante potenza militare israeliana. Ancora meno per il governo di quel Paese. Però cerco di adoperare una certa prudenza nel giudicare ciò che accade in quelle lande.
La tesi populistica, secondo la quale per giudicare il fallimento di una strategia si allineano i morti dell’ultimo bombardamento, non mi incanta: i morti si contano (e si pesano) sempre, non solo quando stanno da una parte della barricata. Perché gli errori di valutazione sono come le emorroidi: vengono fuori, dolorosamente, quando meno uno se li aspetta. La sinistra italiana, nella sua base più diffusa, ha deciso che i kamikaze, le nefandezze di Hamas e  il fanatismo di una ristretta parte dell’Islam sono quisquilie. O peggio, sono semplici adattamenti storico-sociali a un dato di fatto (la prepotenza israeliana). I palestinesi sono perdenti quindi, nella moderna logica disfattista di cui sopra, bisogna accettare la loro sconfitta celebrandola senza indugi, col massimo dell’estremismo. E’ il trionfo negativo del partito preso.
Non c’è un solo dubbio, non c’è mai un riferimento all’impotenza colpevole della sinistra europea, non c’è ombra di un concetto lontanamente affine alla solidarietà, non c’è richiamo a quel valore senza muri e volti che si chiama tolleranza: tutti baluardi del progressismo illuminato. C’è solo l’ultimo orribile missile, che fa strage di bambini in una scuola di Gaza.
Ecco, la sinistra di altri tempi si sarebbe mobilitata per i bambini, gli scuolabus, gli asili, le case, gli ospedali, gli orfanotrofi. Il Veltroni di un decennio fa sarebbe andato subito in Medio Oriente e non altrove. I radicali risalenti all’epoca geologica precedente alle minchiate di Capezzone e al rincoglionimento di Pannella si sarebbero affamati sulle pietraie della Galilea. Qualche pacifista, magari papà di quelli di oggi, che si distinguono per lingua lunga e bandiera facile (o viceversa), avrebbe scalzato gli scudi umani senza pensarci due volte.
Nessuno però avrebbe deciso che ci sono bombe più sbagliate delle altre.