Attenzione, caduta alibi

Golegã – Tomar

Se è vero che della prima impressione non ci si fida è anche vero che, se fosse inchiostro, la prima impressione sarebbe indelebile. Ci pensavo scarpinando in questi giorni di estrema e beata solitudine (tra ieri e oggi ho incrociato solo due persone e per meno di cinque minuti, il tempo di allungare il passo e blindarmi nella mia teca di passi e respiri). 
Essendo un diffidente per natura e non riuscendo a liberarmi dalla trappola dei pregiudizi, tratto con molta attenzione la prima impressione. Anche per il suo carattere di unicità: se è prima ci sarà un motivo.
Il bello dei Cammini in solitaria è che ci si può concedere la più anarchica delle libertà, quella di pensare come e quanto cazzo ti pare. Tipo, quando sei incasinato in città, magari al lavoro ti prende una fregola psicologica o ti viene in mente una cosa che vorresti disossare, esaminare sino al dna, smontare e rimontare. Ma dici: ok, appena ho tempo ci penso. E invece non ci pensi, e sai che neanche se scaverai il tempo nella roccia avrai voglia di affrontare realmente quella cosa.

Nel Cammino cadono gli alibi. E vi assicuro che non è una seduta di analisi o una sessione di compiti per le vacanze, ma una sensazione di libertà che non ti assolve, non ti premia, ma ti dà quel minimo di fiducia nella tua fallacia. Ti dice che se agli errori non sempre si può riparare, almeno si può metterli a frutto e cercare di farli diventare occasioni (togliendo l’iniziativa ai Baci Perugina). Che il pensiero leggero con selfie vista aperitivo non funziona come antidoto a pensieri che non sei riuscito a dipanare manco con l’aperitivo. Che non sempre la prima impressione è il trailer del film che ci apprestiamo a vedere, ma che comunque il trailer va visto (e soprattutto va realizzato bene).
Insomma negli ennesimi 30 chilometri ventosi tra Golega e Tomar ho messo in fila alcune prime impressioni basilari sul Portogallo e i portoghesi. Le scrivo in poche righe perché era il concetto che mi premeva raccontare non il succo delle elucubrazioni. Che però elenco per dar prova che ho fatto i compiti per le vacanze.

I portoghesi sono ex potenti che hanno mantenuto la dignità e la consapevolezza di una nazione che è tesoro di cultura diffusa, condivisa. Credo che siano un caso pressoché unico.
Non gradiscono che gli si parli spagnolo. Meglio l’inglese o addirittura l’italiano.
Hanno l’orgoglio di non mettere mai in tavola sale e pepe perché ritengono che il loro modo di condire i cibi sia quello giusto, l’unico.
Fanno un vino ottimo a prezzi onesti. Noi siciliani abbiamo solo da imparare sul rapporto qualità-prezzo. E non solo sul vino. 

7 – continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Peggiorare, per fortuna

Piccolo ripasso (della serie il web utile). Le sensazioni gustative pure, basate sui cinque sapori fondamentali (acido, amaro, dolce, salato, umami), segnalano la digeribilità e il valore nutritivo o tossico degli alimenti. Fin dalla nascita il neonato umano mostra di gradire alcuni sapori e di essere disgustato da altri. Il sapore dolce, che indica la presenza di carboidrati apportatori di calorie, è piacevole per tutti i mammiferi, incluso l’uomo, con l’eccezione dei carnivori (in tal senso io sono equiparato a un tossicodipendente). Il sapore salato, spiegano gli scienziati, può risultare sgradevole nella primissima infanzia, ma con la crescita “esso viene ricercato, specialmente se vi è carenza di sodio, elemento essenziale per la vita”. L’aumento della preferenza per cibi salati, che si verifica quando il bilancio del sodio è negativo, non è osservabile nel neonato poiché richiede un periodo di maturazione, indipendente da un apprendimento specifico.

La repulsione per cibi fortemente acidi è un’ovvia difesa contro il potere corrosivo che gli acidi possono esercitare sui tessuti biologici, e parlo a nome della grande famiglia dei followers dell’ernia iatale. A dire il vero suscitano un’avversione innata anche varie sostanze di sapore amaro, probabilmente a causa della loro scarsa digeribilità o tossicità. Molti veleni vegetali hanno un sapore amaro, Agatha Christie docet, ed è verosimile che “fra i progenitori prevalentemente frugivori (cioè che si nutrivano di frutta o semi) dell’uomo moderno sia avvenuta una selezione naturale a favore degli individui geneticamente predisposti a evitare cibi amari”. La reazione riflessa e innata di rigetto nel confronto di sapori amari consiste “nell’apertura della bocca, nella protrusione della lingua e nell’espulsione del contenuto della cavità orale, o anche nel vomito”. La notizia meravigliosa è che questa reazione, che è già osservabile nel neonato umano, nell’adulto può essere inibita nel caso di sapori amari come quelli del caffè, della birra, degli aperitivi, di alcuni deliziosi superalcolici e dei cioccolati amari, che con l’esperienza possono diventare gradevoli. Molto gradevoli.

Tutto questo ripassino per ribadire che non solo siamo ciò che siamo stati, ma che per fortuna possiamo migliorare: peggiorando.

Tempo sprecato

È tempo sprecato quando

Ti fai raccontare un film anziché vederlo
Ridi per battute seriali
Credi di essere utile per risolvere questioni inutili
Credi di essere inutile per risolvere questioni utili
Trascuri la prima impressione
Ti fidi del consiglio dello chef
Dai facendo finta che non ti interessa essere ricambiato
Voti a sinistra per fede
Immagini di poter mantenere più di quanto hai promesso
Confidi nell’amicizia da polpastrello
Quel polpastrello ti prude e tu non scrivi
Bevi vino al di sotto dei dieci euro
Credi che il dolore riempia un vuoto
Credi che un vuoto sia nato per essere riempito
Usi l’amicizia come surrogato dell’amore
Pretendi dall’amore la duttilità dell’amicizia
Ascolti la nuova musica italiana aspettandoti che sia nuova e italiana
Ti dimentichi che esistono ancora in vita Pat Metheny e Gino Vannelli
Cestini un libro per sentito dire
Pensi che un passo indietro sia una sconfitta
E che un passo avanti sia un progresso (anche davanti al baratro)
Preghi al momento del bisogno
Inganni la cronaca con l’invenzione
Dai più attenzione alle vecchie foto che allo specchio
Ti fidi troppo dello specchio
Usi i tuoi problemi come passepartout
Cedi al fascino delle cose facili
Pensi ai tuoi guai come ai guai dell’universo mondo
Ti guardi indietro e ridacchi per le sventure dei tuoi nemici
Non fuggi quando dovresti farlo senza ritegno.

Cose serie: parliamo di vino

Da tempo ho deciso di bere solo buon vino. E insieme alla selezione materiale della bottiglia ho messo rinnovata cura nello scegliere ambito ed eventuale compagnia. Questo post ve lo dovevo dopo l’impegno assunto l’altro giorno.
Sono uno che beve benissimo da solo, che non considera affatto triste un aperitivo solitario a casa tra le piccole coccole domestiche. Ma sono anche felice di poter condividere questo rito con persone con le quali ho affinità (e qui ci mettiamo tutta la gamma, dall’amore all’amicizia, dalla passione specifica per il vino a quella per i rapporti umani sinceri). Mi è capitato di viaggiare per vino con chi, come me, amava il vino e la persona con la quale condivideva quella missione. Ed è stato indimenticabile: perché per un appassionato di queste cose, non c’è niente di più bello e stimolante che mettere alla prova i sensi. E più sono i sensi, meglio è.
Poi però la bottiglia si esaurisce, e non solo quella. Quindi punto e a capo: c’è chi la chiama sopravvivenza, chi scelta, chi sorte.

Mi è capitato anche di viaggiare da solo, come sapete dai diari di questo blog, e ne ho approfittato, laddove la situazione lo consentiva, per andare alla scoperta di prodotti più artigianali spesso al limite della decenza. Ebbene sì, mi sono più volte imbattuto nel tremendo “vino del contadino”, e me la sono svignata lasciando il bicchiere mezzo pieno: perché il vino è un arte e, senza nulla togliere ai contadini, è bene che sia trattato da mani esperte. C’è un motivo per cui la terra e la botte sono cose molto diverse.
Del resto, come si dice, se il vino non fosse importante, Gesù non lo avrebbe preso in considerazione per il suo miracolo d’esordio.  
Oggi leggo che l’Unione europea ha sentenziato che bere vino è pericoloso. Pare una tipica argomentazione negazionista dato che interferisce con millenni di cultura e che entra a gamba tesa in un terreno in cui ci sono infinite varianti: qualità, vizi, scienza, eccessi, prudenze, economia, gusto e cazzi nostri. Quest’ultima è la categoria più delicata quindi andiamoci piano con le criminalizzazioni.
La bottiglia è femmina, almeno per me. E lo rimarrà a dispetto della Murgia e di tutti gli altri tupamaros del linguaggio contemporaneo. Ma è una femmina molto particolare: l’unica della quale si può, anzi si deve, dire l’eta.

Quindi magari non sarà come diceva Veronelli, che “il vino è il canto della terra verso il cielo”, ma di certo sarà che un buon bicchiere – scelto, centellinato – consola, rallegra, commuove e interroga come nessun amico su questa terra. Almeno sulla mia.

P.S.
La bottiglia della foto è pressoché sensazionale per due motivi: primo, proviene da un cru visitato di recente; secondo, resterà nella mia irrilevante storia personale come una gioia indimenticabile per motivi che afferiscono alla categoria più delicata, di cui sopra.     

Coronavino

Faccio parte della generazione cresciuta con la pubblicità del “brandy che crea l’atmosfera” e che si domanda ancora com’è che con la Vecchia Romagna Etichetta Nera (che oltre a creare l’atmosfera consumava il fegato) finivi sulla vetrina di Carosello e con un grammo di marijuana finivi in commissariato. Siamo figli di molti errori, a partire da una mela, un albero e un serpente, roba che poteva essere l’incipit di una barzelletta e invece diventò il principio dell’umanità o giù di lì.

Ora, in questo mondo in cui per concederti due passi sotto casa devi avere un cane o un figlioletto perché senza sei un pericoloso criminale (più che se li avessi e li picchiassi), si scopre che il vino non è un bene necessario.

In vita mia ho sempre diffidato degli astemi militanti, cioè quelli che non si limitano a stare lontano dagli alcolici ma professano orgogliosi i motivi della loro scelta pretendendo di fare proseliti. Ciò significa che ognuno ha i suoi difetti, e il non bere vino è per me questione pregiudiziale quando scelgo una persona con cui andare a cena, ma anche che la più irritante delle presunzioni è quella da eleggere come manifesto. Il vino piace o meno, ma il piacer meno non può essere né motivo di orgoglio né elemento di discriminazione a mezzo decreto.

Il vino c’era quando il migliore di noi, uno che la sapeva lunga, spartì l’ultimo pasto con il mascalzone che lo avrebbe tradito prima del dessert. C’era quando gli artisti che avrebbero preso la fantasia del mondo sulle loro spalle scelsero di intrappolare un’idea su carta, tela o marmo. C’era quando la storia si accontentò di un paio di firme per deviare il suo corso. C’era al primo appuntamento di due innamorati e all’ultimo pasto del condannato. C’era ieri che sembrava un’altra vita e c’è oggi che non vediamo ancora un’altra vita.

Vietarlo incidentalmente non considerandolo degno di un’uscita regolamentata – allineati al supermercato come pedine su una scacchiera sperando che non sbuchi un alfiere in mascherina a mangiarci – è una carognata infame come solo certi burocrati possono immaginare. È una ragione in più per difendersi dalla presunzione di chi non sa, non vuole sapere, vuole calpestare chi sa. E per scolpire nel muro dell’eternità il vecchio adagio: bevo per rendere gli altri interessanti.

Andando per vino in California

Sulla strada per San Francisco una tappa obbligata è Santa Barbara, e già questo potrebbe toglierle fascino secondo la nostra personalissima road map. Tuttavia anche una tappa scontata può diventare interessante se le si attribuisce un tocco di leggerezza. Santa Barbara val bene due ore (beccando il parcheggio giusto), il tempo di sgambettare su lungomare e di gustare uno smoothie sul corso principale. Poi si riparte.
La meta è Paso Robles. Ma prima bisogna drogare il navigatore, che altrimenti vi suggerirebbe la rassicurante rapidità della 101 togliendovi il piacere di visitare centri come Solvang e Guadalupe (Dunes Reserve). La prima è una cittadina popolata e animata da una comunità danese che offre scorsi e suggestioni talmente pacchiani da risultare divertenti: mulini a vento, copia della Sirenetta di Andersen e altre amenità. La seconda va visitata esclusivamente per le sue dune di sabbia sul Pacifico, le più grandi di America.

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E al cospetto del re Sassicaia ci finimmo davvero

Lo scorso anno scrissi di una bottiglia di Sassicaia e delle magie legate a quel vino. L’indomani mi arrivò un’e-mail di ringraziamento dal direttore della Tenuta San Guido che ci invitava in azienda per una visita. Mi sembrava un puro esercizio di cortesia per un post che effettivamente celebrava le meraviglie di quel vino.
E invece.
E invece qualche giorno fa ci siamo ritrovati a Bolgheri, nell’austera tenuta del marchese Incisa a vivere l’incanto della storia di uno dei vini più famosi del mondo. E, ovviamente, a degustare con adeguato trasporto.
Le emozioni di una visita riservata interamente a noi, lontana quindi dal clamore pubblicitario dei tour guidati tipo “gruppo vacanze”, le tengo lontane da queste pagine, per non tradire il patto non scritto sull’elegante riservatezza di un’azienda che non cerca comode postazioni sotto i riflettori. Però ricordatevi che dietro una buona bottiglia c’è sempre buona gente, e che il vino – a differenza del poker e della politica – non conosce bluff.
Pensateci quando avrete la fortuna di assaggiare un Sassicaia (magari del 2004).

Vino amaro

vino

Molti anni fa al Messaggero ebbero un’idea bellissima. Per dimostrare che nella valutazione di un ristorante un ruolo di primo piano ce l’ha anche il servizio, vennero inviati una decina di cronisti in alcuni importanti locali di Roma con l’obiettivo di verificare la pazienza dei camerieri. Ne venne fuori uno spaccato molto divertente in cui i giornalisti raccontavano come avevano dovuto mentire rimandando indietro pietanze squisite.
Pensavo a questo articolo l’altra sera quando, in un ristorante sul lago d’Orta, mi è capitato di bocciare due – ben due! – bottiglie di Barolo perché non erano degne del loro prezzo (una era vicina all’imbevibile). Il giovane sommelier che mi aveva proposto il vino si è trovato in perfetta sintonia con le mie decisioni e ciò mi ha rincuorato, conscio del valore economico di che andava sprecato. In compenso la proprietaria del locale non l’ha presa benissimo e, dopo un’accoglienza cordiale, non ha più rivolto la parola a me e a mia moglie.
Abbiamo ripiegato su un più modesto Barbera e tutto è andato bene.

Al cospetto del re Sassicaia

Un’esperienza indimenticabile. Ho avuto il piacere di assaggiare un Sassicaia e sono rimasto incantato. Non sono enologo, né aspiro a diventarlo. Semplicemente mi piace bere bene e ieri mi sono trovato al cospetto di un gigante mondiale del vino.
Non mi dilungherò in dati olfattivi o in disquisizioni sui millesimi, dico solo che per capire perché un vino può arrivare a costare tanto c’è solo una cosa da fare: assaggiarlo.
Io ad esempio ho scoperto una tridimensionalità dell’aroma (i puristi mi perdonino se non uso i termini tecnicamente appropriati) che non immaginavo. Non c’è un profumo solo, ce ne sono diversi tutti ben distinti. E poi il gusto tondo, la perfetta persistenza in bocca. Sontuoso ma non pesante, immenso ma non ingombrante.
Un’opera d’arte, credetemi.

Rosso relativo

Ho l’abitudine di guardare indietro per capire quel che ho davanti. E ho la fortuna, perché di fortuna si tratta, di trovare un appiglio di felicità in ogni giorno che passa.
Sono un ex pessimista quindi parto avvantaggiato: vuoi mettere l’improvvisa consapevolezza che non tutto è destinato a girare per il verso sbagliato?
Credo che l’elisir di lunga vita sia relativizzare tutto, tranne un paio di cose che hanno a che fare con la fede o col sentimento. Quindi per combattere i concetti assoluti, mi affido alla memoria: dov’ero esattamente dieci anni fa? Come stavo? Che facevo?
Provate anche voi, se non avete seminato vento, vi sentirete bene. E magari, se volete, ne riparleremo.
Tra una bottiglia di vino e un’auto io scelgo la prima, perché subisce l’effetto del tempo in maniera opposta rispetto alla seconda