di Willy
Ho guardato i tuoi occhi. E mi sento come davanti a un pianoforte scordato. O sono davanti a un pianoforte perfettamente accordato. Solo che le dita hanno il reuma. Non possono nemmeno improvvisare una scala. Altri tempi, altri concerti ci furono, quando le dita correvano più del pensiero. Anzi, le dita erano il pensiero stesso. E sapevano luccicare di semitoni, grondare di cascate azzurre sbocciate a garganella sul pentagramma. E sapevano suonare sinfonie per gli occhi. Ora, invece, non possono più comporre nemmeno un coro muto. Ricordi? Quando avevi gli occhi così lontani, io mi mettevo al pianoforte e suonavo, giurando di strapparti un sorriso. Mi avvolgevo nella dodecafonia di un’idea, la sviluppavo per semplificarla e renderla commestibile. All’ultimo gradino, la dissonaza diventava assonanza, correzione, armonia. Il mondo esplodeva in una spuma di coerenza e felicità.
Adesso non più. Adesso non è cambiato nulla nell’apparenza del viso. Appena appena gli occhi rivelano il taglio di un coltello che non abbiamo avvertito a pelo della carne. La cesura. La cacofonia. Tutta colpa degli occhi che guardano gli altri correre su binari incomprensibili. E come appaiono leggeri e luminosi (gli altri), nella grassezza delle fandonie che accumulano, nell’opulenza della menzogna. I loro occhi sanno tornare a casa, una volta eseguito il crimine e lavata la coscienza. I tuoi occhi vagano nello specchio in cerca di misericordia e perdono. I tuoi occhi. I miei occhi.