Un colpo e via

In fatto di lettura di libri e di fruizione dell’arte sono contro la seconda volta. È una condizione molto personale, abbastanza impopolare immagino. Per questo chiarisco prima di addentrarmi nella spiegazione: per seconda volta intendo la rilettura, il ripasso.

Ci sono libri che ho letto da bambino, tipo “I ragazzi della via Pál” che vivono nella mia memoria in modo anarchico. Rimasi sconvolto – ero davvero piccolo – per l’atto di eroismo di Nemecsek e meno per la forza saggia di Boka e col tempo ho colorito il ricordo di questi due personaggi immergendoli in un’epica che probabilmente non hanno mai meritato. Ancora oggi non ricordo come muore Nemecsek, credo di polmonite o di una malattia dovuta al freddo, né se Boka poi gli chiede scusa: mi piace pensare che il capo della banda dei ragazzi sia devastato dalla fine del giovane amico che troppe ingiustizie ha subito.
Da allora, da quando lessi il romanzo di Ferenc Molnár, mi sono convinto che leggerlo di nuovo, quel romanzo, avrebbe in qualche modo rovinato ciò che lo aveva reso così profondo e sconvolgente. Era una sorta di segno d’amore e rispetto per la forza vitale che sembrava animare le sue pagine. Avevo capito come funzionava quella magia nella mia testa: leggere una volta sola, intensamente, e poi mai più.

So che la questione è complessa e che probabilmente sarebbe difficile intavolare un dibattito pubblico senza cadere in sterili estremismi. Il “fronte” a me opposto ha personaggi altissimi e argomenti solidi. Vladimir Nabokov diceva che “un buon lettore, un lettore importante, un lettore attivo e creativo, è un rilettore. Alla prima lettura si formano solo impressioni vaghe dell’azione, basate su intuizioni generali e soggettive. Si saltano le frasi, non si colgono i dettagli, si incespica nella trama in uno stato di aspettativa passiva. Quando si rilegge si ha il tempo di ‘notare e accarezzare’ le particolarità del mondo che un autore ha reso in parole”.

Eppure in un’attività di godimento puro e di fondamentale importanza come la lettura sostengo l’immediatezza e l’intensità della prima volta. La rilettura, per me, sgonfia, sminuisce. Ovviamente sto estremizzando il discorso per renderlo più chiaro: non mi sogno di bocciare una replica di attenzione verso pagine che incantano o incuriosiscono. Però ripesco un appunto che avevo segnato a proposito di una frase di Louise Glück: “Guardiamo il mondo una volta, da piccoli. Il resto è memoria”. E mi fortifico nel mio convincimento, è proprio questo che penso della lettura.

Vi sento obiettare che quando rileggiamo, in fondo non proviamo altro che un testo può moltiplicarsi nella sua varietà di stimoli e carezze all’anima. E anche citare Roland Barthes, quando scrive che rileggere è “un’operazione contraria alle abitudini commerciali e ideologiche della nostra società, che vorrebbe che ‘gettassimo via’ la storia una volta che è stata consumata”. Invece per me rileggere può essere un modo di esercitare un potere conservatore, di consolidare tradizioni, di blindare una cultura. Non sono convinto che i libri debbano servire solo a questo: probabilmente servono sia i “rilettori” che quelli come me. È un po’ come accade nell’opera o nella musica cosiddetta colta: lo strabordare della fiducia nei morti e la diffidenza nei confronti dei vivi. Per certi canoni culturali o sei morto o non vali un cazzo.

Per noi del “buona la prima” , un libro è come una piccola vita. Quando finisce, amen. Morirà o continuerà a vivere in modo irripetibilmente imperfetto nei nostri ricordi suscitando un senso perverso che è di perdita, ma anche di piacere.
C’è poi una resistenza di riflesso tra i “rilettori” che si basa sul principio secondo il quale solo il passato ci può salvare dal declino dei costumi e dall’obbrobrio dei nostri tempi moderni. Anche questa visione non mi convince: leggo ottime cose nuove che vendicano terribili opere del passato. Della serie anche i morti annoiano.   

E poi arriva Freud. La sua idea che la fissazione dei bambini per la rilettura deriverebbe dalla convinzione infantile che le esperienze piacevoli possano essere ripetute senza dispersioni, spiega molto alle mie latitudini di sfogliatore capriccioso. “Crescendo superiamo questa convinzione”, dice Freud “quando impariamo che la novità è sempre la condizione del godimento e che l’impressione della prima volta non può essere ripetuta e rischia di rovinare completamente la storia che un tempo amavamo”. Infine il colpo da maestro: “Forse che la novità nell’adulto non costituisce sempre la condizione dell’orgasmo?”.

Notte di passione

Sono convinto che non siano solo i libri che leggiamo a dirci chi siamo, ma anche il come e il quando li leggiamo. Io ad esempio leggo la notte, per deliberato intento. Cioè non ho problemi di insonnia e sono uno che, tutto sommato, dorme abbastanza (forse troppo, a dispetto dell’età che avanza). Verso le tre/quattro del mattino il mio cervello si attiva e mi chiede di prendere un libro che tengo sul comodino: ne leggo sempre almeno due contemporaneamente e li scelgo a seconda del mood, ma di questo parliamo dopo.
Il cervello ordina, io ubbidisco e, cosa sorprendente per i miei bioritmi, trovo subito la lucidità necessaria per affrontare quelle pagine dopo aver riallacciato tutti i fili della storia (in tal senso ho la memoria di un pesce rosso). Questa cosa della lucidità mi sorprende perché solitamente ho risvegli lentissimi: invece la notte quando devo leggere è come se la ruggine del mio sistema cerebrale in fase di riavvio fosse sciolta dal CRC. Accade solo per i libri, per il resto sono un rincoglionito che stenta a trovare la bottiglia d’acqua a fianco del letto.

Adoro leggere nella penombra e nel silenzio di un momento che, per via dell’orario, mi piace pensare solo mio. Il fatto che la città e il mio mondo dormano mentre io mi tuffo in mille storie, mille paesaggi, indosso mille vite, cambio mille costumi, muoio e rinasco, vinco e sconfiggo, piango e rido per destini di carta, è una sorta di catalizzatore di attenzione ed eccitazione.
Al contrario di quando scrivo non c’è necessità, ma desiderio. Ho bisogno di scrivere e non sempre mi dà soddisfazione: chi scrive per mestiere lo sa, mette nel conto che la scrittura spesso è sofferenza, è dolore, è droga, è sentimento inespresso.
Invece la lettura è appagamento, coronamento di un desiderio, a volte anche vizio.
Io voglio svegliarmi nel cuore della notte per sapere come va a finire con quel tizio prigioniero tra pagina 252 e pagina 253. E se per caso ciò non accade – tutto sommato ho una vita normale con un adeguato influsso di imprevedibili cazzi miei – ci resto un po’ male perché so che il momento della lettura, dati gli impegni della giornata lavorativa eccetera, sarà rimandato.

Non sono un lettore bulimico. Non sono neanche un forzato della lettura. Leggo ciò che mi piace e butto tutto il resto. Per questo ho un turnover di libri che consuma il comodino e non la libreria. Perché è il comodino il vero banco di prova. La libreria è la pensione, il buen retiro dei volumi: l’alternativa è la pattumiera.
E siccome sono un lettore con pazienza zero, metto sempre due-tre libri sulla linea di partenza e do pari opportunità a tutti. Generalmente ne scarto uno su cinque: la statistica è dell’ultimo anno, mentre ci fu un periodo sfortunato in cui capitava di eliminarne anche tre su cinque (ricordo un Natale di molti anni fa in cui feci un en plein di cagate editoriali).
Insomma leggo come un medioman guarda la tv: più una cosa mi piace, più mi concilia il sonno. Mi sveglio nel cuore della notte, accendo la luce, prendo il libro, mi appassiono con la confortante certezza che mi scioglierò (troppo) presto nel migliore sonno, ancestrale e confortante. Quello in cui immagini che ci sia qualcuno che ti racconti una storia.

Tempo sprecato

È tempo sprecato quando

Ti fai raccontare un film anziché vederlo
Ridi per battute seriali
Credi di essere utile per risolvere questioni inutili
Credi di essere inutile per risolvere questioni utili
Trascuri la prima impressione
Ti fidi del consiglio dello chef
Dai facendo finta che non ti interessa essere ricambiato
Voti a sinistra per fede
Immagini di poter mantenere più di quanto hai promesso
Confidi nell’amicizia da polpastrello
Quel polpastrello ti prude e tu non scrivi
Bevi vino al di sotto dei dieci euro
Credi che il dolore riempia un vuoto
Credi che un vuoto sia nato per essere riempito
Usi l’amicizia come surrogato dell’amore
Pretendi dall’amore la duttilità dell’amicizia
Ascolti la nuova musica italiana aspettandoti che sia nuova e italiana
Ti dimentichi che esistono ancora in vita Pat Metheny e Gino Vannelli
Cestini un libro per sentito dire
Pensi che un passo indietro sia una sconfitta
E che un passo avanti sia un progresso (anche davanti al baratro)
Preghi al momento del bisogno
Inganni la cronaca con l’invenzione
Dai più attenzione alle vecchie foto che allo specchio
Ti fidi troppo dello specchio
Usi i tuoi problemi come passepartout
Cedi al fascino delle cose facili
Pensi ai tuoi guai come ai guai dell’universo mondo
Ti guardi indietro e ridacchi per le sventure dei tuoi nemici
Non fuggi quando dovresti farlo senza ritegno.

Amici (o presunti) sullo scaffale

Oggi ho fatto un esperimento. Ho cominciato a scorrere lo scaffale dei “libri degli amici” della mia libreria e ho giocato a collegare storie, sorti e biografie. Una buona parte non sono più amici: non per colpa di qualcuno, ma per vicende non recensibili. Altri resistono in contumacia: gente alla quale potresti voler bene ma che non vedi quasi mai. Altri, pochissimi, sono rimasti amici come lo erano quando hanno pubblicato: sono quelli che si ricordano di te senza un motivo contingente e che magari ti chiamano per chiederti, in modo affettivamente rivoluzionario (di questi tempi), come stai.
Le nostre librerie di casa sono una sorta di anagrafe dei sentimenti, con nati e morti: ma in più hanno i morti-vivi, i moribondi a loro insaputa e i resuscitati. Basterebbe dare retta a quegli scaffali per capire delle persone più di quanto avremmo voluto sapere. Perché, diciamocelo, nel nome di un prodotto editoriale spesso si fanno forzature da Guinnes.
Ho scritto un bel po’ di cose in società, insieme con altri autori, e in generale mi sono trovato bene. Oggi ci ripenso e lo considero quasi un miracolo (la mia psicologa è d’accordo) giacché la mia indole solistica mi avrebbe dovuto spingere in mare aperto, verso una navigazione solitaria. Eppure così non è stato.
Quasi sempre, ripeto quasi, l’aver condiviso un tratto di penna è stata un’occasione di crescita. Delle eccezioni non parlo: mi divertirei troppo e so che le mie pulsioni luciferine prenderebbero il sopravvento mistificando la realtà, quindi dandomi più noie che soddisfazioni
Comunque oggi guardando quello scaffale ho avuto la dimostrazione che lo scorrere del tempo non ha solo una velocità, quella che conosciamo biblicamente o se volete biologicamente. Esistono vecchiaie anticipate e gioventù tardive, almeno a guardare i libri e i loro autori. Esistono vite che non finiscono mai, sodalizi mai coronati eppure eterni e unioni tanto fallaci quanto amare indipendentemente dai calendari. Non è colpa di nessuno, ma c’è un merito condiviso. Quelle pagine, ingiallite o intonse, note o sconosciute (non si legge tutto per diritto di parentela/amicizia, ed è un bene) ci dicono oggi quello che non siamo stati capaci di capire ieri. Ci rivelano che non è mai troppo tardi per rivalutare un errore di prospettiva in buona fede.
Chi c’è ancora oggi ne godrà, chi non c’è più probabilmente ha fatto la fine che meritava.
I libri non mentono mai. Soprattutto quando raccontano menzogne.  
Per il resto c’è la vita.

Rivive il commissario Porzio

Annuncio ai naviganti. I miei due primi libri, “Di nome faceva Michele” e “Giù dalla rupe” sono da oggi disponibili in versione e-book. Li trovate qui e qui. Mentre se cercate le schede con trame e recensioni vi rimando a queste due pagine:

Di nome faceva Michele

Giù dalla rupe

Per chi non lo sapesse si tratta di due gialli che hanno in comune come protagonista, più o meno involontario, il commissario Porzio che ai tempi la stampa (ah, la stampa!) definì una sorta anti-Montalbano. Insomma, con Camilleri e quella (preziosa) roba là non c’entrano niente.
Fatemi sapere, se vi va.

Non leggere più romanzi?

Qualche settimana fa nella sua rubrica settimanale su The Believer, Nick Hornby ha dichiarato la sua difficoltà (estrema) nel leggere romanzi.

Io ci provo a trovare nuove opere di narrativa, giuro, ma è come cercare di spingere un carrello della spesa scassato per i corridoi di un supermercato.

Hornby lega, seppur ironicamente, questo problema al raggiungimento dei sessant’anni di età. L’articolo mi ha colpito perché io di anni ne ho qualcuno di meno, ma effettivamente avverto un mutamento nei miei interessi di lettura. Torniamo allo scrittore britannico, che argomenta.

Un brutto libro, per dire, sulla storia delle ferrovie indiane finirà comunque per dirvi qualcosa sulle ferrovie, l’India e la storia. Leggere un brutto romanzo mentre vi state avvicinando all’età della pensione, invece, è come prendere il tempo che vi è rimasto a disposizione e gettarlo in un caminetto acceso.

L’insofferenza è un tema strettamente legato all’età che avanza. Più si cresce meno si è disposti a sopportare gli effetti collaterali della crescita. C’è un momento in cui il piacere di esibire la vostra esperienza si è tramutato in irritazione nei confronti di chi non vi ascolta. Ecco, un romanzo sbagliato è come un interlocutore distratto. Chi non sa niente di libri crede che il rapporto tra lettura e lettore sia univoco quando basta aver leggiucchiato qualcosa più di una timeline di Facebook per sapere che un libro non solo dà, ma anche (e soprattutto) chiede.
Non sono arrivato all’insofferenza snob, magari giustificata sì, di Hornby, ma da qualche anno mi sono misurato con una diversa disposizione nei confronti della narrativa. Prima ero onnivoro, poi sono diventato intollerante ad alcuni temi e/o autori: come la pizza che uno adora e che d’improvviso diventa indigesta. Allora mi sono inventato strade alternative, soprattutto per arginare uno strisciante senso di colpa. Amo la montagna e mi sono messo a leggere storie di montagna; amo viaggiare e mi sono messo a leggere i classici dei grandi viaggiatori; amo la psicologia applicata al mio Doc e allora mi sono messo a leggere saggi di psicologia for dummies. Certo, ci sono le eccezioni. Ma hanno a che fare col sentimento, i libri sono meglio degli amici: ci dicono quello che è giusto non cercare senza infingimenti senza ipocrisie senza risolini, perché in fondo lasciarsi trovare è l’emozione più profonda che premia chi sfoglia con la mente aperta.
E qui, davanti a pagine inesplorate, l’età non ha età.

La rivincita dell’analogico

L’articolo pubblicato su Il Foglio.

Per molto tempo il rapporto tra digitale e analogico è stato visto come una contrapposizione: smartphone o telefono a conchiglia, iPad o carta, mp3 o vinile. Bianco o nero, prima o dopo, una logica viziata proprio dalla rigidità del codice binario, cioè da un alfabeto composto da due soli simboli (zero e uno), una logica nemica delle complessità e delle sfumature della vita reale. Partiamo da qui per capire il senso di una controrivoluzione lenta ma costante che sta riportando il mondo nella carreggiata dell’analogico: non si tratta di contrapposizione, ma di equilibrio instabile.
Il 21 aprile scorso si è celebrata in tutto il mondo la decima edizione del Record Store Day, una giornata dedicata ai negozi di dischi e in quell’occasione la Federazione industria musicale italiana ha reso noti i numeri del vinile in Italia: oggi il mercato vale quasi 13 milioni e mezzo di euro, una crescita vertiginosa se pensate che nel 2012 ne valeva poco meno di due. E le prospettive appaiono rosee se è vero che il 23 per cento dei consumatori di musica ha acquistato almeno un disco in vinile nel 2017 e il trend è già salito al 31,8 nel primo trimestre di quest’anno.
Il 33 giri è il simbolo del bene analogico e della sua ingiusta sottovalutazione nel lungo periodo dell’abbaglio ipertecnologico con conseguente strapotere dell’mp3. Basti pensare al mito del file immortale che umiliava il vinile, i suoi fruscii e la sua deteriorabilità. Ebbene, se volete chiarirvi le idee una volta per tutte fate un esperimento. Ripescate qualche vecchio floppy disc, provate a trovare un apparecchio in grado di leggerlo o a farlo funzionare col vostro computer: probabilmente non ci riuscirete. Poi tirate fuori il vecchio ellepì dei Pink Floyd “The dark side of the moon” (da tempo il più venduto dei vinili in Italia), mettetelo sul piatto di un giradischi degli anni ’70, accendete l’amplificatore degli anni ’80 e ascoltatelo con casse del 2000. Vedrete che non ci saranno intoppi. Continua a leggere La rivincita dell’analogico

Libri, buone notizie

Buone notizie per il mondo dei libri. Secondo i dati dell’Associazione italiana degli editori c’è, per il secondo anno consecutivo, una crescita del mercato: più 2,3 per cento rispetto al 2015. Mentre cala un po’ il numero effettivo dei lettori (maschi e femmine) che comunque sono oltre 23 milioni, cresce la quota dei lettori ultrasessantenni e resta stabile quella dei “lettori forti” (almeno un libro al mese) che sono 3,2 milioni. Aumentano le vendite di ebook, ma parliamo di un mercato che sta nel 10 per cento.
Insomma, una volta tanto possiamo rimandare la nostra lamentela quotidiana.

Fumare controvento e altri riti inutili

“Dio ama i poveri…”
“È per questo che ne ha fatti tanti”.

La citazione è tratta da “L’elenco telefonico di Atlantide” di Tullio Avoledo, un gran bel libro che lessi nel momento in cui mi parve un gran bel libro.
E il tema è proprio questo.
Noi non siamo solo quello che leggiamo (semicit.), ma siamo anche quando lo leggiamo. Nello specifico io non sono un bulimico della lettura, anzi. Uso la lettura, purtroppo, in modo opposto e contrario rispetto ad altro, al cibo ad esempio.
Se sono felice mangio meno e leggo di più. E viceversa. Questo per dire che per quanto riguarda i libri esiste uno scacchiere temporale relativo per ciascuno di noi. Che non segue cronologie legate all’età anagrafica, ma piuttosto la luce dei nostri occhi, il taglio delle ombre di un’epoca.
Ci sono libri che potevate leggere solo in quel momento preciso, quando avevate un sabato sera inutilmente libero, tutto per voi, quando eravate padroni del mondo e invece vi sentivate poveri affittuari di un angolo di weekend. E ci sono libri che avete letto quando credevate di essere ispirati, quando per sfogliare un paio di pagine cercavate uno spazio nell’agenda, quando vi aspettavate di distillare da quelle parole un insegnamento determinante.
Credo poco all’ispirazione della lettura, per me quella vale solo a malapena per la scrittura. Credo piuttosto in un magico accordo che è anche un minimo elisir di lunga vita: leggere e/o scrivere è un punto che ha precise coordinate di luogo e di tempo.
Il libro che mi ha cambiato la vita lo lessi in un’appassionante missione sciistica, in cui il mio primo pensiero era portare le ossa sane a casa ogni sera. Ero concentrato in una personale impresa sportiva eppure quel libro, che pure era un saggio quindi mica un romanzone ruffiano, mi deconcentrava a tal punto da rimettermi in armonia col mondo. Era il tassello nel legno tenero di una maturità abbozzata, insospettabilmente solido.
Altri libri – non scrivo i titoli perché è il concetto generale che voglio rappresentare – mi hanno arricchito, mi sono rimasti dentro, mi hanno divertito o sconvolto perché le loro pagine erano scalini sui quali inerpicarsi in quel momento.
Ricordo a memoria incipit di romanzi non memorabili, ho dimenticato le trame di pietre miliari della letteratura. Ci sono narrazioni nelle quali mi sono immerso solo perché chi me le leggeva – sono stato un feticista della lettura ad alta voce – era una determinata persona e non un’altra.
Leggere e/o scrivere è un vizio. E come ogni vizio risente dei riti. C’è chi adora fumare controvento, io quando fumavo non accendevo mai una sigaretta se l’aria non era immobile. Un vizio che ha le sue controindicazioni: se non hai il  quando giusto magari ti ritrovi intossicato di parole inutili che possono essere più dannose del catrame nei polmoni.
Insomma di ogni libro che ho letto magari non ricordo il titolo, la trama, però ricordo quando l’ho letto. È un puzzle di sensazioni che si ricompone a ogni passo di memoria. Un atto che dà comunque ristoro perché quel che le anime semplici chiamano soddisfazione, gli altri chiamano consolazione.

Ingiustizie letterarie

I podcast di Gery Palazzotto
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