Il teatrino dei teatri

Sono in un loop dal quale non so quando potrò uscire. Palermo proviene da una fase di stallo molto grave, e senza precedenti, sulle nomine del Teatro Massimo Palermo e del Teatro Biondo Palermo, importanti realtà artistiche italiane (con gli adeguati distinguo, il Teatro Massimo è una realtà internazionale che spesso Palermo mostra di non meritare). Il parterre del tifo militante si muove perlopiù a sensazione. Nel mio minuscolo qualcosa so e però, pur nell’esercizio del mio mestiere di giornalista, non posso dire: per tenere lontano ogni possibile conflitto di interessi e per un minimo di buona creanza che la maturità impone. E siamo alla prima metà del loop: chi sa non può parlare perché è giusto che siccome sa in virtù di un mestiere, non possa dire quel che sa in virtù dello stesso mestiere. Risultato: ovunque parla solo il parterre con quel che ne consegue.

Piccola parentesi. Sono fuori da questo gioco dall’inizio dell’anno e ho scelto di farmi da parte proprio perché a una nazionale della cultura, come dovrebbero essere i nostri teatri, non servono tifosi, ma bravi allenatori e giocatori forti. Sono rientrato negli spogliatoi, ho guardato la partita soffrendo in silenzio. Chiusa la parentesi.

La seconda metà del loop è più complicata e riguarda il rapporto tra l’audience e la sostanza delle cose. Se si chiedono, giustamente, nomine di merito che garantiscano l’indipendenza della cultura dalla politica (un miraggio, giacché l’unica cultura indipendente è quella che celebriamo a casa nostra, o nel nostro teatrino privato) non si può ipotizzare che un direttore o un sovrintendente vengano approvati in pratica dagli artisti, dal sindacato variegato, e da tutti noi che lavoriamo nei teatri. Perché sarebbe un’altra violazione dell’indipendenza: c’è sempre qualcuno a nord di noi, fin quando esiste la geografia delle regole, che piacciano o no (io stesso ne sono stato vittima, ma magari ve la racconto un’altra volta).

Sono sempre stato contrario alle celebrazioni coram populo. Mi sono sentito a disagio in contesti di finta democrazia in cui, quando si deve prendere una decisione, più ampio è il consesso più giusta sarà la strada decisa. Le imprese più fallimentari alle quali ho assistito sono quelle ultra concordate, spalmate su teste spesso inconsapevoli pur di fare numero.
Perché? La risposta che ho io è quella che viene dalla mia piccola esperienza. Perché l’innovazione si fa senza facili consensi, costruendo sulle barricate nemiche, sfidando la consuetudine delle maggioranze. Si fa in pochi, quelli giusti, quelli che hanno coraggio: non c’è altro modo di dirlo, si vince o si perde. L’innovazione non piace a tutti, ontologicamente (e qui Giuli godrebbe;) ).

Servono direttori di teatri forti e preparati. Non importa se li appoggia il Sopra o il Sottosopra. Del resto la cronaca ci ha consegnato infiniti casi di trasversalismo e cambi di casacca in corsa. Servono specialisti ma non troppo, razionali ma non troppo, visionari ma non troppo, sganciati sia dalle segreterie di partito che dai salotti (che in una città come Palermo sono ben più mefitici). Servono coagulatori di idee, indipendenti perché se uno ha un’idea e la baratta con una notte serena, non ha un’idea ma un blister di Xanax. Per rimboccarsi le maniche servono le braccia. Non importa se la camicia è intonsa o meno perché, come diceva il sulfureo Andreotti, la camicia è come la coscienza, per mantenerla pulita basta non usarla.
Da qui si deve ricominciare. E taccio, al momento, perché pure dagli spogliatoi è giunto il momento di sloggiare.

P.S.
Nella scrittura di questo post nessun precario è stato maltrattato, del resto l’autore è un discreto rappresentante della categoria.

Armando, a che numero siamo?

Molti anni fa quando lavoravo al Giornale di Sicilia capitava spesso che il condirettore Giovanni Pepi usasse l’interfono in modo abbastanza invasivo. Dal nulla quell’infernale apparecchio (che, lo confesso, sfasciai il giorno dopo che lo avevano installato) faceva “Diiin!” e trasmetteva la voce imperiosa del de cuius che a tradimento dava un ordine o, peggio ancora, chiedeva qualcosa a saltare. La cosa davvero fastidiosa era l’invasività del mezzo, per non dire della persona che lo usava a sproposito: quella voce irrompeva spesso quando nelle nostre stanze c’erano ospiti e la figuraccia era purtroppo assicurata.

Una sera, come ogni sera, io e Francesco Foresta eravamo riuniti (quasi accampati data la mole di lavoro) nella stanza dell’allora caporedattore Armando Vaccarella. Era il periodo in cui il giornale si batteva per la riapertura del Teatro Massimo e pubblicava periodicamente editoriali sul tema, preceduti da un numero che scandiva i giorni dall’inizio della campagna. Quella sera dal nulla scattò il tremendo “Diiin!” seguito dalla voce tuonante di Pepi.
“Armandooo! A che numero siamo col Teatro Massimo?”.
Armando non ci penso due volte e sparò: “Duecentotrentasei!”
“Bene, pubblichiamo un editoriale su domani!”.
Chiusa la comunicazione ci guardammo smarriti e io non chiesi ad Armando cosa avrebbe scritto in un fondo commissionato a tradimento, così come se fosse un coppo di calia e simenza, ma: “Ma come facevi a sapere a memoria a che numero eravamo arrivati”.
E lui: “Che minchia ne so? Ho sparato a muzzo (a casaccio, ndr)”.
Quindi tutti di corsa, con un sottofondo di risata isterica tipo quella che ti scappava in classe quando la maestra ti guardava e tu non potevi dire nulla, nella stanza del caporedattore centrale Giovanni Rizzuto.
“Giovà, fai quello che vuoi ma domani in prima pagina ci deve essere questo numero: duecentotrentasei”. Altre risate, nella cui eco – essendo l’unico sopravvissuto di quel dream team – mi cullo ancora oggi con serena nostalgia.
Armando non aveva sbagliato di poco: solo di un centinaio di giorni (in più o in meno, non ricordo e non importa). Nessuno se ne accorse mai.

Questa storia mi è venuta in mente stamattina mentre, durante il solito dispendio di calorie quotidiano che alcuni chiamano supplizio e altri chiamano sport, pensavo al mio futuro lavorativo: è un rituale che mi concedo ogni fine anno, un po’ scaramantico e un po’ candidamente razionale.
Il lavoro di tutti noi, ma proprio tutti, è fatto prevalentemente di cose che conosciamo solo noi ed è quasi sconosciuto a chi ci sta sopra. È una questione ontologica, i livelli di comando sono compartimenti stagni in cui le interferenze che vengono dal basso vanno disinnescate e in cui ciò che è davvero importante sono i feedback che vengono dall’alto.
C’è un però gigantesco.
La competenza.
Credo che un buon manager debba conoscere la materia prima dei suoi prodotti e non solo i numeri che scaturiscono dalle vendite. La nostra politica si è sostanziata sempre più di dilettanti orgogliosi di esserlo, di inutili cittadini di potere, di gente qualunque investita inopinatamente di poteri straordinari. Il risultato è stato – è sotto gli occhi di tutti – disastroso.
Il direttore che sbraita nell’interfono per chiedere qualcosa di cui non ha idea, che non controlla, è la fotografia di un sistema produttivo che punta all’abisso: e i risultati della cronaca lo confermano.
Serve competenza condivisa. Servono capi che cazziano con cognizione di causa i dipendenti ignoranti. Serve chi sa, chi conosce, chi può insegnare. Serve un’idea di valorizzazione che sia complementare a un sistema di esclusione: ciò che funziona deve stare dentro, costi quel che costi, ciò che non vale un cazzo si butta, pazienza.
Serve il coraggio di ribellarsi, di mollare tutto se necessario, di inventare.

“Armandooo! A che numero siamo?”
“Duecentotrentasei” (e non rompere il cazzo, è il sottotesto).

Che il 2024 sia un anno di trionfo oltraggioso della competenza. Auguri.

“Non può succedere a me”

Questa è la storia di uno sparo nel buio e di un morto che si risveglia. Ma non è una storia di morti viventi. Al contrario è la storia di un vivo che scopre la vita nella memoria, che scava nelle sue distrazioni, nel nostro egoismo. E che si rianima giusto in tempo per raccontare la sua vicenda e quella delle anime che ha incrociato prima che la sua vita finisse in un angolo oscuro del palcoscenico. Perché in teatro siamo e in teatro resteremo per tutti i settanta minuti de “L’altro”, la nuova opera che andrà in scena il 22 giugno prossimo al Teatro Massimo di Palermo.
È così che il nostro protagonista incrocerà personaggi che sembrano arrivare da lontano e che invece stavano lì, aspettando solo che qualcuno si desse la pena di notarli. Sono le tante versioni dell’altro: un bambino, un prete, un imprenditore, un poliziotto. Vivi e morti, che gli ricordano le cinque parole più rischiose della loro vita: non può succedere a me.
Attraverso un gioco di specchi il nostro ex morto andrà a caccia di chi lo ha ucciso, prima di tornare alla sua quiete orizzontale. E lo farà con l’unica certezza che l’altro gli ha dato: esistono vittorie assolutamente inutili e sconfitte meravigliosamente feconde.

Dal 2017 a oggi, il Teatro Massimo ha avuto il coraggio di sperimentare nuove forme di narrazione attingendo da ambiti delicati come la cronaca, afferrando la realtà più cruda per i capelli e trascinandola al cospetto dell’arte. Grazie a Francesco Giambrone prima e a Marco Betta poi (ci vuole coraggio a ideare, ma ci vuole più coraggio ad approvare idee altrui) abbiamo usato la parola, la musica, la danza, la tecnologia di immagini digitali per raccontare la memoria che si cela nell’attualità e la realtà che tende a oscurare il ricordo.
Dopo la trilogia dedicata dal Teatro ai misteri delle stragi di Capaci e Via D’Amelio, “L’altro” è un ulteriore passo avanti verso una nuova concezione di opera che, è inutile negarlo, suscita ancora troppe resistenze (e non di pubblico) e che si nutre quasi clandestinamente dei resti. Ma questo è un tema troppo serio per essere liquidato in poche righe.  

Qui mi preme dirvi che oltre che nel linguaggio artistico e nella sua multimedialità (sul palcoscenico i protagonisti se la vedono coi loro ologrammi), lo spettacolo ha due elementi di dirompente novità: da un lato vede coinvolti per la prima volta in un’opera originale cento ragazzi delle formazioni giovanili tra orchestra e cantoria, dall’altro contiene una dedica struggente a don Pino Puglisi nel trentennale del suo omicidio.

L’altro
Teatro Massimo di Palermo – 22 giugno 2023 – ore 20:30

Scritto e diretto da Gery Palazzotto
Musiche composte ed eseguite da Fabio Lannino e Mauro Visconti
Interpretato da Gigi Borruso
Coreografie e movimenti scenici: Gaetano La Mantia con Alessandro Cascioli
Danzatori: Alessandro Cascioli, Gaetano La Mantia, Yuriko Nishihara
Massimo Youth Orchestra diretta da Michele De Luca
Cantoria del Teatro Massimo diretta da Salvatore Punturo e Giuseppe Ricotta
Videomaking di Antonio Di Giovanni e Davide Vallone
Assistente musicale: Vincenzo Alioto

I biglietti li trovate qui.

Purismi

Lavorando in un teatro d’opera, scrivendo per mestiere e invecchiando con allegra libertà sono sempre alle prese con le esigenze (altrui) di purismo. Avvertenza per il lettore: il concetto di purismo che qui affronto non ha nulla a che fare con lo storico movimento che tende(va) “a considerare la tradizione linguistica nazionale come qualcosa che deve essere mantenuto incontaminato da influenze lessicali, sintattiche, morfologiche e fonetiche straniere non solo per ragioni funzionali ma anche per ragioni affettive”. Il “mio” purismo ha più a che fare con una stretta osservanza della tradizione, con l’inchino nei confronti di ciò che è classico: diciamo che è qualcosa che sta sull’altra sponda rispetto all’innovazione; non distante, ma di fronte.
Questo tipo di atteggiamento conservatore non va deprecato, è legittimo e ha una sua utilità: i custodi dell’ortodossia servono sempre, sono depositari di una quota di memoria che non va usata come catalizzatore di nostalgie, bensì come perno sul quale far girare nuove idee.
In particolare mi interessa qui ribadire un antico concetto sulla modernità (e ci scappò l’ossimoro): il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.

Negli ultimi mesi ho avuto a che fare con giovani e giovanissimi in università e scuole. Ho incontrato ragazzi in gamba e meno in gamba, autentici gioielli e figure opache. Ma tutti mi hanno scioccato su una cosa: non conoscono i giornali. Alla domanda “dimmi i nomi di almeno due giornali siciliani” praticamente nessuno di loro è stato in grado di darmi una risposta esaustiva.
Se avessi seguito la mia logica novecentesca avrei dovuto indignarmi, ma siccome occuparsi di futuro significa sforzarsi di galleggiarci dentro, ho tirato un sospiro e ho realizzato che quella è la loro ortodossia, è il principio della loro nuova memoria. I giornali sui quali siamo cresciuti, su quali ci siamo accapigliati non esistono più. Esistono altri prodotti, contaminati e un po’ emergenziali, che dovranno imparare a gestire uno dei beni più importanti per la crescita di una generazione: il sapere della cronaca.

Non voglio sbilanciarmi, ma credo che nelle aziende editoriali le idee non siano troppo chiare in tal senso. A ogni modo queste righe non servono per ispirare nuove fabbriche di news, ma per scavare sentieri per il nuovo pubblico: che sia giornale, teatro, cinema, libri, il sistema dell’apprendimento è un flusso che scorre tra due capi e se ne manca uno, non funziona un bel niente.
Il nuovo pubblico dobbiamo essere noi a plasmarlo, intercettando le sue inclinazioni ma mantenendo il nostro diritto a sperimentare. I successi di oggi non hanno nulla a che fare con quello che accadrà l’anno prossimo. La logica di un aureo mantenimento, come un salvagente per non annegare, è proprio quella perdente. Se c’è un momento in cui bisogna rischiare, credo che sia questo: sparigliando, scommettendo.
Il purismo crede di essere un baluardo della preservazione di un bene comune, mentre rischia di esserne il killer più spietato.

Serve coraggio per imbastire nuovi programmi che guardino a dopodomani, programmi che magari non ci risultino pienamente compiuti ma che ci creino suggestioni: il futuro inizia sempre con una sensazione vaga.
Serve la saggezza di dire “io questa cosa non la so fare quindi mi rivolgo a chi la sa fare”.
Serve soprattutto finirla di essere isole senza traghetto e cominciare a ordire trame a lungo termine, tutti insieme, senza preclusioni. E questo è il più difficile dei banchi di prova di chi amministra, di chi governa, di chi decide e sceglie con chi decidere.

Se ci fosse un partito per la cultura del sano stupore lo voterei immediatamente.  

Il tempo e il lusso dei sogni

Come in ogni lavoro artigianale, nella scrittura conta il tempo: che è misura della fatica e sostanza della soddisfazione. Non è detto che più tempo sia garanzia di miglior risultato, ma almeno si mette in salvo la buona coscienza: della serie io ce l’ho messa tutta.

Oggi matura un frutto del mio tempo, mio e delle persone che hanno lavorato con me. Un anno per scrivere il copione, poco meno per inanellare le note e legarle alla parola recitata, altri mesi per plasmare le danze, disegnare i quadri scenografici, creare un insieme di sequenze cinematografiche. Tutto per qualcosa che nasce cresce e si chiude in poco più di settanta minuti.
Tempo. Se sommassimo i minuti spesi a raccontare gli anni che non ci sono più credo che finiremmo in un buco spazio-temporale. Ma forse è questa la magia dell’arte: illuderci che il tempo sia eterno e che passato presente e futuro siano solo convenzioni di chi non si concede il lusso dei sogni.

Da oggi è in scena al Teatro Massimo “Cenere”, un’opera per me faticosamente completa. Tentiamo di raccontare i misteri delle stragi Falcone e Borsellino, nel trentennale di quegli eccidi, con l’unico strumento di cui ci fidiamo veramente: la verità del dubbio.

Non ci impelagheremo in verbali di polizia, in pastoie giudiziarie, ma narreremo di infanzie che potevano essere spensierate, di interminabili partite di pallone, di rubinetti a secco e di fratelli coltelli, tra campagne aride e verdi agrumeti, tra polvere di cemento e polvere da sparo. È un’opera sospesa sul filo del rasoio, tra il bene e il male non puoi rimanere in bilico: se resti fermo la lama ti lacera. Devi scegliere. E questa scelta non è scontata perché di pensieri e parole inconfessabili è fatta la nostra vita.

Il lieto fine esiste solo in certi film e in certe favole. Il nostro compito è spegnere la luce e condurvi per mano sino al bivio finale: lì vi lasciamo liberi di prendere la direzione che più vi attira. Non abbiate paura di ritrovarvi nella destinazione che mai avreste pensato di scegliere. Il male esiste e conoscerlo è un buon modo di evitarlo.

Cenere – Teatro Massimo – Sala grande 13 e 14 maggio 2022
di Gery Palazzotto

In onda su Sky Classica HD dal 19 luglio 2022, ore 21:10

con Gigi Borruso
musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri
al violoncello Antonino Saladino
coreografie ideate ed eseguite da Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara
artworks di Francesco De Grandi
elaborazioni grafiche di Azzurra Messina
videomaking di Antonio Di Giovanni e Davide Vallone
con la Massimo Youth Orchestra 
diretta da Michele De Luca

Schegge di verità

Un estratto dall’articolo di Helmut Failoni “Falcone & Borsellino: il teatro della verità”, pubblicato su “la Lettura” del Corriere della sera.

La violenza è la morte dell’anima e l’arte richiede esattamente il contrario. Lo spiega a «la Lettura» il compositore — e da poco anche sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo — Marco Betta (1964). Lo dice introducendo un concetto che è certamente generale, ma nel caso specifico, riferito a Cenere di Gery Palazzotto, uno spettacolo — «no, anzi un’opera-inchiesta», sottolinea — che proprio di violenza parla. Andrà in scena al Teatro Massimo di Palermo (che ha dedicato la stagione 2022 al trentennale delle stragi di mafia) il 13 e il 14 maggio. È la storia delle stragi di Capaci e di via D’Amelio, in cui morirono i magistrati Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Francesca Morvillo e gli agenti delle scorte Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Claudio Traina.
«Cenere — spiega a “la Lettura” Palazzotto — chiude la trilogia prodotta dal Massimo sui misteri di quegli eccidi, che ho iniziato nel 2017 (con Salvo Palazzolo, nda) con Le parole rubate e portato poi avanti nel 2019 con I traditori». Qui, oltre al testo, «c’è la musica, scritta ed eseguita da tre compositori con un violoncellista. Ci sono due danzatori, elaborazioni grafiche, artwork, video».
Palazzotto definisce questo lavoro, appunto, un’«opera-inchiesta». Ma è più opera o più inchiesta? Non esita neanche un secondo: «Più opera. Le prime due puntate erano maggiormente legate all’idea di inchiesta. Avevo fatto davvero un’indagine sul palcoscenico: siamo entrati dentro i file del computer violato di Falcone. Abbiamo ricostruito una danza macabra di mani attorno alla borsa di Borsellino, mentre questa viene presa e rimessa nella macchina che sta bruciando…». Cenere è l’atto finale, «una sorta di nemesi. Sono passati trent’anni e la Cenere è quel che resta».
Due i protagonisti in un faccia a faccia, «per il quale uso però un solo attore (Gigi Borruso, ndr), che rappresenta due verità diverse. Il primo protagonista è un uomo che si fa delle domande e che si dà delle risposte, avendo fiducia nella giustizia, leggendo, documentandosi, guardando ai fatti. L’altro, che è la novità, è l’alter ego negativo, il siciliano convinto che la mafia dia lavoro. Non intendo i due protagonisti come il bene e il male a tutti i costi, ma come portatori di due visioni opposte. In questo senso Cenere è la celebrazione della verità del dubbio.
(…)
«Con il mio testo vorrei riuscire a portare le persone, il pubblico, a ragionare e a provare lo stesso imbarazzo che ho provato io, da giornalista, sulle carte di questi processi. Che cosa bisogna pensare dopo aver scoperto che l’indagine che hai seguito per 16 anni è stata depistata e governata da due collaboratori di giustizia e che ci sono stati dieci processi, d-i-e-c-i, Borsellino 1, Borsellino 2, Borsellino 3, tutti viziati da falsità? I giudici di Caltanissetta lo hanno definito “il più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana”. Nello spettacolo io non devo dimostrare che Vincenzo Scarantino, falso pentito, è un farabutto perché lo sanno tutti già, ma io devo portare lo spettatore a rendersi conto che la verità di Scarantino è stata la verità per 16 anni».
(…)
Per Cenere, con Betta, che è di «estrazione classica», hanno lavorato Fabio Lannino, «bassista e chitarrista che si muove in universi sonori incrociati» e Diego Spitaleri, «jazzista e compositore». La cosa più bella — prosegue Betta — è stata «il nostro lavorare insieme, ascoltandoci l’un l’altro. Un segno contro ogni individualismo. La scrittura dei brani, passando da un genere all’altro, è avvenuta in maniera assolutamente naturale e poi ognuno di noi ha migliorato il lavoro dell’altro…». In scena — rivela e conclude Palazzotto — «i due danzatori (Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara, nda) rappresenteranno le schegge dell’esplosione».

Cenere – Teatro Massimo – Sala grande 13 e 14 maggio 2022
di Gery Palazzotto

con Gigi Borruso
musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri
al violoncello Antonino Saladino
coreografie ideate ed eseguite da Alessandro Cascioli e Yuriko Nishihara
artworks di Francesco De Grandi
elaborazioni grafiche di Azzurra Messina
videomaking di Antonio Di Giovanni e Davide Vallone

Se i teatri non interessano alla politica

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Tutto è più difficile quando in una città come Palermo, in una terra come la Sicilia, si avvicinano le elezioni. Perché nell’attesa del momento cruciale del voto – l’appuntamento elettorale è ontologicamente compreso nella categoria di “cose in divenire” – non si trova nulla di meglio da fare che rallentare, diluire, fermarsi. In un raro momento di comunità d’intenti la politica e la burocrazia tendono a spegnere i motori, da un lato per una sorta di indolenza da ultimo di giorno di scuola, dall’altro per non concedere vantaggi a chi arriverà.

Il caso più eclatante scaturito da questa pericolosa miscela di immobilismo e menefreghismo è quello della cultura. L’esempio dei teatri cittadini affamati da una guerra tra bande nei palazzi della politica è cruciale. In questi casi l’imperativo politico è quello di prendere decisioni soltanto quando non ci sono più alternative. Attenzione, questa logica non è nuova e non l’hanno inventata a Palermo: ne ha parlato lo scorso anno Alessandro Baricco quando ha tratteggiato i limiti della cosiddetta “intelligenza novecentesca”. “Se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare”, ha scritto. “L’intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo scorso, i pezzi persi non si possono più recuperare”.
La politica isolana chiamata a decidere su arte e cultura si muove quando non ci sono più alternative. Col risultato di non scegliere, di non imprimere un’orma: però senza alternative non si prendono decisioni e si è ostaggi (quantomeno) di se stessi.
Quando ci si muove per emergenze (vale non solo per la cultura, ovviamente) non si esercita nessun ruolo di indirizzo, di governo. Quella delle spalle al muro non è una strategia, ma una resa. Tutto ciò innesca un circolo vizioso: se al governante non interessa la sopravvivenza degli artisti, il popolo che gli andrà appresso non si accorgerà più della morte della cultura perché nessuno avverte la mancanza di ciò che non conosce o che ha dimenticato. È qualcosa che accade ogni giorno, col benaltrismo applicato alle mille emergenze di una città sporca e affamata (non solo di cibo), con l’irritante sentire comune per cui c’è sempre qualcosa di più importante di cui discutere quando il problema non riguarda traffico e immondizia, con il trionfo dell’improvvisazione e il divieto assoluto di pianificare.

C’è poi il capitolo più inquietante. Quello dell’innovazione.

Per troppo tempo il futuro e la cultura sono stati considerati temi distanti tra loro. La Sicilia è terra di passato per eccellenza, monumento e simbolo di storia. I nostri scrigni d’arte brillano di luce propria.
Ribadiamolo: del passato si dovrebbero occupare gli storici, del presente i burocrati, del futuro i governi. Ora, in vista dell’ennesima tornata elettorale c’è solo una rivoluzione obbligata, quella del futuro (di cui abbiamo abbondantemente parlato qui). Ma per arrivare al futuro è vincolante dichiarare che il presente è un investimento che può avere costi altissimi.
È come costruire una metropolitana in una città dalla mentalità medioevale (ve ne viene in mente qualcuna?): anni di scavi, sacrifici per i cittadini, disagi tremendi, polvere, clacson, soloni urbanisti, cialtroni urbanisti, cialtroni e soloni senza specializzazione. Si paga oggi per ciò che servirà domani. E la verità è che il governante che si impegna a prendersi i fischi e gli improperi per quei lavori si sta curando del futuro di quegli stessi cittadini che lo maledicono. Ma è complicato da spiegare se non esiste una mentalità che inquadra le cose nel loro divenire e invece le fotografa e basta.
A questo serve la cultura. A dare l’inquadratura giusta, a fungere da terza dimensione per donare profondità persino alle urgenze più fastidiose: soffri oggi per godere domani e sempre.
Si dice innovazione e si pensa ai computer o al wi-fi libero, che sono cose che da sole non servono a un tubo. La vera innovazione sta nel provare a uscire dalla famosa “intelligenza novecentesca” di cui sopra. Serve una visione nuova che ci imponga di addestrarci per affrontare una realtà che cambia a velocità vertiginosa. Provate a frequentare un ufficio pubblico per testare la volontà di adattamento, la capacità di reazione. Si fanno leggi e regolamenti per situazioni statiche che mai si verificheranno nella realtà e si cerca di cristallizzare decisioni che riguardano ambiti estremamente fluidi. Si usa la flessibilità solo per costringere i lavoratori a orari più elastici, quindi per un uso magari mortificante, ma non la si prende minimamente in considerazione per agevolare, chessò, un progetto artistico che merita.
Innovazione è premiare la competenza e proteggerla dalle scorribande dei caporioni di quella politica che usa i voti come carta moneta. È soprattutto giocare a carte scoperte, senza blindature partitiche né adunate populistiche. Se ci pensate, la prima cosa che i candidati a sindaco fanno è andare a stringere mani e imbastire promesse nei mercati popolari.
Avete mai visto uno che fa la stessa cosa in un teatro, in una libreria, in un museo?

Stiamo lavorando per voi

Teatro Massimo di Palermo, 13 e 14 maggio 2022.
Qui le info.
Ma ne riparleremo.

“Siete pazzi!”

Niente peana per Francesco Giambrone che lascia il Teatro Massimo di Palermo e va a fare il sovrintendente dell’Opera di Roma. Solo la felicità per un amico che intraprende un nuovo percorso e l’occasione per mettere in ordine alcuni ricordi. Perché quando il futuro ci viene incontro velocemente, come nel caso di un avvicendamento al vertice o di una nomina importante, è bene ricordare da dove si proviene e chi si è stati. Con Francesco la mia avventura al Teatro Massimo è cominciata il giorno di ferragosto di sette anni fa. In una Palermo deserta e torrida mi chiamò e mi disse: ci vediamo?

Ci vedemmo. Io allora mi occupavo di tutt’altro e avevo chiuso con Palermo. Lui mi chiese di dargli una mano con la comunicazione del teatro, soprattutto con i nuovi media. Accettai e andò bene. Del resto almeno in principio non era difficile: il teatro era all’anno zero su quei fronti e anche la creazione di un account social rappresentava una rivoluzione copernicana. Francesco è una persona che ha coraggio, ma la sua dote principale sta nel sapere dove trovarne un surplus quando serve: sa ascoltare anche in situazioni di caos, non decide mai per partito preso. È un leader abile e persino divertente in certi frangenti. Tutti (ri)conoscono i suoi meriti. Io mi permetto di mettere in fila poche cose, magari marginali nella visione classica di una fondazione lirico sinfonica, ma preziose per tutti quelli che hanno apprezzato il nostro lavoro in questi anni.

Perché se siamo riusciti a fare delle cose folli (“Siete pazzi!”, era la sua frase tipica accompagnata dall’immancabile risata), è soprattutto per merito suo e del suo buon gusto (e, allora, dell’estro sconfinato di Oscar Pizzo). Abbiamo fatto concerti con le navi, abbiamo fatto maratone Beatles, abbiamo fatto esperimenti di realtà aumentata con Google Art & Culture, abbiamo scalato montagne, abbiamo raccontato la mafia e i suoi misteri, abbiamo stupito il mondo con una webtv tirata su dal nulla, abbiamo portato il teatro nelle piazze, nei vicoli e dove non era mai arrivato (persino in una fattoria in mezzo alle galline), siamo finiti due volte sulla prima pagina del New York Times, abbiamo fatto dormire un centinaio di bambini di notte in teatro (sì, proprio così), abbiamo trasformato per un anno la Sala Grande in uno studio televisivo, abbiamo rivisto il concetto di gratuità, abbiamo messo al primo posto dei nostri pensieri i giovani e i deboli, soprattutto abbiamo combattuto contro tutte le diversità. Non sempre abbiamo vinto, ma sempre ce la siamo giocata: navigando controcorrente, barcamenandoci in inferiorità numerica, sfidando gli scettici per principio. Non era facile (e se lo fosse stato non ci saremmo divertiti). Spesso le idee più incredibili nascevano per caso, magari a cena o nella telefonata del mattino, insieme al caffè. O nel corso di tumultosi scambi di sms nel cuore della notte che finivano sempre per impraticabilità di campo: io tiratardi, lui mattiniero…

Il Teatro Massimo è un luogo di gente meravigliosa e di artisti di primo livello. Ma dentro, è inutile girarci intorno, c’è anche l’altra Palermo. Quella che percepisce il cambiamento come fumo negli occhi, quella che gode nel vedere un muro che si sbreccia perché gli ricorda le antiche care rovine di privilegi perduti. Ma è solo una piccolissima parte, seppur insidiosa e sempre pronta alla restaurazione. Ora si volta pagina e, come si dice in questi casi, il programma non prevede insuccessi. Non aggiungo altro per scaramanzia, rispetto dei ruoli e, ancora, amicizia.
Buon lavoro, Francesco caro.

100%

Venti mesi tra buio fitto e penombra. Venti mesi duri, durissimi. Oggi finalmente la luce. Quando ho saputo che da lunedì i teatri italiani potranno ritornare al 100 per cento della capienza, quei venti mesi mi sono passati davanti agli occhi come un film, e perdonate la scontatezza: in fondo c’è sempre qualcosa che ci scorre davanti come un film… Eppure davvero di film si trattava e non solo per trita metafora. Perché questo arco di tempo infinito – venti mesi di emergenza pandemica possono essere atroci come venti anni o due secoli – sono stati per me un film, un film vero, da rivedere, magari da correggere, comunque su cui riflettere, di cui inorgoglirsi, per il quale commuoversi.

Il film del Teatro Massimo di Palermo lo avete visto in tanti: sui vostri smartphone, sui computer, sulle smart tv, sulle reti televisive ufficiali. Per più di un anno questo film è stato l’unico mezzo di collegamento tra un teatro e il suo pubblico sparso per il mondo, recluso contronatura in ogni landa del pianeta, eppure unito nel godere quasi clandestinamente di un’arte che sembrava diventata un frutto proibito.

La natura che impone la dittatura del contronatura.

Non abbiamo mai chiuso neanche quando eravamo chiusi. Abbiamo sudato nelle nostre mascherine per togliere la maschera a una visione ipocrita della cultura che vorrebbe piegare l’arte alle piccole (!) contingenze dell’umano. Ci dicevano, dicevano e scrivevano: meglio fermare tutto e aspettare la fine dell’emergenza. Invece noi tiravamo dritto con la stessa follia con la quale, molto prima degli altri (perdonatemi uno sbuffo di immodestia), aprivamo una finestra nel web dalla quale godere dello spettacolo di cui allora godevano in pochi. Ci siamo detti: facciamo musica, creiamo, mettiamo su spettacoli anche a teatro chiuso. E lo abbiamo fatto subito.
Subito.
In piena pandemia.
In piena confusione istituzionale.
In pieno vuoto di potere culturale.
Abbiamo, ognuno per la sua parte (così mi rifaccio dell’immodestia di cui sopra), messo su una stagione esclusivamente per il web con opere pensate esclusivamente per il web.

Non potendo governare il futuro, di cui vi ho parlato da queste parti, lo abbiamo inseguito con l’illusione di poter affrontare almeno qualche curva insieme senza respirare la polvere di chi aspetta che siano gli altri a fare strada.  

E lo abbiamo fatto senza renderci conto che quei passi nel buio sarebbero stati determinanti nelle nostre vite professionali e non solo. Oggi se guardo indietro trovo i migliori spunti per ciò che farò domani. Un Teatro chiuso e buio trasformato in un grande set cinematografico per tutto questo tempo è la migliore metafora per il Teatro che da dopodomani tornerà a essere il vecchio caro Teatro Massimo con 1.200 e passa posti disponibili, il più grande d’Italia e il terzo in Europa.

Nasciamo tutti al buio, il resto è rivoluzione.