Cazziata finlandese

Una pittrice finlandese decide di trasferirsi con la famiglia in Sicilia, a Siracusa, e dopo qualche mese se ne va sdegnata perché il sistema scolastico non le piace e, in poche parole, perché si è accorta che la Sicilia non è la Finlandia. Noi isolani siamo abituati a sentirci dire che qui non funziona niente, il che è purtroppo vero. Però in questa lezioncina impartita tramite lettera aperta a un sito locale c’è qualcosa di irritante. E cioè la supponenza con la quale una persona venuta spontaneamente dall’estero decide di deludersi per non aver trovato il modello e i codici sociali dai quali si è spontaneamente allontanata. Il sospetto più fastidioso, almeno per me, è che la signora avesse scelto per luoghi comuni: Sicilia, caldo, mare, cibo, folklore. Magari pure un mafia tour, se ci scappa.

Personalmente coltivo l’idea della fuga – ne ho scritto più volte qui e altrove – con grande attenzione: se decido di fuggire, scelgo il luogo (anche metaforico) nel quale so di trovare sorprese, non certo una replica del posto da cui parto, e in questa voglia di sviluppare curiosità ci metto soprattutto la possibilità di imbattermi in usi e burocrazie che non mi piacciono.

Mi è capitato alcune volte di rimanere deluso senza mai farne una battaglia di civiltà.

Il fatto che la signora finlandese si aspettasse di trovare in Sicilia un sistema scolastico come quello finlandese ci dice molto sull’avventatezza con la quale è stato preparato il trasferimento, mica un weekend mordi e fuggi.
Sono un nemico dell’inefficienza siciliana, non ho mai creduto alla specificità “meravigliosa” del nostro essere isolani, sono allergico all’esibito e patetico trionfo del sicilian style.
Però una cosa alla signora in questione la vorrei dire: non c’era bisogno di simulare una caduta dal pero per scandalizzarsi che dal pero si può cadere.
Luogo comune per luogo comune: finlandesi, che noia.

Cercare il passo giusto

La nuova “Netflix della cultura” di cui parlavamo ieri è lo spunto per affrontare un  ragionamento che parte dalla cultura e arriva a ben altro.

Il tema è il futuro, o meglio la rivoluzione obbligata del futuro.

Sappiamo tutti, anche chi non è interessato a ragionamenti complicati, che il mondo del post pandemia sarà un mondo diverso da quello che abbiamo lasciato, freschi e pettinati, un anno e passa fa. Ci eravamo illusi che sarebbero bastati una cantatina sui balconi, una spruzzata di ottimismo tarocco (“ne usciremo migliori”) e qualche etto di lievito di birra a darci lo speed giusto per ripartire. Invece lo scenario che ci si prospetta è molto complicato. O forse no, complicato è già una semplificazione.

Lo scenario è diverso, totalmente diverso.

Prendendo spunto dal declino di quella che Alessandro Baricco chiama intelligenza novecentesca, c’è una rivoluzione che va affrontata con una certa urgenza. Che è quella, radicale, di come inquadrare le cose, di come adattarsi alle nuove forme del sapere, di come narrare e ascoltare, di come allinearsi con la storia e col progresso.
Fino a oggi l’unico concetto di modernità o di modernizzazione è stato legato alle forme e ai mezzi di comunicazione, di socialità. Il simbolo della modernità è lo smartphone, un tempo era il computer. I social contengono l’alfabeto di un linguaggio che però tramanda sempre gli stessi concetti analogici: perché il pesce fritto lo puoi avvolgere nella carta d’oro in foglia, ma sempre pesce fritto rimarrà.
Ecco, il primo fondamentale passo verso la nostra rivoluzione obbligata non riguarda più le forme o i mezzi, ma i contenuti.
E, badate bene, non parlo di narrazione artistica. Ma ad esempio di politica, di questioni sociali. I nuovi scenari impongono una diversa confidenza col tempo che scorre. Del resto, per dirla in gergo social, le timeline non si fermano mai, a meno che il social non sia down o la vostra connessione non sia a picco, neanche quando il vostro pensiero si prende una pausa.

Il concetto di tempo è interessante da scardinare. L’inizio e la fine di un determinato evento nel mondo com’era prima, rappresentavano l’essenza dell’evento stesso. C’era un prima, un durante e un dopo. Il futuro probabilmente ci chiede di ripensare questa scansione rigida e di dare all’evento una durata non definita, facendolo vivere ad esempio di molte vite (non tutte sue). Come? Con la valorizzazione di ciò che ha portato a quel momento, la semina di nuovi momenti che da quell’evento devono scaturire e la moltiplicazione dei risultati. Uno spettacolo prima viveva due ore, domani potrà vivere all’infinito se gli si danno le giuste ramificazioni logiche: in termini di ispirazione, di investimento in quote di sapere, di tecnologia o altro, a seconda del contesto.

Inevitabilmente ci sono due categorie che diventano cruciali in questa transizione verso il nuovo sentire: gli artisti e gli insegnanti.

L’arte e la scuola possono essere palestre di ginnastica intellettiva, anzi devono esserlo. Sono gli ambiti ideali in cui cose molto moderne possono venire fuori da persone abbastanza antiche. L’intelligenza flessibile, quella che non s’inchina dinanzi alle teste coronate del pensiero iper-specializzato, ha bisogno di spazi su cui crescere: libri, teatro, musica, cinema, pittura, fotografia, e tutto ciò che proviene da quel mix prezioso che è studio e fantasia, sapere e creatività. E in tal senso si dovrà scolpire nella pietra il ruolo principale della scuola: contribuire allo sviluppo di un senso critico che sia traghetto tra le isole delle nozioni.
Insomma la nostra rivoluzione obbligata ha negli insegnanti e negli artisti i loro condottieri. E la politica? E l’informazione?
Ne parleremo domani nell’ultima puntata.

2 – continua

Prima puntata.
Terza e ultima puntata.

Il bullismo quando non c’era

A scuola mi ricordo scherzi atroci tra compagni di classe. La maglietta usata per pulire la lavagna era niente al confronto con quella che una volta traforammo con le cicche di sigaretta (beh, sì…) con il proprietario inconsapevole dentro. Un’altra volta misi la polvere dei gessetti tritati nelle scarpe di un mio compagno, seduto dietro di me, che aveva l’abitudine di dondolare su due piedi della sedia. All’atterraggio si alzò una nuvola di fumo bianco che fece ridere tutti tranne una professoressa, tanto giovane quanto priva di senso dell’umorismo: risultato, fui sospeso ed era per giunta il primo giorno di scuola.
Un giorno un mio compagno per puro cazzeggio – la politica non c’entrava – nell’intervallo tra un’ora e l’altra di lezione urlò dalla finestra un “viva il Duce” grottesco quanto la nostra ingenuità. Non si rese conto che il professore di filosofia era appena entrato e lo guardava nel gelo generale. Se la cavo con un calcio in culo e nessun genitore osò mai protestare.
Per mesi io e un altro impegnammo le prime due ore di lezione quotidiana nel furto con destrezza della merenda di un nostro compagno. Il poveraccio non riusciva a capire chi e come, fatto stava che rimaneva senza panino ogni giorno. Un giorno ci scoprì grazie alle briciole lasciate dall’incauto mio correo e fu talmente gentile a non incazzarsi che, disarmati da tanta finezza, una colazione gliela offrimmo noi. E il panino non glielo rubammo più.

A tutto questo pensavo leggendo le cronache sui bullismi vari a mezzo video e sulle polemiche a proposito del classismo dell’incultura. A quanto i tempi cambiano non solo per colpa delle persone, ma soprattutto degli strumenti. Il cellulare onnipresente, la pervicace cura con la quale l’attimo fuggente diventa forzatamente eterno, l’amplificazione tecnologica della cazzata sono elementi che non hanno peso per un’eventuale assoluzione del colpevole, ma non possono essere ignorati come chiave di lettura.
La giovinezza non è un alibi, ma una condizione alla quale sopravvivere senza alibi.

Vomito ergo sum

La professoressa invasata che aveva urlato ai poliziotti “dovete morire”, nonostante sia indagata e sia stata sospesa dall’insegnamento, torna in piazza nel presidio contro la manifestazione di Forza Nuova a Torino. Ufficialmente la sua è una missione contro i fascisti, anche se non si capisce perché se la prenda coi poliziotti che non difendono i fascisti, ma la legge. Ufficiosamente s’intuisce molto di più. La signora ha scelto la formula più attuale per uscire da un anonimato che, evidentemente, le va stretto. Poteva andare dalla De Filippi, ma in mancanza di un talento specifico ha scelto di esibirsi sull’asfalto: urlare pur di galleggiare, provocare per dimostrare la propria esistenza in vita, offendere per far finta di difendere.
C’è un’infinita lista di antifascisti, veri e silenziosi, che hanno pagato con la vita o con la mortificazione sociale, senza che le loro gesta siano mai state grottesche o triste oggetto di derisione. La ribellione, anzi la “ribellione” della professoressa Lavinia Flavia Cassaro è di un sensazionalismo talmente irritante da risultare indigesto persino ai nudi e puri della contestazione. Lei ce la sta mettendo tutta per diventare un simbolo, probabilmente perché al giorno d’oggi la scorciatoia per ottenere qualcosa di immeritato è inventarsi uno strapuntino di follia anti-creativa, cioè l’opposto della contestazione vera e il parente stretto della cretinocrazia. Dati i risultati mediocri come professionisti, ci si reinventa sabbia negli ingranaggi del sistema: e guai a dire che dicendo e facendo cazzate non si fa l’Italia e manco la sua caricatura. La professoressa che cerca disperatamente un ruolo da protagonista senza che nessuno abbia mai scritto la storia in cui esibirsi, darà soddisfazioni al suo pubblico: conquistata la scena, sogna il peggio per lei – un licenziamento, una condanna – perché quando gli orizzonti sono ristretti, anche una posa sguaiata dà le sue emozioni. In mancanza di altro.
Vomito ergo sum.

La vera educazione? Quella per il sentimento

umberto galimberti

In una bella intervista di Antonella Filippi, pubblicata oggi sul Giornale di Sicilia, il filosofo Umberto Galimberti traccia un percorso chiaro e sintetico del ruolo che i professori dovrebbero avere con i “nuovi giovani”, nativi digitali dalle idee confuse.

Esorterei i professori a usare meno il computer. A che serve? Gli studenti, nativi digitali, ne sanno più di chi dovrebbe insegnare loro l’informatica. Ai ragazzi internet fornisce, dopo anni di guerra al nozionismo, un’infinità di informazioni slegate tra loro, ma non regala senso critico, connessione dei dati e, quindi, conoscenza.
I maestri hanno il compito di sviluppare il senso critico e mettere in connessione i dati. Questi ragazzi bisogna educarli al sentimento per evitare l’analfabetismo emotivo: la base emotiva è fondamentale per distinguere tra bene e male, tra cosa è grave e cosa non lo è. E bisogna farli parlare in classe. Il linguaggio si è impoverito. Si stima che un ginnasiale, nel 1976, conoscesse 1600 parole, oggi non più di 500. Numeri che si legano alla diminuzione del pensiero, perché non si può pensare al di là delle parole che conosciamo. E la scuola è il luogo dove riattivare il pensiero.

E spiega una differenza di non poco conto tra intelligenza convergente e intelligenza divergente.

Una intelligenza convergente, che comporta il cercare la soluzione di un problema a partire da come il problema è stato impostato; invece l’intelligenza importante, quella cha fa andare avanti la storia, è divergente, e consiste nel risolvere il problema cambiando la sua stessa impostazione, capovolgendolo. Come, per esempio, ha fatto Copernico. In informatica devi trovare la soluzione secondo il programma informatico, altre possibilità non sono previste. Un metodo che svilisce l’intelligenza, trasformandola in esecutiva e non sviluppandone la parte creativa.

Studia matematica, ma comprati un violino

C’è una canzone di Eugenio Finardi, datata 1977, che è il vero manifesto della buona scuola, quella degli studenti motivati, delle inclinazioni assecondate, dell’apertura mentale. Io la conosco a memoria perché in quegli anni ero un liceale complicato e irrequieto. La ascoltai sino a inciderla nell’anima.
E oggi, pur da adulto complicato e irrequieto, la mia anima ringrazia.

 

School Runner

Le tracce dei temi di maturità sono telematiche e viaggiano via web in un mondo, quello della scuola, che non ha ancora abbandonato il carbone. Il ministro Profumo ha dato le chiavi d’accesso da Shangai, senza nemmeno alzarsi dal letto.

Per avere conferma che siamo www.atoledo.com nel futuro che ci aspettavamo affacciatevi alla finestra e osservate se ci sono navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. O se si vedono raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser.

Addio fuga innocente

Un nuovo progetto tecnologico, credo con la sponsorizzazione del governo, consentirà ai genitori di avere un software per tenere sotto controllo – via computer e via cellulare – l’attività scolastica dei figli.
In più, ogni volta che il ragazzo risulterà assente, partirà una raffica di segnali via e-mail o via sms.
E’ la fine di quella fuga temporanea che, a seconda della città e della regione, viene chiamata in modo diverso: marinare la scuola (per tutti), bigiare, caliare, fare sega, fare spago, lippare, fare filone, fare berna, bossare, tagliare, fare manca, fare forca, eccetera.
La tecnologia mette fine all’ultimo dei riti analogici che era rimasto ai nostri giovani: nel segno di una criminalizzazione degli atti comuni e di un controllo esasperato delle minchiate.
Tutti noi, compresi i nostri genitori, abbiamo marinato la scuola e conserviamo molte di quelle giornate nel nostro album dei ricordi. Senza quell’ebbrezza di libertà non avremmo apprezzato molti sapori (il cibo in quelle mattinate era più gustoso), molti colori (il cielo in quelle mattinate era più blu), molti dolori (la partita di calcio sulla spiaggia distruggeva i muscoli). Soprattutto non avremmo avuto una possibilità a buon mercato di infrangere una regola, di evadere ingenuamente, di provare in modo innocente cos’è la fuga. Per poi tornare, felici e  un po’ spaventati, nel mondo di sempre.

Il tweet idiota

E’ uno dei top tweets di ieri (torneremo su questo argomento, promesso). Cioè è uno dei messaggi su Twitter che ieri erano più popolari.
Chi lo ha lanciato nella stratosfera internettiana è, secondo la biografia ufficiale, una liceale. Che si lamenta di dover subire ore da sessanta minuti (ma guarda un po’, come tutto il resto dell’umanità) e di doverlo fare per sei ore al giorno.
Sappiamo tutti che la scuola è, per molti, una scocciatura.
Sappiamo che la riforma Gelmini è per molti versi incongruente.
Sappiamo anche che ci sono giovani ai quali scoccia persino respirare. E a questi mi rivolgo: coraggio, un respiro in più e un tweet idiota in meno.

Chi ha promosso quel preside?

Questo annuncio, tuttora appeso nella bacheca del Cei di Palermo, ci dice tre cose.

1)    Che non va disturbato il regolare svolgimento delle interruzioni.

2)    Che il preside è un semianalfabeta.

3)    Che nessun professore dal 2005 a oggi è stato in grado di correggere l’errore.