Piano B

Quanti di voi si preoccupano di avere sempre un piano B? Io raramente. E questa risposta potrebbe cozzare con un’idea di cui abbiamo già discusso, quella dell’uscita di sicurezza.  Ma diciamolo subito, c’è una differenza abissale: mentre la sola vista dell’uscita di sicurezza è consolatoria quando meno ce n’è bisogno, il piano B serve ad affrontare un’emergenza quando si ventila che essa si possa manifestare. Insomma la prima ci rassicura che tutto è possibile anche quando non ci serve altro di possibile, il secondo serve ad arginare l’impossibile.

Difficilmente ho avuto piani B, in vita mia.

Mi sono schiantato una mezza dozzina di volte in curve strette e senza guardrail e non so ancora se mi sono salvato per fortuna, per miracolo o per merito. Di certo stilare piani B mi annoia a morte. Ipotizzare scialuppe di salvataggio col mare ancora forza 4, mettere i sacchetti di sabbia alle finestre alla prima pioggia, muoversi per colloqui di lavoro quando ancora manco ti hanno licenziato, cercare fidanzata quando la moglie sta solo pensando di mollarti per il primo che passa, sono tutte attività poco eccitanti. Perché non c’è gusto a mettersi il vestito buono preparandosi allo schianto fatale: il piano B non è il casco prima dell’incidente, quella è prudenza; è piuttosto prevedere la strada che farà l’ambulanza per raggiungerti il prima possibile.

Il piano B, anzi la sua inutilità, mi ricorda un mio indimenticabile maestro, Salvo Licata, che a noi giovani aspiranti giornalisti (in gergo “biondini”) dei primi anni Ottanta spiegava perché non prendeva mai appunti su cosa dire a una conferenza: “Perché ogni volta finisco per ignorare il foglio o per perderlo e mi ritrovo a raccontare l’esatto opposto di quello che avevo segnato”.
Per molti di noi, il piano B è solo un alibi per mettersi a posto con la coscienza facendo finta di ignorare il gran vantaggio di usare l’incoscienza.
Ecco, non è lo “stay foolish” di Steve Jobs, ma qualcosa di simile. Aspettando il piano B sottovalutiamo il piano A, oppure ci impigriamo in scelte di comodo (un piano B che si rispetti non è mai comodo), oppure ci perdiamo la fondamentale paura di perderci per ritrovarci più a valle, sudati, sporchi, affaticati ma ricchi di un’esperienza in più.
Ci piace stare comodi, ma è con la scomodità che ci alleniamo. Ci piace intorpidirci, ma è con l’adrenalina che ci eccitiamo. Ci piace il minimo garantito, ma è col massimo dell’incognito che davvero possiamo sentirci vivi. Non è per tutti e da tutti vivere senza piano B, lo capisco. Gran parte di chi riesce a rinunciarci è gente che conosco bene, senza famiglia, senza padrone, senza timori.
Una volta, in uno dei miei cammini, mi persi in un bosco in mezzo a un temporale. Stavo in un terreno scosceso senza sentiero e con un fango che cominciava a diventare torrente. In quell’atmosfera quasi da disastrer (B) movie il cellulare (ovviamente) non aveva campo e la mappa su carta rischiava di diventare una poltiglia. Dal nulla, dopo un’ora di scivoloni e bestemmie, mi apparve un cartello sbiadito appeso a un albero.
C’era scritto: “Di qua”. Senza una freccia, senza un “qua” plausibile.
Non so perché ma lo ritenni il canto del cigno di un qualsiasi piano B.

Buon Natale a tutti.

Grazie di cuore (bonsai)

Quando nacque questo blog, esattamente diciassette anni fa, era buio e non solo per l’orario. Vivevo in una casa non mia una vita non troppo mia, lavoravo in un’azienda editoriale nella quale non mi sentivo più gratificato (che avrei abbandonato di lì a poco) e avevo appena realizzato che il rischio da evitare negli anni a seguire non era la disoccupazione o la solitudine, bensì la noia.
Insomma cominciai a riempire queste pagine web per dare alla colonna sonora della mia esistenza un nuovo spartito. Solo dopo, molto dopo, mi resi conto che grazie a questo blog, oltre allo spartito, cambiavano anche i teatri e le orchestre (dapprima per metafora) che mi cercavano. Fu lì che iniziò la Somma Meraviglia: quella che mi spinse a non finire mai di ringraziare il Padreterno che mi aveva regalato la più grande soddisfazione per un professionista, e cioè fare un mestiere per il quale ti stupisci che ti paghino. L’ho raccontato più volte, grazie a questo blog ho cambiato mestiere almeno quattro volte in questi anni. E l’emozione più grande è stata quella di fare ciò che ho sempre sognato, e farlo perché non avrei potuto non farlo: come respirare, mangiare, bere, amare, correre, esplorare, inventarsi nuovi limiti da superare.
Quando cominciai qui, Facebook era appena uscito dall’alveo locale e debuttava sulla scena mondiale, Twitter era online da nove mesi, e per capire la caduta di Pinochet leggevo uno dei libri più indimenticabili della mia vita, “Ho paura torero” di Pedro Lemebel. Esistevano ancora i giornali, nonostante la bolla internettiana fosse già scoppiata. Palermo era la città più cool d’Italia.  

Oggi, diciassette anni dopo, mi rendo conto che in realtà poco è cambiato del mondo che mi circonda. Cioè sono cambiate le facce, le situazioni, gli incroci, ma gli ingranaggi sono sempre quelli. La staticità della politica e delle istituzioni (penso alla scuola, al mondo della cultura) è ancora un freno per il futuro. E invece nell’anno 2023 i problemi sono tutti legati al movimento, allo spostamento, ai flussi: dall’immigrazione ai testi universitari e scolastici, dalle stagioni teatrali alla comunicazione liquida, dai rapporti sociali alla scienza, dalle emergenze alle soluzioni ad esse.
Siamo rigidi, fermi. Di default.
E invece dovremmo essere mobili, flessibili, adattabili.
Cerchiamo la democrazia sul web quando non siamo in grado di rispettare il dissenso più semplice e nonviolento: un loggionista alla Scala che grida “Viva l’Italia antifascista”. Inseguiamo la verità anche laddove è chiara ed esplicita, perché una verità nascosta è spesso il Viagra del nostro ego moscio. Vogliamo essere moderni senza accettare la scomodità dell’innovazione, che è rivoluzione e trauma, e chiediamo al futuro di venir pure a farci visita, ma che non si vada oltre un tè e pasticcini nel salotto.
Eppure non è tutta ruggine e aria stantia.

Oggi sono andato a guardare quali sono stati i post più letti nel 2023 su questo blog. E non vi nascondo che la sorpresa c’è stata. A parte l’home page, cinque dei primi sei posti sono occupati da podcast, cioè da narrazioni pure: il podcast infatti richiede all’ascoltatore tempo e dedizione, non è roba che si consuma in un paio di minuti come questa sveltina di qualche riga. Ed è bello pensare che decine di migliaia di persone abbiano scelto di trascorrere ore con me, autore di un piccolo blog, artigiano della narrazione, senza avere la necessità di manifestarsi, prendendo quel che serve e lasciando il resto.
Chi scrive per mestiere e/o per passione non chiede altro che essere letto. Il resto non conta.
Per questo, anche per questo vi ringrazio con tutto il mio cuore bonsai.


Di seguito i link:

Il mago dei soldi
Porno mondo
Una favola storta
Invertiti, viaggio nelle differenze
Sedici
Il cammino, un pretesto di felicità
Il dio ateo del web
Fuochi e pistole
Non può succedere a me

P.S.
La foto alla quale affido questo momento di imperdonabile autocelebrazione è di Peppino Romano

I nuovi arroganti e il fattore Van Halen

Nella dialettica quotidiana, che sia politica, che sia sociale, che sia lavorativa c’è un frangiflutti col quale devono avere a che fare le onde del cambiamento. Uno che arriva e dice “così non mi piace”. Che è l’irruzione del sentimento nella scienza, dell’egoismo nell’arte, della grettezza nella lungimiranza.
Cambiare e innovare sono attività complesse praticamente anarchiche. Non si impone un cambiamento, lo si accompagna, lo si sollecita, lo si stimola. Anche tra le quattro mura di casa, pensateci bene, quando uno dice “basta, da domani si fa come dico io” ha già firmato la sua sconfitta.

Negli anni ’80 fece scalpore un famoso contratto dei Van Halen in cui c’era una clausola, tra mille altre, che imponeva agli organizzatori dei loro concerti una ciotola di M&M’s da cui erano stati tolti tutti i confetti marroni: una cosa perentoria, della serie se ne becchiamo uno solo di quelli del colore sbagliato vi facciamo un culo così. Un decennio dopo nella sua biografia David Lee Roth spiegò, in modo a dir vero poco convincente, che data la complessità delle richieste tecniche della rock band a quei tempi la clausola serviva come cartina di tornasole per capire se gli organizzatori avevano davvero letto tutto il contratto.

La storiella serve per farci capire la fallacità delle soluzioni imposte senza un ragionamento. Che si ritorcono contro chi ci costruisce una legittimazione a prescindere. Per dire, coi Van Halen l’utilità degli M&M’s come test era facilmente aggirabile data la vistosità della richiesta: niente confetti marroni proprio per far finta di aver letto il contratto con attenzione. Insomma, alla fine il totem diventava un possibile rifugio sotto il quale nascondere la polvere ramazzata sul palcoscenico e i cavi non passati correttamente.

Il “così non mi piace” senza motivazione che non sia il proprio gusto ha molto a che fare con questa storiella. Perché ci dice che il nuovo – ogni tipo di nuovo – non si costruisce con i gusti di chi non ha gusto (altrimenti non direbbe “così non mi piace”, ma “hai provato così?”), bensì col rispetto delle competenze: del resto l’innovazione è la trovata di uno che se ne fotte e grida a tutti “io non so, ma credo che così possa davvero piacere!”.

Mi è capitato molte volte di trovarmi davanti a persone che usano il passato come alibi o, ancora peggio, come mezzo di ricatto: non conosco un nemico del nuovo in buona fede. Sono sempre fuggito e, per mia fortuna, mi sono sempre ritrovato su una scialuppa mentre la loro nave alla fine affondava: affondava sempre. Non ne ho mai gioito, però ho sviluppato una certa insofferenza verso chi usa il sentimento, cioè la parte meno attendibile di noi, per giudicare un lavoro, un decreto, un’opera, un parere. È il grande problema di oggi. Viviamo in un’epoca in cui tutti si sentono Van Halen e nessuno ne ha il talento. Quanta pietà (nostalgia?) per gli M&M’s marroni.

Purismi

Lavorando in un teatro d’opera, scrivendo per mestiere e invecchiando con allegra libertà sono sempre alle prese con le esigenze (altrui) di purismo. Avvertenza per il lettore: il concetto di purismo che qui affronto non ha nulla a che fare con lo storico movimento che tende(va) “a considerare la tradizione linguistica nazionale come qualcosa che deve essere mantenuto incontaminato da influenze lessicali, sintattiche, morfologiche e fonetiche straniere non solo per ragioni funzionali ma anche per ragioni affettive”. Il “mio” purismo ha più a che fare con una stretta osservanza della tradizione, con l’inchino nei confronti di ciò che è classico: diciamo che è qualcosa che sta sull’altra sponda rispetto all’innovazione; non distante, ma di fronte.
Questo tipo di atteggiamento conservatore non va deprecato, è legittimo e ha una sua utilità: i custodi dell’ortodossia servono sempre, sono depositari di una quota di memoria che non va usata come catalizzatore di nostalgie, bensì come perno sul quale far girare nuove idee.
In particolare mi interessa qui ribadire un antico concetto sulla modernità (e ci scappò l’ossimoro): il fatto che il futuro avanza inesorabile non vuol dire che il passato non serva più a nulla.

Negli ultimi mesi ho avuto a che fare con giovani e giovanissimi in università e scuole. Ho incontrato ragazzi in gamba e meno in gamba, autentici gioielli e figure opache. Ma tutti mi hanno scioccato su una cosa: non conoscono i giornali. Alla domanda “dimmi i nomi di almeno due giornali siciliani” praticamente nessuno di loro è stato in grado di darmi una risposta esaustiva.
Se avessi seguito la mia logica novecentesca avrei dovuto indignarmi, ma siccome occuparsi di futuro significa sforzarsi di galleggiarci dentro, ho tirato un sospiro e ho realizzato che quella è la loro ortodossia, è il principio della loro nuova memoria. I giornali sui quali siamo cresciuti, su quali ci siamo accapigliati non esistono più. Esistono altri prodotti, contaminati e un po’ emergenziali, che dovranno imparare a gestire uno dei beni più importanti per la crescita di una generazione: il sapere della cronaca.

Non voglio sbilanciarmi, ma credo che nelle aziende editoriali le idee non siano troppo chiare in tal senso. A ogni modo queste righe non servono per ispirare nuove fabbriche di news, ma per scavare sentieri per il nuovo pubblico: che sia giornale, teatro, cinema, libri, il sistema dell’apprendimento è un flusso che scorre tra due capi e se ne manca uno, non funziona un bel niente.
Il nuovo pubblico dobbiamo essere noi a plasmarlo, intercettando le sue inclinazioni ma mantenendo il nostro diritto a sperimentare. I successi di oggi non hanno nulla a che fare con quello che accadrà l’anno prossimo. La logica di un aureo mantenimento, come un salvagente per non annegare, è proprio quella perdente. Se c’è un momento in cui bisogna rischiare, credo che sia questo: sparigliando, scommettendo.
Il purismo crede di essere un baluardo della preservazione di un bene comune, mentre rischia di esserne il killer più spietato.

Serve coraggio per imbastire nuovi programmi che guardino a dopodomani, programmi che magari non ci risultino pienamente compiuti ma che ci creino suggestioni: il futuro inizia sempre con una sensazione vaga.
Serve la saggezza di dire “io questa cosa non la so fare quindi mi rivolgo a chi la sa fare”.
Serve soprattutto finirla di essere isole senza traghetto e cominciare a ordire trame a lungo termine, tutti insieme, senza preclusioni. E questo è il più difficile dei banchi di prova di chi amministra, di chi governa, di chi decide e sceglie con chi decidere.

Se ci fosse un partito per la cultura del sano stupore lo voterei immediatamente.  

Per via di due culi

Vi racconto una storia che parla di culi. Proprio così, di culi e di futuro. Tranquilli, niente di scabroso. È una storia che inizia oltre duemila anni fa e che arriva intonsa sino ai giorni nostri.

Qui tutti gli altri podcast.

Gery Palazzotto
Gery Palazzotto
Per via di due culi
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Rami secchi

Ho sempre avuto un problema coi rami secchi. La mia propensione a tagliarli quando ancora avevano un che di verde e l’esitazione a bruciarli quando erano ormai decrepiti, hanno fatto sì che questi benedetti rami secchi dalle mie parti non abbiano mai fatto, nei tempi giusti, la fine che meritavano. Perché questo tipo di repulisti ha un valore se effettuato nel momento giusto: insomma se è importante sgombrare la vita dai pesi inutili, lo è ancora di più farlo quando si deve fare, non un minuto prima né un minuto dopo. Occhio, usualmente tendiamo a tirare fuori l’argomento per questioni di amore, quando invece gli ambiti più complessi e degni della massima attenzione sono altri: amicizia, lavoro, rapporti sociali. È lì che bisogna fare un giretto di ronda in più.

A parte le ragioni di ingombro, i rami secchi hanno una pericolosità insita, nascosta. Molti sembrano ancora solidi, in grado di reggere. Invece sono trappole: cedono di schianto facendoci precipitare nel vuoto della fiducia malriposta. E poi sono fuorvianti. Ci inducono a prendere sentieri ciechi: di chi è la colpa della loro trasformazione da solidi tronchi in fragili pezzi di legno? Perché è avvenuta? E quando è cominciata?
Tutte domande pressoché inutili giacché l’urgenza del ramo secco è nella sua essenza di non essenza. Sta lì, dove non deve più stare perché oltretutto è pericoloso nella stagione del fuoco. E di incendi prevenibili è fatta la nostra vita.

Se i teatri non interessano alla politica

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Tutto è più difficile quando in una città come Palermo, in una terra come la Sicilia, si avvicinano le elezioni. Perché nell’attesa del momento cruciale del voto – l’appuntamento elettorale è ontologicamente compreso nella categoria di “cose in divenire” – non si trova nulla di meglio da fare che rallentare, diluire, fermarsi. In un raro momento di comunità d’intenti la politica e la burocrazia tendono a spegnere i motori, da un lato per una sorta di indolenza da ultimo di giorno di scuola, dall’altro per non concedere vantaggi a chi arriverà.

Il caso più eclatante scaturito da questa pericolosa miscela di immobilismo e menefreghismo è quello della cultura. L’esempio dei teatri cittadini affamati da una guerra tra bande nei palazzi della politica è cruciale. In questi casi l’imperativo politico è quello di prendere decisioni soltanto quando non ci sono più alternative. Attenzione, questa logica non è nuova e non l’hanno inventata a Palermo: ne ha parlato lo scorso anno Alessandro Baricco quando ha tratteggiato i limiti della cosiddetta “intelligenza novecentesca”. “Se io sbaglio una serie di gesti, arriverà un momento in cui fare una cosa sbagliata sarà l’unica cosa giusta da fare”, ha scritto. “L’intelligenza novecentesca non trova soluzioni che non siano obbligate perché quel che sta giocando è un suo finale di partita, la posizione dei pezzi è da tempo determinata da strategie decise nel secolo scorso, i pezzi persi non si possono più recuperare”.
La politica isolana chiamata a decidere su arte e cultura si muove quando non ci sono più alternative. Col risultato di non scegliere, di non imprimere un’orma: però senza alternative non si prendono decisioni e si è ostaggi (quantomeno) di se stessi.
Quando ci si muove per emergenze (vale non solo per la cultura, ovviamente) non si esercita nessun ruolo di indirizzo, di governo. Quella delle spalle al muro non è una strategia, ma una resa. Tutto ciò innesca un circolo vizioso: se al governante non interessa la sopravvivenza degli artisti, il popolo che gli andrà appresso non si accorgerà più della morte della cultura perché nessuno avverte la mancanza di ciò che non conosce o che ha dimenticato. È qualcosa che accade ogni giorno, col benaltrismo applicato alle mille emergenze di una città sporca e affamata (non solo di cibo), con l’irritante sentire comune per cui c’è sempre qualcosa di più importante di cui discutere quando il problema non riguarda traffico e immondizia, con il trionfo dell’improvvisazione e il divieto assoluto di pianificare.

C’è poi il capitolo più inquietante. Quello dell’innovazione.

Per troppo tempo il futuro e la cultura sono stati considerati temi distanti tra loro. La Sicilia è terra di passato per eccellenza, monumento e simbolo di storia. I nostri scrigni d’arte brillano di luce propria.
Ribadiamolo: del passato si dovrebbero occupare gli storici, del presente i burocrati, del futuro i governi. Ora, in vista dell’ennesima tornata elettorale c’è solo una rivoluzione obbligata, quella del futuro (di cui abbiamo abbondantemente parlato qui). Ma per arrivare al futuro è vincolante dichiarare che il presente è un investimento che può avere costi altissimi.
È come costruire una metropolitana in una città dalla mentalità medioevale (ve ne viene in mente qualcuna?): anni di scavi, sacrifici per i cittadini, disagi tremendi, polvere, clacson, soloni urbanisti, cialtroni urbanisti, cialtroni e soloni senza specializzazione. Si paga oggi per ciò che servirà domani. E la verità è che il governante che si impegna a prendersi i fischi e gli improperi per quei lavori si sta curando del futuro di quegli stessi cittadini che lo maledicono. Ma è complicato da spiegare se non esiste una mentalità che inquadra le cose nel loro divenire e invece le fotografa e basta.
A questo serve la cultura. A dare l’inquadratura giusta, a fungere da terza dimensione per donare profondità persino alle urgenze più fastidiose: soffri oggi per godere domani e sempre.
Si dice innovazione e si pensa ai computer o al wi-fi libero, che sono cose che da sole non servono a un tubo. La vera innovazione sta nel provare a uscire dalla famosa “intelligenza novecentesca” di cui sopra. Serve una visione nuova che ci imponga di addestrarci per affrontare una realtà che cambia a velocità vertiginosa. Provate a frequentare un ufficio pubblico per testare la volontà di adattamento, la capacità di reazione. Si fanno leggi e regolamenti per situazioni statiche che mai si verificheranno nella realtà e si cerca di cristallizzare decisioni che riguardano ambiti estremamente fluidi. Si usa la flessibilità solo per costringere i lavoratori a orari più elastici, quindi per un uso magari mortificante, ma non la si prende minimamente in considerazione per agevolare, chessò, un progetto artistico che merita.
Innovazione è premiare la competenza e proteggerla dalle scorribande dei caporioni di quella politica che usa i voti come carta moneta. È soprattutto giocare a carte scoperte, senza blindature partitiche né adunate populistiche. Se ci pensate, la prima cosa che i candidati a sindaco fanno è andare a stringere mani e imbastire promesse nei mercati popolari.
Avete mai visto uno che fa la stessa cosa in un teatro, in una libreria, in un museo?

Prima che vi cali la palpebra

Vorrei fare un bilancio, ma è meglio di no. Ho già letto i vostri e in qualche modo ci ho trovato cose mie, anche se non ci conosciamo, o ci conosciamo e non ci piacciamo, o ci conosciamo e basta. Insomma c’è un limite umano ai desideri, soprattutto a quelli irrealizzati, che senso ha continuare a enumerarli? Discorso diverso per le sconfitte, quelle non si esibiscono, si analizzano, si metabolizzano per quel che è possibile e soprattutto si usano per imbarcarci nella più grande illusione ottica che la nostra socialità spicciola ci propone: dagli errori si impara sempre.
Niente di più falso. Non si impara nulla a meno che non si tratti di piccoli sbagli o di errate valutazioni pressoché matematiche. Non se ne esce migliori quasi mai. Perché un errore importante è il frutto di forze vettoriali che arrivano da lontano, che ci avviluppano e soprattutto che non rappresentano mai una attenuante (come invece ci piace credere).

Tuttavia non è di errori che volevo parlarvi. Potrei scriverne un trattato, ma sarebbe un modo imbarazzante per cercare di tirarsi fuori. No, no. Conosciamo tutti la capacità di attrazione che hanno le cose sconsiderate e non ha senso cadere nella solita trappola di mostrarci come perfetti avvocati nei confronti delle nostre cazzate e al contempo come severissimi giudici con quelle degli altri.

 Il punto è un altro. Vediamo se riesco a essere chiaro prima che vi cali la palpebra. Da molti anni, per via di quello che una volta si chiamava progresso e che oggi non si chiama in nessun modo ma attiene al senso di provvisorietà pandemico e cretinologico, non riusciamo a vivere pienamente il presente senza l’imbarazzo di credere di tralasciare il passato, e insieme senza la paura di non essere proiettati sufficientemente nel futuro. Paul Bloom ne ha scritto su The New Yorker identificando alcuni esempi.

“Possiamo avere un ‘pregiudizio sull’immediatezza’: mangiamo i popcorn quando il film sta per cominciare, anche se forse ce li potremmo godere di più aspettando. O un ‘pregiudizio sul futuro’: ci turba un compito spiacevole che dovremo svolgere domani, anche se non c’infastidisce per niente il ricordo di aver fatto un compito altrettanto sgradevole ieri. O forse abbiamo un ‘pregiudizio strutturale’, quando preferiamo una certa sequenza temporale per le nostre esperienze: pianifichiamo la vacanza in modo che la parte migliore arrivi alla fine. Secondo la filosofa Meghan Sullivan questi pregiudizi temporali sono errori”.  

Ecco è questo il punto, anzi l’unico punto del mio bilancio di questo 2021.
Non ce lo confessiamo facilmente, ma tendiamo a essere freddi e razionali quando pianifichiamo un futuro distante e invece perdiamo il controllo quando le tentazioni si avvicinano nel tempo.
Molto più spesso il passato lo vediamo in modo corale (famiglia, scuola, lavoro), mentre per il futuro abbiamo una soggettiva in prima persona: soli, nudi, magari illusoriamente coraggiosi.
Non ho lezioncine da dare, sono stato disarcionato da tempo da qualunque ruolo preveda una cattedra, uno scranno, persino uno strapuntino. Però a occhio e croce credo che qualsiasi persona di buon senso debba imparare a vivere, in una certa misura, fuori dal momento.

È questo il mio augurio per questo 2022 imbottito di incognite: aboliamo i pregiudizi sul tempo (e ve lo dice uno che cerca di occuparsi di futuro) e non diamo sempre peso a “inizio” e “fine“. C’è un “mentre” che ci aspetta e che, solitamente, buttiamo alle ortiche.

Buon anno.   

Secondo me

C’è un antico problema del giornalismo, diventato modernissimo per via dei negazionisti dell’ultima ora, no vax o no brain che siano. E cioè quello legato al valore della testimonianza. Un giornalista gode di un privilegio sin dai tempi in cui il giornalismo è nato: lui c’è, racconta, commenta laddove gli altri non ci sono, quindi non possono raccontare con facilità e di conseguenza non possono commentare con dovizia di particolari. È il fattore del “secondo me”. Un fattore cruciale ai giorni nostri. Non vi sfuggirà infatti che il “secondo me” rappresenta un vantaggio e al tempo stesso un handicap.

Il “secondo me” che conosciamo sino al pre-pandemia, anzi – diciamolo chiaramente – sino a prima dell’avvento del Movimento 5 stelle di Grillo e Casaleggio, era un vantaggio perlopiù professionale, un po’ come il poliziotto che arriva per primo sulla scena del delitto o il regista che conosce tutte le scene tagliate e i retroscena proibiti del suo film. Poi c’è stata l’ecatombe della ragione e il “secondo me” è diventato il vessillo del famigerato “uno vale uno”, la bandiera della cultura da smartphone (un tempo c’erano i Bignamini – e magari li rimpiangiamo – oggi c’è l’indice di Telegram), l’altare su cui immolare ogni certezza scientifica o peggio su cui bruciare ogni residuo di realtà.

È tutto in questo uno-due, in questo capovolgimento che pare istantaneo e che invece parte da lontano (ne abbiamo parlato qui a proposito di un modello comunicativo deviato e purtroppo di successo) gran parte dello sfacelo dei nostri giorni. Perché sino a quando la ragione aveva una sua cittadinanza, una testimonianza serviva per farsi un’idea, non per costruirne una completamente falsa.


E la “falsa idea” è il cancro sociale dei nostri giorni.

Oggi la Terra rotonda (e persino quella piatta) è popolata da persone che credono di aver razionalizzato un evento, con le sue cause e le sue conseguenze, e che costruiscono su questa illusione un abbecedario per il futuro. Però il futuro ha un cazzo di problema, è aperto a ciò che non esiste ma chiusissimo allo spaccio di verità false. Perché il futuro sbugiarda sempre, spesso con crudeltà estrema. Il futuro non fa sconti. Il futuro stupra i sui stupratori, senza pietà. Solo che, ontologicamente, lo fa coi suoi tempi, decimando i testimoni: la vita è una malattia mortale (cit).

Recuperare il valore della testimonianza è una cosa molto complicata poiché è un atto bilaterale, e gli atti bilaterali rompono i coglioni: non basta un mea culpa o un ripassino fatto bene, devi sempre trovare uno che controfirmi il tuo ravvedimento. Insomma, un vero casino. È così che sono morti gran parte dei giornali, non hanno saputo trovare credito per la controfirma, per il tacito contratto tra due parti che in fondo sono una sola.
Però una cosa la dobbiamo tenere a mente. Che la testimonianza è il primo motore immobile del tempo. Senza, non c’è futuro e manco presente.
Senza testimonianze non avremmo contezza di ciò che accade fuori dal nostro raggio visivo. Non sapremmo niente delle meraviglie che ci aspettano. Non pregusteremmo l’arte, la tecnologia, l’amore.

Viviamo biologicamente secondo le regole di quel genio trasversale di Dante, similitudine e contrappasso. Sentiamo più freddo di quella volta, vogliamo essere accarezzati come quell’altra volta, non intendiamo stare male come quella volta, confidiamo di scamparla meglio di quell’altra volta.  

Non so come recupereremo il valore della testimonianza, giornalisti e non. So solo che senza, non saremo migliori o peggiori, non saremo più o meno scaltri, non saremo in vantaggio o sconfitti. Semplicemente non saremo. Testimoni.

Quattro chili

Sono uno che quando è triste mangia e quando è allegro beve. Insomma sono un pessimo spot per i luoghi comuni applicati all’umore. Però mi ascolto abbastanza per evitare di farmi prendere alle spalle da me stesso: i peggiori tradimenti vengono spesso da noi, e anche qui ci allontaniamo dai luoghi comuni.

Mi sono accorto di una cosa abbastanza normale per noi uomini di una certa età, cioè di aver preso qualche chilo. La cosa che mi ha suscitato qualche pensiero è come sia potuto accadere, anzi come è realmente accaduto. Da quando il mio papà ha scelto di viaggiare da solo e nonostante un mese abbondante di dieta analcolica, causa seccatura esofagea (che scritto così fa un po’ schifo, ammetto), il mio girovita ha subito una variazione. Poca roba, per carità: ma qui mi piace parlarne per centrare un tema, quello dell’imprevedibilità di certe sensazioni fisiche.

Si può essere felici nell’inquietudine e scontenti in un assetto di buon vivere. Io, che sono uno fortunato (almeno fino a ora, nonostante influssi che non appartengono alla mia sfera affettiva) ho imparato a distinguere il futuro da manuale da quello anarchico. Cerco di godermi il poco che raccolgo e il molto che mi dà chi mi vuole davvero bene e mi cimento nello smontaggio ulteriore dei luoghi comuni applicati all’umore.

Quest’estate camminerò un po’ meno dell’altra volta. Mangerò e berrò meglio e non chiederò troppo al mio fisico, che già mi ha fatto il favore di archiviare gran parte delle scemenze che gli ho imposto nei decenni meravigliosamente scellerati della gioventù. Non proverò vergogna per questi quattro chili in più (ebbene sì, ecco il numero che chiedevate senza chiedere). Cercherò di non essere triste e di mangiare e bere sempre come quando sono allegro. Non è vero che l’anima e il corpo sono una cosa sola. Dell’anima in fondo non sappiamo un tubo sino a quando siamo vivi e il solo pensarci mi deprime. Meglio occuparsi del resto.