Morto più, morto meno

C’è un gran dibattito sul nostro grado di affinità con la causa ucraina e sul peso (o la conta) dei morti nella cronaca e di conseguenza nella storia. La guerra alle porte dell’Europa ci riporta a esigenze di comunicazione inequivoche, a schemi logici che garantiscano qualcosa di fondamentale: la libertà di provare dolore, avvilimento ed empatia con la parte oppressa.

Un’avvertenza: non parlo di ragioni politiche, né faccio un’analisi tecnica dell’invasione Russa in Ucraina (che non si capisce bene perché alcuni giornali chiamano “conflitto tra Russia e Ucraina”), ma mi limito ad analizzare la percezione di questi eventi e i codici di comunicazione. Del resto il mio mestiere è inanellare parole e null’altro (purtroppo).

L’equivoco più diffuso in questo momento è quello di paragonare i morti di Kiev o di altre città devastate dalla furia di Putin con tutte le altre vittime di tutti gli altri conflitti più o meno recenti. “Se ci indigniamo per i civili ammazzati a Irpin, perché non abbiamo detto nulla per quelli uccisi lo stesso giorno in Afghanistan?” è la domanda stereotipata.
C’è chi sbrigativamente identifica la risposta nella logica del doppio standard, cioè l’uso di principi di giudizio diversi per situazioni simili. E c’è chi invece – e io sono tra questi – pensa che la storia si fa con gli esempi, coi simboli: e i simboli e gli esempi non sono una totalità, ma una parzialità. Più prosaicamente se dovessimo piangere per ogni essere umano ammazzato da un proiettile non riusciremmo a celebrarne manco uno per la vastità degli scenari e di conseguenza per l’impossibilità di empatizzare. Se un uomo muore nel vostro ufficio, è ovvio che siate più scioccati che se muore in un bar di Tegucigalpa. E non è solo frutto della prossimità dell’evento, ma anche di quella delle sue cause, dei suoi effetti.

Tutto ciò si misura in capacità di coinvolgimento, diremmo oggi di engagement. Esercitarla non significa essere peggiori o insensibili ai morti dello Yemen, ma al contrario vuol dire aver chiaro un concetto fondamentale del sentimento: possiamo amare tutti, ma per farlo dobbiamo provare il nostro amore verso qualcuno.
Non c’è niente di male, funziona così. Se scoppia una guerra pensiamo prima a ciò che accadrà nelle nostre famiglie e poi, a poco a poco, allarghiamo la nostra preoccupazione a sfere sempre più ampie. E questo “contagio” di sentimento si verifica non solo per contiguità geografica, ma anche per affinità culturale, ideologica, economica, con un’abbondante quota di inspiegabili motivi personali quasi inconsci.
Per questo – anche per questo – risultano incomprensibili le generalizzazioni di chi vuole mettere tutti sullo stesso piano, le vittime conosciute e quelle che mai conosceremo, i profughi che incontrano una telecamera e quelli che fuggono nell’anonimato.
Siamo macchine imperfette che funzionano per sistemi parziali. Viviamo ciò che vediamo, tocchiamo, sentiamo, assaggiamo.
Diluire i morti dell’Ucraina nel mare magnum delle vittime dell’Occidente (c’è sempre una colpa americana che fa capolino in questi casi) o in quello delle imperscrutabili guerre nazionaliste, è un atto di profonda ingiustizia.
Ogni guerra ha i suoi morti.
In certi casi i morti si contano, in altri si pesano.
È questo il senso della storia sin all’alba dell’uomo.    

Era febbraio

Qualche mese fa scrissi qui una riflessione sui miei novembri (che, con mia sorpresa, piacque abbastanza). In generale piacere mi fa piacere – che piacere sarebbe non piacere? – ma quando il gradimento è granitico allora mi suona un campanello. Accade poche volte da queste parti. Anzi in tempi recenti sono stato indotto a rimpiangere la brodaglia di un consenso uniforme e spesso poco motivato: infatti la virulenza di certi metodi di dissenso mi ha costretto a usare la clava dialettica o, metodo meno entusiasmante, a ricorrere all’avvocato.
Resto un fan del dibattito acceso, un nemico giurato dell’imparzialità, che è quella cosa che si tira in ballo quando non si hanno argomenti per sostenere una tesi o non si ha voglia di combattere per un’idea. C’è una bellissima frase, di cui parlammo qui, che può essere incorniciata, soprattutto in questi periodi in cui le truppe dell’ignoranza organizzata fanno caciara attorno ai monumenti della ragione: giornali, libri, teatri, luoghi di arte, lo stesso web.
La frase è questa: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.
Insomma questo post è un mirabile, anzi “mirabile”, esempio di preambolo più lungo della tesi centrale: praticamente mi sono preso la licenza di parlare incidentalmente di giornalismo e di far un pessimo uso dei ferri del mestiere.

Eravamo ai miei novembri.
Ora siamo ai nostri febbrai. Agli ultimi tre almeno: quello dell’esplosione della pandemia, quello della resistenza e della reclusione, quello della guerra.
Nel disastro collettivo come nei drammi personali, abbiamo imparato che l’unica cosa da fare nelle difficoltà è rimboccarsi le maniche: tanto, anche se arriva il peggio, almeno ti coglie cazzuto e in piena attività, e non svaccato e rincoglionito dal far nulla (che è dolce solo nelle favole). Abbiamo anche sperimentato il potere mefitico dell’illusione a caldo, il famoso “ne usciremo migliori”. E ci siamo persino esercitati nel sempre utile esercizio della speranza, che prima intendevamo come una cosa a metà tra la lettura dei fondi di caffè e l’aspettativa di un miracolo e che oggi, più prosaicamente, raffiguriamo come uno zaino da metterci sulle spalle.
La speranza pesa, va condotta. Costa, in termini di fatica. Non cade dal cielo, la speranza si conquista facendo.
I miei febbrai mi hanno dato questa lezione, dura e non ancora assimilata in pieno.
Saper sperare è avere piena coscienza che un’alba passa sempre attraverso una notte.