Finisce lo stato di emergenza e come sempre la fine di un’emergenza pesa meno, emozionalmente parlando, del suo esplodere. Eppure negli ultimi due anni, gli anni che hanno cambiato radicalmente i nostri stili di vita, non c’è stato attimo in cui quell’emergenza non sia stata presente nelle nostre esistenze.
Soprattutto – è la cosa che mi impressiona – è importante capire quanto questa situazione estrema abbia modificato la nostra percezione temporale.
Siamo invecchiati ben più di due anni.
Perché ad essere colpito è stato il sistema di relazioni, che è quella cosa che ci consente di avere consapevolezza del passare del tempo, più di uno specchio, più di un’autopalpazione della coscienza. Il rapporto con l’altro è l’unità di misura della nostra autostima, del mutare delle stagioni della vita, della disponibilità a concederci e dell’inclinazione a ritirarci.
Personalmente se mi guardo nel 2019 mi vedo molto diverso da oggi. Non peggiore, ma nemmeno migliore. Diverso. Perché è cambiato il mio rapporto con gli altri, necessariamente.
Detto da uno che si avvia a una (speriamo) serena anzianità il discorso ha una valenza tutto sommato declinabile in termini di rimbambimento più o meno precoce. Ma mettetevi nei panni di un giovane. Il suo radar ha girato a vuoto per due anni e gli unici puntini sullo schermo che lo hanno illuso di non essere solo sono surrogati di presenze, emozioni prettamente virtuali.
Non è vero che la tecnologia ci ha salvati, almeno non è vero che ci ha salvati fisicamente. Ci ha aiutato economicamente, certo. Ci ha insegnato a non diffidare più del futuro. Ma fisicamente ha devastato le nostre cellule migliori, quelle dell’immaginazione più pura.
Mi spiego meglio.
Io in questi due anni ho lavorato molto, più degli anni precedenti. E ho lavorato con i miei strumenti: creatività, tecnologia, fantasia. Ma ogni mio prodotto di questo periodo sarà inevitabilmente marchiato dalla pandemia, anche in modo inconsapevole. Perché le mie cellule dell’immaginazione sono state inquinate da una situazione estrema e omologante.
“Estrema e omologante” sono i termini su cui vi invito a riflettere.
Perché che le situazioni estreme siano cibo per la nostra operosità creativa non ci sono dubbi. Se viaggio per 836 chilometri a piedi con uno zaino in spalla è chiaro che ne viene fuori una narrazione in qualche modo degna di nota. Ma se tutti quanti fossimo costretti a fare quei chilometri a piedi e in simultanea, il prodotto sarebbe molto diverso. Sarebbe omologato e omologante, quindi disperatamente scialbo.
Le narrazioni sono di chi legge, ricordiamocelo. Nessuno può apprezzare un panorama al buio. Il problema dell’ignoranza dilagante sui social e delle fake news ha a che fare con questi corto-circuiti. Notizie estreme ed omologanti da leggere a occhi chiusi sono non-notizie pericolosissime. La finta cultura attecchisce tra chi non si fa domande.
In questi due anni il dato più drammatico dopo la morte e la disperazione per un virus canaglia è stato quello dell’esplosione di una incultura tanto violenta quanto colpevole che ha cercato di omologare una situazione estrema derubricandola a mero complotto.
Una vera azione criminale che prima o poi dovrà incontrare il suo opposto definitivo: la giustizia.
“Ne usciremo migliori”: ci eravamo illusi quando ci ritrovammo reclusi in una prigione grande come le nostre città, ma non per questo meno disagevole. Non avevamo fatto i conti con noi stessi, con la nostra indole incerta, con il nostro egoismo.
Non se ne esce mai migliori se si entra peggiori.