L’altro

Viviamo una vita nell’aspettativa dell’altro. Altro inteso in senso ampio e magari fuorviante: persona, ambito, sorpresa, sentimento. Per coltivare l’attesa rinunciamo a molte cose ordinarie, perché l’altro in questa accezione è soprattutto straordinario. Quindi ci annoiamo più del dovuto quando invece ci sarebbe stato qualcosa di cui godere, rinunciamo all’ordinario perché temiamo lo sbadiglio, rinviamo a nuove fervide occasioni che di occasione in occasione si perdono in un tramonto inutile come un’alba vista da sottoterra. E spendiamo tempo che non torna e non perdona (autocitazione, pardon).

C’è un’illusoria fascinazione in questa aspettativa, non c’è bisogno di sottolinearlo, che comunque è forte come un vizio: attendere la novità rinvia le scadenze, con tutte le declinazioni umane del tempo, prima tra tutte quella dell’età. Noi aspiranti vecchi non abbiamo ancora ben chiaro il concetto di decadenza, crediamo di avere le stesse possibilità di molti capelli fa. E non ci confessiamo che il nostro peggior nemico rischia di essere quello che per lungo tempo è stato il nostro migliore alleato, tipo la prostata per i maschietti (per le donne non mi pronuncio perché sono tempi in cui già dire “maschio e femmina” rischia di essere un reato).

Comunque noi aspettiamo.

Aspettiamo sempre qualcosa che, ne siamo certi, accadrà. Una chiamata, una visita, un’idea che rimetta tutto a posto, al posto di partenza. Ripartire dal via, come negli antichi giochi da tavolo. Azzerare nottetempo, senza pagare dazio.   
Invece non è così che funzionano le cose.
Gran parte delle nostre aspettative vanno deluse, perché è giusto che le aspettative facciano il loro mestiere di previsione, auspicio, e nulla più. Non è su queste basi che si costruisce un’esistenza non dico saggia, non dico ammodo (bleah!), ma divertente. L’ho imparato in tarda età: il divertimento è fatto di piccoli mattoncini tipo Lego; addizioni e sottrazioni a una cifra; compromessi a buon mercato.

L’altro non è aspettativa, nella maggioranza dei casi. È scoperta, è attenzione, è sorriso e smorfia improvvisi. L’altro ti sorprende prima che lui sappia di farlo. Perché anche l’altro, quello giusto, vive nella tua non-aspettativa.
A qualunque livello lo si consideri – amicizia, complicità, professionalità, amore – l’altro ha un vantaggio su tutti i suoi surrogati: una forza propria che ti prende alle spalle e ti sussurra di seguirlo. Controcorrente, senza immediata spiegazione razionale.

Ci vuole tempo per capire, come i farmaci di lunga gittata. Ma l’effetto positivo è assicurato.
L’altro funziona quando meno te lo aspetti. E ti salva un po’ la vita.  

Quattro chili

Sono uno che quando è triste mangia e quando è allegro beve. Insomma sono un pessimo spot per i luoghi comuni applicati all’umore. Però mi ascolto abbastanza per evitare di farmi prendere alle spalle da me stesso: i peggiori tradimenti vengono spesso da noi, e anche qui ci allontaniamo dai luoghi comuni.

Mi sono accorto di una cosa abbastanza normale per noi uomini di una certa età, cioè di aver preso qualche chilo. La cosa che mi ha suscitato qualche pensiero è come sia potuto accadere, anzi come è realmente accaduto. Da quando il mio papà ha scelto di viaggiare da solo e nonostante un mese abbondante di dieta analcolica, causa seccatura esofagea (che scritto così fa un po’ schifo, ammetto), il mio girovita ha subito una variazione. Poca roba, per carità: ma qui mi piace parlarne per centrare un tema, quello dell’imprevedibilità di certe sensazioni fisiche.

Si può essere felici nell’inquietudine e scontenti in un assetto di buon vivere. Io, che sono uno fortunato (almeno fino a ora, nonostante influssi che non appartengono alla mia sfera affettiva) ho imparato a distinguere il futuro da manuale da quello anarchico. Cerco di godermi il poco che raccolgo e il molto che mi dà chi mi vuole davvero bene e mi cimento nello smontaggio ulteriore dei luoghi comuni applicati all’umore.

Quest’estate camminerò un po’ meno dell’altra volta. Mangerò e berrò meglio e non chiederò troppo al mio fisico, che già mi ha fatto il favore di archiviare gran parte delle scemenze che gli ho imposto nei decenni meravigliosamente scellerati della gioventù. Non proverò vergogna per questi quattro chili in più (ebbene sì, ecco il numero che chiedevate senza chiedere). Cercherò di non essere triste e di mangiare e bere sempre come quando sono allegro. Non è vero che l’anima e il corpo sono una cosa sola. Dell’anima in fondo non sappiamo un tubo sino a quando siamo vivi e il solo pensarci mi deprime. Meglio occuparsi del resto.

Il Martini delle emozioni

Seguo da ieri le dirette di Radio Capital in cui si parla di Vittorio Zucconi e si celebra con garbo la sua memoria. Sono sempre stato un suo appassionato lettore e, da vero maniaco della radio, un suo ascoltatore sfegatato. Il senso di mancanza, in generale, è una sensazione che ho sempre accarezzato con indecente interesse: perché – lo sappiamo – è nella malinconia dell’assenza che troviamo il senso di molte cose che normalmente tendono a sfuggirci. Insomma da ciò che non c’è (più) ricaviamo il significato di ciò che ci piacerebbe avere ma che non ci curiamo di avere.

Così, nel rimpiangere uno sconosciuto così familiare, ho riannodato molti fili: il tepore di serate familiari con la radio accesa e il vino nel bicchiere; i ritagli di un suo articolo degli anni Ottanta  appeso al muro della mia stanza; il viaggio in moto ai confini del mondo con i suoi podcast a diluire lingue, costumi e climi a me magicamente estranei; le discussioni al giornale sulle acrobazie di certi suoi attacchi; la vita oltre le parole scritte e viceversa.

C’è nella morte un mistero insondabile che non è biologico né religioso né filosofico, ma egoistico. Perché ci sono dipartite che riescono a darti quel disturbo sottile che è dolore, malinconia e gioia tutti insieme? Perché la fine di una vita altrui rimbalza nella tua che continua, magari per forza di inerzia, tra mille scossoni?

La verità è che probabilmente non c’è nulla di definitivo se ci si trova dinanzi a qualcuno che vi racconta o vi chiede di raccontargli una storia (cvd). Il divenire è principalmente un esercizio di libera e inebriante malinconia. E chi non lo capisce è un troll delle emozioni e come tale va tenuto a distanza con la canna.

Insomma il senso della vita applicato alla morte è il cocktail Martini delle consolazioni: forte e inebriante, ma attenzione ad abusarne.

Giudicare a cazzo

La vicenda dell’assoluzione di Ignazio Marino per la cosiddetta inchiesta degli scontrini mi ha fatto venire in mente un tipico corto-circuito del nostro meccanismo relazionale. Quando scoppiò il caso dell’allora sindaco di Roma, il Movimento 5 Stelle organizzò un linciaggio mediatico che al confronto una crocifissione sarebbe passata per un buffetto. Oggi, col senno di poi, sappiamo che la giunta Raggi ha problemi ben peggiori di quelli che ispirarono gli slogan grotteschi di “onestah onestah” e che con un sorprendente garantismo i grillini danno fiducia al loro sindaco nonostante la sua palese inadeguatezza (riconosciuta dai media di mezzo mondo).

Ma questo era l’aggancio di cronaca e non voglio buttarla in politica.

Il focus è molto più universale. Ed è legato al rapporto tra dubbi e certezze (di cui ho parlato anche qui). In parole povere, quando organizziamo un tribunale, anche casalingo, per processare qualcuno dobbiamo tenere a mente che il destino gioca sempre con carte truccate. Fottendosene del calcolo delle probabilità ci proporrà, più prima che poi, un contrappasso dalla crudeltà medioevale. Così, per il semplice gusto di divertirsi alle nostre spalle. O chissà, per ricordarci che la cenere dalla quale veniamo ci sta poco a diventare fango, bastano due gocce sfuggite al nostro ombrello: e in nessun mondo, neanche in quello illuminato dalla fede più cieca, esiste ombrello grande come il cielo.

Se si è tentati di condannare qualcuno perché evidentemente colpevole, prima di emanare la sentenza è bene riflettere su due parole: evidentemente e colpevole.  La seconda è quella che abbaglia, la prima è quella che trama. L’evidenza infatti nasconde la trappola, che è quella di non saper calibrare la pena. Quante volte ci è capitato di giudicare a caldo in modo tranciante?

A me molto spesso, ma col tempo e con una buona cura del mio sistema operativo biologico ho cercato di correre ai ripari. Però oggi ricordo con rammarico le volte in cui sono stato oggetto di tale giudizio. Una persona, giustamente, vi condanna per un errore ma poi sbaglia tragicamente nel non saper calibrare la pena. Cosicché dopo avervi crocifisso in sala mensa, ignudo e umiliato, finirà per ritrovarsi vittima della crudeltà del destino quando commetterà un errore ben più grave di quello che aveva giudicato con drammatica intransigenza (la pagliuzza nell’occhio altrui e altre menate…) e si perderà nel buio di una ragione con la quale mai potrà riconciliarsi se non mediante un harakiri della sua fallace presunzione.

Ci sono due modi per salvarsi la vita quando c’è da esprimere un giudizio severo e legittimo. Il primo è quello complesso: calibrare, prendere fiato, pensare che può succedere a molti persino a noi, guardarsi dentro e poi, molto poi, deliberare.  L’altro, più semplice, è giudicare a cazzo e scegliere di vivere di fotogrammi che non raccontano una storia: che siano scontrini o lettere d’amore sarà il destino a deciderlo. Con le sue carte truccate.

Settimo: non rubare (emozioni)

Nella logica complicata dei dieci comandamenti c’è una teoria di indicazioni, prescrizioni, divieti. In realtà ne basterebbe uno solo: evita di fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Tuttavia un’alternativa interessante è stilare (con un sorriso) un decalogo personalizzato che ha il vantaggio di non essere imposto da nessuno e di derivare da un minimo di esperienza. Ecco il mio.

  1. Presta solo ciò che ti puoi consentire di perdere. Attenzione compresa.
  2. Lavati i denti almeno tre volte al giorno. Le cazzate di una bocca sporca infastidiscono il doppio.
  3. Impara a cucinare. Ti sarà utile quando capirai che mangiare bene è un buon modo di sopravvivere specialmente se non è solo il tuo stomaco a essere vuoto.
  4. Non comprare vino al di sotto dei dieci euro. Il vino del contadino pestato coi piedi lascialo al contadino (che tanto manco lui se lo beve).
  5. Celebra l’amore con la consapevolezza inconfessata che la migliore storia d’amore è quella che finisce. Il resto è gara di sopravvivenza.  
  6. Non uccidere chi dice “un attimino”. Bisogna saper resistere alle provocazioni… e la vita è un attimino.  
  7. Non rubare emozioni. Tesaurizza le tue.
  8. Non condividere nulla di ciò che non conosci o che non hai verificato. L’ignoranza de relato mette a dura prova il rispetto del sesto comandamento.
  9. Cerca di desiderare il meno possibile la donna d’altri. Sono guai comprati peggio di un tre per uno da Lidl.
  10.  La prudenza è una virtù quando si è alla guida di qualcosa o di qualcuno. In altri casi è utile quanto un costumino di cemento se decidi di farti una nuotata in mare aperto.

Uscita di sicurezza

C’è una teoria molto personale che i miei amici più cari, diciamo quelli che si contano sulle dita di una mano, conoscono bene perché è (stato) un tema di grande discussione.

È la teoria dell’uscita di sicurezza.

Consiste in questo. Quando sei felice, realizzato, appagato, soddisfatto e via gongolando, non dimenticarti mai di guardarti intorno e di visualizzare l’uscita di sicurezza. Non la imboccherai, non ti servirà mai, magari ci riderai su, ma è fondamentale vederla. Perché è facile cercarla quando sei in difficoltà o in stato d’allarme, lì non c’è bisogno di nessuna teoria: bastano due gambe forti e la determinazione di dirsi “pronti, via… scappare”.

La vera visione strategica della felicità (o del suo surrogato), la weltanschauung realmente efficace del sentimento applicato alla cronaca, cioè ai cazzi di ogni giorno per evitare di finire lobotomizzato nella logica “Famiglia del Mulino Bianco”, è quella che ci rassicura quando non ne abbiamo bisogno.

Capisco che è un concetto non semplice da spiegare, ma credo anche che sia semplicissimo da intuire. La teoria dell’uscita di sicurezza non ci mette in fuga, ci evita l’intorpidimento dei sentimenti, ci comunica con la sua semplice evidenza che tutto è possibile anche quando non ci serve altro di possibile (o ci illudiamo che così sia). La felicità (o il suo famigerato surrogato) vive di contrasti, non è mai assoluta: è un tramonto dopo una giornata assolata e prima del buio; è un bacio che vuole diventare altro o che mai lo sarà; è persino una delusione che non si è trasformata in disastro. C’è un solo modo per darle la giusta cornice, ammirarla in un orizzonte di libertà dove c’è un minuscolo puntino, una porticina, che dà su un’uscita che probabilmente non imboccheremo mai. Ma che c’è, esiste ed è meraviglioso che ci sia.  

Acrobati (ma il circo non c’entra)

C’è un esercizio di fondamentale importanza per allenare alla resistenza il muscolo dell’autostima ed è l’abbattimento sistematico del concetto “non può succedere a me”.
Come tutti gli esercizi ha bisogno di tempo per poter essere svolto in modo fluido. Richiede applicazione costante, autocritica, resistenza alla disillusione e una buona dose di incoscienza trasversale. È soprattutto una pratica la cui utilità si rivela quando c’è davvero bisogno, quindi magari mai. Avete presente l’estintore del supermercato, incorniciato nella sua vetrinetta col megafono e una vetrofania che dice “da usare solo in caso di incendio” e che in realtà sussurra “ue’, ho detto solo in caso di incendio”? Ecco, il concetto è quello.
Il problema del tempo di pace è che funziona solo in funzione dei tempi di guerra in cui è incastonato quindi si porta appresso un’ontologica vagonata di incomprensioni: è giusto pensare al peggio quando si sta benissimo? È di buon gusto ipotizzare un piano B mentre il piano A sta ancora macinando successi? Ci si può ritenere statisticamente al riparo quando le tempeste travolgono gli altri, magari vicini, e non noi? Esiste una zona franca delle intenzioni? E soprattutto la Banca della Bontà dà conti sicuri e a prova di inflazione?
Chiunque si dia dato la pena di sopravvivere sa che il filo sul quale, da acrobati improvvisati quali siamo, ci muoviamo è solido e che il vero problema è la nostra capacità di rimanere in equilibrio, laddove l’equilibrio è solo un artifizio metaforico che non garantisce un bel nulla: esistono persone disequilibrate che se la passano infinitamente meglio di esemplari umani probi e morigerati e questo è il labilissimo confine tra ingiustizia e figata, tra religione ed epopea della bestemmia. Credere nel “non può succedere a me” è come comprare le azioni di una società di cui non si conosce il prodotto, come salire su una macchina del tempo che ha le marce bloccate, come dire senza aver mai ascoltato. In realtà le cose accadono a tutti, nessuno escluso, e quelli che si ritengono in salvo o sono incauti o sono defunti. È  una questione di tempo, nella lite tra il presente e il passato quello che è a rischio è sempre il futuro. Come in amore, dove negli inizi i difetti si trasfigurano in incantevoli attrattive che solo un presente cinico e puntuale riesce a tradurre in fastidiose interferenze. Come in guerra o in malattia, dove il fuoco è quello che brucia gli altri sin quando lo stupore doloroso non ci macchia di un sangue che non è altrui. Come nel tran tran delle nostre vite miserevoli, dove il giudizio degli altri – amici, nemici, sodali, concorrenti, correi, infami – dà frutti non commestibili in una pianta che non volevamo coltivare, ma che è cresciuta anche grazie alla nostra insipienza e/o distrazione, come un’erbaccia.
Meno red carpet più uscite di sicurezza, meno certezze più dubbi, meno benevolenza più intransigenza. Gli organismi più longevi al mondo non sono i più grandi e i più complessi, ma i più resistenti. Poco di tutto, senza fare ipoteche. Più difese che truppe d’assalto, più consapevolezza che fiducia, più audience interiore che claque. Il futuro è una terra straniera e tutto può succedere. Persino a noi.

Tema d’amore

Uno degli episodi più curiosi che mi piace ricordare quando parlo di ghostwriting e scrittura creativa è legato a una letterina d’amore. Ne parlavo proprio oggi con un mio caro amico poiché la vicenda riguarda suo figlio. Qualche anno fa il ragazzo aveva comprato un regalo alla sua fidanzata e voleva accoppiarlo a un foglietto che spiegasse le ragioni intime alla base di quella scelta. Solo che lui (sbagliando) non si reputava idoneo a mettere nero su bianco quel che aveva dentro: capita soprattutto agli animi sensibili, che si sentono nudi davanti alla forza del sentimento. In realtà il ragazzo aveva le idee chiarissime su ciò che voleva scrivere, solo che temeva di perdere qualcosa nel passaggio dal cuore alla carta o di non trovare le parole cruciali.
Con un pretesto passò da casa mia e mi sottopose la segretissima questione (ancora oggi sto bene attento a preservare la sua identità, come etica di ghostwriter impone). Io trovai la cosa bellissima per due motivi. Il primo: detesto ricevere regali senza una parola scritta di accompagnamento quindi trovare in un giovane quest’affinità di pensiero mi piacque molto. Secondo: il fatto che un millennial si desse tormento per una cosa così analogica come una lettera d’amore contribuì a dare una mazzata alla mia abominevole diffidenza dei confronti delle nuove generazioni (oggi sono molto più ottimista).
Finì con lui che spiegava cosa voleva dire e io che scrivevo le sue stesse parole, genuine, fresche e cariche dell’inebriante illusione di vivere qualcosa di definitivo. Insomma fui solo una sorta di dattilografo perché spesso scrivere per conto terzi significa fornire l’alibi decisivo: felicità è illudersi di aver saputo chiedere aiuto e non sapere mai che non ce ne era alcun bisogno.

Come non scrivere una lettera d’amore

Scrivere una lettera d’amore è una cosa molto facile da fare male. Laddove fare male significa fare in modo sbagliato, controproducente, autolesionista. Attenzione, questa non è una lezione di scrittura creativa – mi basta vedere cosa c’è in giro tra i presunti insegnanti di presunta scrittura per marcare il mio distacco dalla categoria – bensì un bignamino, frutto di minima esperienza (dello scrivere e dell’amore).
Più che dire come e cosa fare, mi limiterò a ricordarvi come e cosa, a mio modesto parere, non fare.

  • Una lettera d’amore è un fianco scoperto. Ricordatevi sempre che il vostro girovita è prezioso e al tempo stesso ridicolo a seconda degli occhi che lo guardano e delle mani che lo cingono.
  • Il tempo è un fattore fondamentale. Scrivete nel presente, presi dalla foga del momento, ma ricordate che presumibilmente rimarrete, almeno con quello scritto, nel futuro. Fate in modo da imbarcarvi in concetti più universali possibili e state lontano dalle parole “sempre” e “mai”, perché comunque vada vi si ritorceranno contro. Sempre (ops!).
  • Il troppo calore produce effetti simili al troppo freddo, tipo la cotoletta surgelata male che alla fine risulta bruciata dal gelo. Mantenetevi su una temperatura mediterranea di scrittura che dica di voi poco meno di quanto l’impeto detti. Non è distacco e nemmeno prudenza, ma realismo. L’amore più solido è un equilibro innanzitutto termico.
  • Ricordate che chi vi legge ha sempre un motivo per non essere obiettivo, che sia un partner con cui siete in rotta o uno che volete conquistare. Comunque vada, anche nel migliore dei casi, avrete una quota di fraintendimento da dover gestire con accortezza.
  • Non è vero che le parole sono pietre. Sono sabbia. Sabbia che può essere calpestata, che può diventare fragile castello, sulla quale ci si può sdraiare con gioia, con la quale si può misurare il tempo, giocare.
  • Mai chiamate di correità. Tipo: “Me lo diceva anche tal dei tali che eravamo fatti l’uno per l’altra…”; oppure “Ti voglio presentare pinco pallino, che ti piacerà sicuramente…”. Mettete in conto che, in una buona percentuale dei casi, tal dei tali mentiva e pinco pallino vi renderà cornuti.
  • Le cose cambiano. Promettete. Giurate. Impegnatevi. Perché è meraviglioso ed è meraviglioso scriverne, parlarne, pensarci. Ma nella copia privatissima della lettera che avete inviato aggiungete un post scriptum, a futura memoria, tutto per voi: al netto dei sogni conta sempre il risveglio.

Amori nel cassonetto

C’è questa foto, finita ieri su tutti i giornali, che è la storia semplificata di un finale ignoto. È cioè la storia stessa prima ancora della sua conclusione. Non c’è bisogno di commentarla, né di fantasticare sulla quota di dolore e di disillusione che ci sta dietro.
Questa foto però mi dà lo spunto per ricordare che molti anni fa, diciamo decenni, anch’io feci una cosa del genere dopo che una mia fidanzata mi aveva lasciato per un biforcuto di due metri (che poi tradì per il figlio bonsai di un imprenditore affetto da gigantiasi economica: era una dallo spiccato senso pratico…). Buttai tutto, foto, lettere d’amore, fiori secchi con cui mi aveva infestato la stanza, persino un disco di Steve Wonder che mi piaceva un sacco ma che recava, impresso come un tatuaggio del male, una sua firma sgangherata, tipo con le stelline e i cuori. Sbagliai, eccezion fatta per i fiori pestilenziali (certo anche le stelline…). Perché credo che chiunque abbia condiviso con noi anche una minima parte del cammino, abbia diritto alla sua sopravvivenza in effige. Certo, non sul comodino né in salotto, ma magari nel buio di una cantina o nella tranquillità di un album sullo scaffale più alto dello sgabuzzino.
Quelle foto non ci servono più fisicamente perché non vanno guardate con nostalgia, anzi non vanno guardate e basta, né devono essere usate per rinnovare disprezzo, tipo rito voodoo. Ma devono continuare a esistere indipendentemente da noi poiché testimoniano, senza la necessità di essere consultate, che la felicità è un sentimento con grande potenza retroattiva. Ci dicono che eravamo belli anche quando ci sentivamo brutti, che era divertentissimo annoiarsi magari con le compagnie sbagliate, che quei vestiti orribili ci facevano fighi, che siamo così, nel bene e nel male, perché c’è stato un momento in cui di cosa saremmo diventati non ce ne fregava un tubo.
Insomma il cassonetto non allontana l’infelicità, né restituisce la felicità perduta. È un modo per chiudere una storia senza saper trovare un finale adeguato.