Chi fa cosa

Chi fa cosa. Tre parole per stabilire la differenza tra un progetto a cazzo e uno che ha qualche possibilità di riuscita. Siamo circondati prevalentemente da due categorie di persone: quelli che non vogliono fare nulla e quelli che vogliono fare tutto loro. In mezzo, componente minoritaria al limite della categoria protetta, quelli che fanno solo quello che sanno fare senza rubare il lavoro agli altri e senza risparmiarsi sul proprio.

Chi fa cosa è anche un buon esercizio di fiducia e di responsabilità.
C’è una regola che usiamo coi miei amici quando si cucina insieme: se uno mette una pietanza in forno è tenuto a controllarla lui, con assoluto divieto di demandare ad altri.
Chi fa cosa è anche un modo per premiare il merito. Mi è capitato spesso di trovarmi sottoposto a giudizi di ogni genere: personali, professionali, artistici, eccetera.
Li ho accettati tutti, e mentirei se dicessi che l’ho fatto sempre volentieri: nessuno gode nel sentirsi scansato, pestato, sminuito.
Il problema è il chi fa cosa, appunto. Che non va confuso col diritto di critica, che è garantito sin quando non si entra in competenze concorrenti, in precari ambiti gerarchici, in sistemi professionali blindati.

Insomma io posso dire a un light designer che il suo progetto non mi convince, ma non posso sostituirmi a lui e fare di testa mia: perché non ho la sua professionalità, la sua arte, non ho studiato quello che ha studiato lui, inoltre parlo solo per il mio gusto. E coi gusti, che spesso sono capricci, non si fa innovazione (ma di questo parleremo in modo approfondito un’altra volta).

Il chi fa cosa, osservato in modo rigoroso, serve a costruire il migliore dei progetti, quello che porge al mondo un cibo diverso che va sottoposto a giudizio: se è migliore degli altri è giusto che viva e proliferi, altrimenti non è uno scandalo se soccombe.     

La privacy del moscerino

Perché gli scienziati stanno anni a violare la privacy di un moscerino? Perché allevano topi? Perché studiano una particolare tartaruga? Perché per ricerche che vanno dallo scorpione africano a una nuova navicella spaziale spendiamo un botto di soldi? Perché ci sono laureati pagati per scrutare il cielo di notte?
C’è una risposta breve che riguarda il nostro nuovo modo di comunicare: perché la scienza è il contrario di un social network in quanto guarda lontano, non è interessata alla compulsività e cerca dove nessuno ha trovato. Quindi in un mondo stratosfericamente diverso da una qualsiasi timeline.

La risposta più lunga invece riguarda la lungimiranza e la caparbietà. La dottoressa Katalin Karikò e il dottor Drew Wiessman iniziarono le loro ricerche sull’Rna messaggero una ventina di anni fa, quando il Covid non esisteva neanche nei nostri incubi peggiori. Nel 2023 hanno ricevuto il premio Nobel per una scoperta che fecero nel 2005. La loro ricerca, come quella di moltissimi altri scienziati, non si occupava di cose pratiche (brevetti, applicazioni immediate) ma di conoscenza e di comprensione dei fenomeni naturali. Funziona così nella scienza, lo sa chi ha studiato come sono stati scoperti i raggi X o gli antibiotici.
Guardare dove gli altri non hanno trovato.
Sopportare chi ti accusa di perdere tempo.
Schivare chi cerca la monetizzazione immediata.
Questo fanno gli scienziati e gli innovatori in generale, ma soprattutto gli scienziati, che stanno agli antipodi dei nuovi arroganti di cui parlavamo qualche settimana fa. Molto dobbiamo a questi discreti signori che spiano moscerini, allevano topi, seguono la vita di una tartaruga, tampinano lo scorpione africano perché hanno intravisto qualcosa. Sono persone che non solo hanno una testa (!!!), ma ce l’hanno che rimbomba di domande: come? Perché? E nel cercare una risposta costruiscono un mondo che può illudersi di essere migliore (dove chi studia sta al timone e chi non sa nulla prende ordini senza fiatare).

P.S.
L’ultima parentesi mi è scappata dalle mani, ma fate finta di niente…

I nuovi arroganti e il fattore Van Halen

Nella dialettica quotidiana, che sia politica, che sia sociale, che sia lavorativa c’è un frangiflutti col quale devono avere a che fare le onde del cambiamento. Uno che arriva e dice “così non mi piace”. Che è l’irruzione del sentimento nella scienza, dell’egoismo nell’arte, della grettezza nella lungimiranza.
Cambiare e innovare sono attività complesse praticamente anarchiche. Non si impone un cambiamento, lo si accompagna, lo si sollecita, lo si stimola. Anche tra le quattro mura di casa, pensateci bene, quando uno dice “basta, da domani si fa come dico io” ha già firmato la sua sconfitta.

Negli anni ’80 fece scalpore un famoso contratto dei Van Halen in cui c’era una clausola, tra mille altre, che imponeva agli organizzatori dei loro concerti una ciotola di M&M’s da cui erano stati tolti tutti i confetti marroni: una cosa perentoria, della serie se ne becchiamo uno solo di quelli del colore sbagliato vi facciamo un culo così. Un decennio dopo nella sua biografia David Lee Roth spiegò, in modo a dir vero poco convincente, che data la complessità delle richieste tecniche della rock band a quei tempi la clausola serviva come cartina di tornasole per capire se gli organizzatori avevano davvero letto tutto il contratto.

La storiella serve per farci capire la fallacità delle soluzioni imposte senza un ragionamento. Che si ritorcono contro chi ci costruisce una legittimazione a prescindere. Per dire, coi Van Halen l’utilità degli M&M’s come test era facilmente aggirabile data la vistosità della richiesta: niente confetti marroni proprio per far finta di aver letto il contratto con attenzione. Insomma, alla fine il totem diventava un possibile rifugio sotto il quale nascondere la polvere ramazzata sul palcoscenico e i cavi non passati correttamente.

Il “così non mi piace” senza motivazione che non sia il proprio gusto ha molto a che fare con questa storiella. Perché ci dice che il nuovo – ogni tipo di nuovo – non si costruisce con i gusti di chi non ha gusto (altrimenti non direbbe “così non mi piace”, ma “hai provato così?”), bensì col rispetto delle competenze: del resto l’innovazione è la trovata di uno che se ne fotte e grida a tutti “io non so, ma credo che così possa davvero piacere!”.

Mi è capitato molte volte di trovarmi davanti a persone che usano il passato come alibi o, ancora peggio, come mezzo di ricatto: non conosco un nemico del nuovo in buona fede. Sono sempre fuggito e, per mia fortuna, mi sono sempre ritrovato su una scialuppa mentre la loro nave alla fine affondava: affondava sempre. Non ne ho mai gioito, però ho sviluppato una certa insofferenza verso chi usa il sentimento, cioè la parte meno attendibile di noi, per giudicare un lavoro, un decreto, un’opera, un parere. È il grande problema di oggi. Viviamo in un’epoca in cui tutti si sentono Van Halen e nessuno ne ha il talento. Quanta pietà (nostalgia?) per gli M&M’s marroni.

Purismi

Lavorando in un teatro d’opera, scrivendo per mestiere e invecchiando con allegra libertà sono sempre alle prese con le esigenze (altrui) di purismo. Avvertenza per il lettore: il concetto di purismo che qui affronto non ha nulla a che fare con lo storico movimento che tende(va) “a considerare la tradizione linguistica nazionale come qualcosa che deve essere mantenuto incontaminato da influenze lessicali, sintattiche, morfologiche e fonetiche straniere non solo per ragioni funzionali ma anche per ragioni affettive”. Il “mio” purismo ha più a che fare con una stretta osservanza della tradizione, con l’inchino nei confronti di ciò che è classico: diciamo che è qualcosa che sta sull’altra sponda rispetto all’innovazione; non distante, ma di fronte.
Questo tipo di atteggiamento conservatore non va deprecato, è legittimo e ha una sua utilità: i custodi dell’ortodossia servono sempre, sono depositari di una quota di memoria che non va usata come catalizzatore di nostalgie, bensì come perno sul quale far girare nuove idee.
In particolare mi interessa qui ribadire un antico concetto sulla modernità (e ci scappò l’ossimoro): il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.

Negli ultimi mesi ho avuto a che fare con giovani e giovanissimi in università e scuole. Ho incontrato ragazzi in gamba e meno in gamba, autentici gioielli e figure opache. Ma tutti mi hanno scioccato su una cosa: non conoscono i giornali. Alla domanda “dimmi i nomi di almeno due giornali siciliani” praticamente nessuno di loro è stato in grado di darmi una risposta esaustiva.
Se avessi seguito la mia logica novecentesca avrei dovuto indignarmi, ma siccome occuparsi di futuro significa sforzarsi di galleggiarci dentro, ho tirato un sospiro e ho realizzato che quella è la loro ortodossia, è il principio della loro nuova memoria. I giornali sui quali siamo cresciuti, su quali ci siamo accapigliati non esistono più. Esistono altri prodotti, contaminati e un po’ emergenziali, che dovranno imparare a gestire uno dei beni più importanti per la crescita di una generazione: il sapere della cronaca.

Non voglio sbilanciarmi, ma credo che nelle aziende editoriali le idee non siano troppo chiare in tal senso. A ogni modo queste righe non servono per ispirare nuove fabbriche di news, ma per scavare sentieri per il nuovo pubblico: che sia giornale, teatro, cinema, libri, il sistema dell’apprendimento è un flusso che scorre tra due capi e se ne manca uno, non funziona un bel niente.
Il nuovo pubblico dobbiamo essere noi a plasmarlo, intercettando le sue inclinazioni ma mantenendo il nostro diritto a sperimentare. I successi di oggi non hanno nulla a che fare con quello che accadrà l’anno prossimo. La logica di un aureo mantenimento, come un salvagente per non annegare, è proprio quella perdente. Se c’è un momento in cui bisogna rischiare, credo che sia questo: sparigliando, scommettendo.
Il purismo crede di essere un baluardo della preservazione di un bene comune, mentre rischia di esserne il killer più spietato.

Serve coraggio per imbastire nuovi programmi che guardino a dopodomani, programmi che magari non ci risultino pienamente compiuti ma che ci creino suggestioni: il futuro inizia sempre con una sensazione vaga.
Serve la saggezza di dire “io questa cosa non la so fare quindi mi rivolgo a chi la sa fare”.
Serve soprattutto finirla di essere isole senza traghetto e cominciare a ordire trame a lungo termine, tutti insieme, senza preclusioni. E questo è il più difficile dei banchi di prova di chi amministra, di chi governa, di chi decide e sceglie con chi decidere.

Se ci fosse un partito per la cultura del sano stupore lo voterei immediatamente.  

Cerco portatori di idee

La faccio breve. Devo scrivere una cosa nuova, teatrale.
Cerco giovani che abbiano idee di videografica, di narrazione digitale, idee insomma.
Non mi servono attori, storyteller, musicisti, videomaker. Quelli ce li ho.
Ripeto mi servono idee di narrazione digitale in ogni forma possibile.
Contattatemi in privato e siate brevi ed efficaci. Ve la giocate tutta in poche righe insomma.

A voi.

Se i teatri non interessano alla politica

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Tutto è più difficile quando in una città come Palermo, in una terra come la Sicilia, si avvicinano le elezioni. Perché nell’attesa del momento cruciale del voto – l’appuntamento elettorale è ontologicamente compreso nella categoria di “cose in divenire” – non si trova nulla di meglio da fare che rallentare, diluire, fermarsi. In un raro momento di comunità d’intenti la politica e la burocrazia tendono a spegnere i motori, da un lato per una sorta di indolenza da ultimo di giorno di scuola, dall’altro per non concedere vantaggi a chi arriverà.

Il caso più eclatante scaturito da questa pericolosa miscela di immobilismo e menefreghismo è quello della cultura. L’esempio dei teatri cittadini affamati da una guerra tra bande nei palazzi della politica è cruciale. In questi casi l’imperativo politico è quello di prendere decisioni soltanto quando non ci sono più alternative. Attenzione, questa logica non è nuova e non l’hanno inventata a Palermo: ne ha parlato lo scorso anno Alessandro Baricco quando ha tratteggiato i limiti della cosiddetta “intelligenza novecentesca”. “Se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare”, ha scritto. “L’intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo scorso, i pezzi persi non si possono più recuperare”.
La politica isolana chiamata a decidere su arte e cultura si muove quando non ci sono più alternative. Col risultato di non scegliere, di non imprimere un’orma: però senza alternative non si prendono decisioni e si è ostaggi (quantomeno) di se stessi.
Quando ci si muove per emergenze (vale non solo per la cultura, ovviamente) non si esercita nessun ruolo di indirizzo, di governo. Quella delle spalle al muro non è una strategia, ma una resa. Tutto ciò innesca un circolo vizioso: se al governante non interessa la sopravvivenza degli artisti, il popolo che gli andrà appresso non si accorgerà più della morte della cultura perché nessuno avverte la mancanza di ciò che non conosce o che ha dimenticato. È qualcosa che accade ogni giorno, col benaltrismo applicato alle mille emergenze di una città sporca e affamata (non solo di cibo), con l’irritante sentire comune per cui c’è sempre qualcosa di più importante di cui discutere quando il problema non riguarda traffico e immondizia, con il trionfo dell’improvvisazione e il divieto assoluto di pianificare.

C’è poi il capitolo più inquietante. Quello dell’innovazione.

Per troppo tempo il futuro e la cultura sono stati considerati temi distanti tra loro. La Sicilia è terra di passato per eccellenza, monumento e simbolo di storia. I nostri scrigni d’arte brillano di luce propria.
Ribadiamolo: del passato si dovrebbero occupare gli storici, del presente i burocrati, del futuro i governi. Ora, in vista dell’ennesima tornata elettorale c’è solo una rivoluzione obbligata, quella del futuro (di cui abbiamo abbondantemente parlato qui). Ma per arrivare al futuro è vincolante dichiarare che il presente è un investimento che può avere costi altissimi.
È come costruire una metropolitana in una città dalla mentalità medioevale (ve ne viene in mente qualcuna?): anni di scavi, sacrifici per i cittadini, disagi tremendi, polvere, clacson, soloni urbanisti, cialtroni urbanisti, cialtroni e soloni senza specializzazione. Si paga oggi per ciò che servirà domani. E la verità è che il governante che si impegna a prendersi i fischi e gli improperi per quei lavori si sta curando del futuro di quegli stessi cittadini che lo maledicono. Ma è complicato da spiegare se non esiste una mentalità che inquadra le cose nel loro divenire e invece le fotografa e basta.
A questo serve la cultura. A dare l’inquadratura giusta, a fungere da terza dimensione per donare profondità persino alle urgenze più fastidiose: soffri oggi per godere domani e sempre.
Si dice innovazione e si pensa ai computer o al wi-fi libero, che sono cose che da sole non servono a un tubo. La vera innovazione sta nel provare a uscire dalla famosa “intelligenza novecentesca” di cui sopra. Serve una visione nuova che ci imponga di addestrarci per affrontare una realtà che cambia a velocità vertiginosa. Provate a frequentare un ufficio pubblico per testare la volontà di adattamento, la capacità di reazione. Si fanno leggi e regolamenti per situazioni statiche che mai si verificheranno nella realtà e si cerca di cristallizzare decisioni che riguardano ambiti estremamente fluidi. Si usa la flessibilità solo per costringere i lavoratori a orari più elastici, quindi per un uso magari mortificante, ma non la si prende minimamente in considerazione per agevolare, chessò, un progetto artistico che merita.
Innovazione è premiare la competenza e proteggerla dalle scorribande dei caporioni di quella politica che usa i voti come carta moneta. È soprattutto giocare a carte scoperte, senza blindature partitiche né adunate populistiche. Se ci pensate, la prima cosa che i candidati a sindaco fanno è andare a stringere mani e imbastire promesse nei mercati popolari.
Avete mai visto uno che fa la stessa cosa in un teatro, in una libreria, in un museo?

La frase più pericolosa

A un certo punto arriva il momento cruciale. Quello in cui ti scontri con la fatidica frase: “Abbiamo sempre fatto così”.
È, come annotò Grace Murray Hopper, la frase più pericolosa in assoluto.
Di momenti cruciali è fatta la mia vita e, non stento a crederlo, anche la vostra. Ma ogni volta che sento quella frase, suona dentro di me un campanello.
Dove ho sbagliato?
E mi viene voglia di scappare su un altro pianeta e aspettare che mi passi confidando che non mi passi perché le nostre scelte più ardite sono sempre un passo sulla corda tesa che si muove lentamente nel vuoto, e il vuoto attrae e respinge, attrae e respinge fino a quando non c’è più: perché lo hai superato o lo hai raggiunto.
“Abbiamo sempre fatto così”.
È peggio di “non si può fare”, poiché non trancia con presunzione, ma giustifica col peggio che si possa usare quando c’è di mezzo il nuovo: la consuetudine, cioè il veleno delle idee.

Quando Italo Calvino scrisse le sue “Lezioni americane” non c’era internet, non esistevano i personal computer e neanche i software per scrivere testi, come quello che sto usando in questo momento.

Apro una parentesi. Le “Lezioni americane” è il libro che mi ha cambiato la vita. Lo lessi molti anni fa durante una spedizione in alta montagna e ricordo ancora l’effetto shock che ebbe sulla mia mente che pure era felicemente impegnata tra salite in ghiacciaio e discese in fuori pista. Chiusa la parentesi.

In questo prezioso saggio Calvino consiglia di ripulire la scrittura dalla pesantezza, dall’inerzia e dall’opacità del mondo, spezza una lancia a favore delle forme brevi, esalta a usare la scienza e le belle arti come paradigmi di simmetria e precisione del linguaggio, butta ponti tra l’immaginario e le immagini per conferire all’aspetto visivo uno status letterario. Fa anche un sacco di altre cose, ma magari ve lo leggete e se non avete di meglio da fare ne parliamo.
Insomma Calvino anticipa l’importanza dei blog, delle sceneggiature delle serie tv, persino dei post sui social network, come se li avesse previsti. Perché era profondamente convinto che il nuovo millennio sarebbe stato tecnologico.
Chi sarebbe stato il suo peggiore nemico?
Uno che avrebbe detto: “Abbiamo sempre fatto così”.
Oggi in piena era di restaurazione – l’ignoranza colpevole al pari dell’ignavia è una pena grave dinanzi al tribunale dell’innovazione – il ritorno agli antichi riti nella politica, nella cultura, nella finta egemonia sociale del mainstreaming è cosa fatta.
Si rimpiange il passato, soprattutto quello mefitico, per nascondere la paura per il futuro.
Si alza la polvere per confondere, senza tener conto che alla prima pioggia quella polvere diventerà fango.
Si usa la modernità per sfornare medaglie da appendere a petti anziani che nulla sanno di quei metalli e delle fatiche per forgiarli.
Spegnere scintille di novità è il compito dei poliziotti al servizio della grettezza. L’arte, ricordiamocelo, è perenne ostaggio dei tiranni di ieri e di oggi, che abbiano artigli o server, armi atomiche o “bestie” da social media. La politica, con quel che ne consegue, va difesa da violenti e algoritmi con una mossa semplice: rinnegare chiunque pronunci quella frase.

Prima del sonno della ragione c’è lo sbadiglio. E ci sono troppe facce sformate intorno a noi.  

C’era una volta

Il nuovo non avanza, si insegue, si stana, C’è questa insana idea che l’innovazione ci debba raggiungere comunque, ineluttabilmente come le tasse, la morte e il silenzio di Badalamenti (cit.). Invece no, e che a ricordarlo qui debba essere un tizio come il sottoscritto che ha più strada alle spalle che futuro davanti è divertente (almeno per me).
L’idea del futuro è qualcosa che ti prende alle spalle, senza un motivo apparente.
E per spiegare bene vi racconto due brevi episodi della mia vita.

Metà anni ’90, Giornale di Sicilia. Ero vice caporedattore, capo delle Cronache Siciliane, e nel quasi totale disinteresse di una redazione analogica guardavo oltre. Mi interessava questa strana macchina virtuale che metteva in comunicazione le persone del mondo con un paio di clic, ci si scambiavano esperienze, musica,  deliri notturni. Perché era di notte che vivevamo a quei tempi, noi smanettoni. Tutti gli altri ci guardavano storto, poiché il web percepito era allora legato alla clandestinità delle sensazioni: e poco importava se era scambio di files o di numeri di telefono. Noi eravamo marchiati. Al giornale eravamo in due: io e Daniele Billitteri. Parlavamo la stessa lingua, anche perché lavoravamo insieme già da oltre un decennio. E solo dopo una manciata di anni sarei riuscito a convincere l’editore che non bastava un modem semiclandestino a mettere in moto il cambiamento.
Il resto è storia. Il sito del Gds venne varato con grande successo di pubblico e poi inspiegabilmente chiuso per cinque anni. Anni in cui da spento come testimoniai su queste pagine da spento il gds.it faceva oltre tremila utenti unici al giorno. Insomma, ogni giorno tremila persone si collegavano per guardare un monoscopio. E l’editore non ne sapeva nulla, nel migliore dei casi.
Oggi il Gds sta affondando e la gestione dell’online è uno dei capitoli cruciali del “come non si fa”: roba da studiare all’università.

Agosto 2014, Teatro Massimo di Palermo. Il sovrintendente Francesco Giambrone mi chiede di riposizionare il Teatro sul web e non solo. Accetto al buio per due motivi: conosco e stimo Francesco da molti anni e soffro per come il teatro è nudo e disarmato di fronte a qualsiasi tipo di innovazione. Mi invento una web tv, accendo i riflettori dei social, metto su un sito degno di questo nome, e si va. Soprattutto mi prende alle spalle l’idea, quella idea che altrimenti avrei temuto… sì, quella : mandiamo GRATIS online tutte le prime delle nostre opere, con sei telecamere, in full hd.
Ma come? E se le diamo gratis, chi se lo compra il biglietto? Se lo chiedono molti dinosauri della burocrazia, ma non Giambrone. Che, senza battere ciglio, si fida e mi dà carta bianca. Non ne ho mai parlato prima d’ora, ma credo che la sua lungimiranza sia stato il catalizzatore ideale per la mia follia.
Oggi il Teatro Massimo ha una partnership consolidata con Google (ultimamente anche con YouTube), è finito sulla prima pagina del New York Times anche per la sua attività sul web, e ha una web tv che non sfigura in campo mondiale.

Perché vi ho raccontato queste storie?
Perché nel mio minuscolo servono a testimoniare che, anche e soprattutto nei momenti complicati, l’innovazione è un’idea che deve volare libera dai lacciuoli dell’ordinarietà. Sennò è buona amministrazione, o lucida burocrazia, altra cosa comunque.
Le migliori idee vengono sempre quando si è senza guinzaglio (o quando anche per poco al guinzaglio si è sfuggiti). E non è detto che siano buone, la percentuale di rischio dà il valore umano, professionale e intellettuale di chi le avalla. Perché farsele venire è una cosa, approvarle è un’altra.

Siamo in un’epoca difficile e per questo dobbiamo pensare a nuovi grimaldelli, nuove chiavi di lettura, nuovi parametri per catalogare gli items che ci circondano.
E se lo faccio io che, proprio in questo momento, sento per la prima volta sul groppone tutto il peso dei 57 anni accumulati spesso barando nelle mie sei-sette vite, non vorrete non farlo voi, giovani e forti?
Quindi pensate, pesate, agite.  Il mondo, oggi più che mai, è dei creativi o comunque di quelli che non hanno paura di mettersi a nudo per raccontare una storia che gli altri aspettano (anche se non lo sanno).

Sin quando ci sarà un “c’era una volta” ci sarà una volta. E una luce da spegnere su un bambino che prenderà sonno e che progetterà un mondo nuovo, con un futuro da stanare, inseguire.