Rotolarsi nel fango

È davvero complessa la vicenda della ristoratrice suicida dopo le critiche di Selvaggia Lucarelli per i sospetti di recensione farlocca sul suo locale.
Brevemente vi spiego un mio metodo quando mi trovo ad affrontare una notizia difficile da commentare: identificato uno o più fattori scatenanti cerco di immaginare qualcosa ad hoc per ciascuno di essi. Quindi decompongo il problema e sposto un mattoncino dopo l’altro.
Qui abbiamo: un probabile errore commesso dalla signora che si sarebbe inventata una recensione falsa sfruttando temi delicati per farsi un po’ di pubblicità; un’operazione di debunking che smaschera il presunto imbroglio; l’aggressività polarizzata dei social che mette sugli altari e seppellisce nella polvere con la stessa velocità di un clic.

Il primo mattoncino è facile da spostare: sarebbe bastato non commettere l’errore all’origine di tutta la drammatica vicenda. Capisco che è una frase scontata, però la scrivo per una questione di metodo: prima spunta.

Il secondo è già più dirimente: dobbiamo rinunciare a interrogarci su ciò che accade intorno a noi, ad analizzare i fatti, a inseguire verità solo per paura delle conseguenze che il risultato della nostra osservazione possa far male a qualcuno? Tutto il giornalismo di inchiesta – e parlo in generale – porta in sé i semi di effetti indesiderati: leggetemi dimenticando per un attimo il caso della signora Giovanna Pedretti. Nel momento in cui indagando ognuno col suo mestiere (magistrato, giornalista, poliziotto, ma anche insegnante, psicologo, medico, eccetera), si apre una via nuova per una lettura diversa dei fatti, il percorso delle vite coinvolte cambia. Delle vite di tutti, da un lato e dall’altro rispetto all’evento chiave. La sola idea di rinunciare a interrogarsi e a interrogare per timore di non poter esercitare un controllo sugli effetti di quei punti interrogativi rimanda a censure e verità di Stato di cui la nostra storia è piena.

Tornando alla tragedia della ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano siamo al terzo mattoncino. I social. Stiamo discutendo su un supporto basculante in cui il reale flusso di una notizia è sconvolto pericolosamente. Nel mondo dell’informazione, quindi non sui social, una notizia si forma secondo uno schema abbastanza stabile. C’è un professionista, cioè uno che di mestiere trova e analizza le notizie. C’è un mezzo blindato su cui quella notizia viene inserita, è uno strumento o se volete un prodotto che offre l’unica garanzia possibile, quella della responsabilità: cioè c’è qualcuno che è sempre identificabile per rispondere dinanzi alla legge di quel che è stato diffuso. C’è un pubblico che fa il suo mestiere di pubblico: legge, assorbe, ci ragiona su e si fa una sua idea. Non si trasforma nel professionista che ha studiato per porgere e scovare le notizie. Non le arricchisce. Non ha modo di andare a molestare facilmente le persone coinvolte.
Nel mondo dei social invece la notizia rotola e si infanga, assorbe la melma di cui non è fatta e se ne sostanzia sino a diventare un’altra cosa.
Merda.

Questa è la realtà.

L’onanismo dell’odio social

Mi sono più volte schierato per il diritto di non perdono, per quello di essere faziosi, contro ogni forma di buonismo d’acchito, persino per il diritto di odiare.
Ma quest’odio social, odio liquido quindi praticamente fine a se stesso (i sentimenti manifestati hanno una loro ragione di essere se avviluppati in un ragionamento, altrimenti sono peti dell’intestino psichico) è insopportabile. Perché si accanisce, nello specifico di Filippo Turetta, su un bersaglio immobile, che si è già arreso, sul quale non c’è possibilità di argomentazione oltre l’onanismo del “buttate la chiave” salviniano.
Non c’è bisogno di martoriare le carni di un morto vivente, per di più giovane. E non c’è vergogna a provare umana (e cristiana, per chi ci crede) pietà.
Siamo sempre pronti a mostrare i nostri opposti su queste timeline, felicità o dolore, odio o amore, fiducia o diffidenza. E ci dimentichiamo la più grande lezione della vita, per chi ne ha una fuori da qui: il contrario dell’amore non è l’odio, ma il dubbio (cit).

Peli e destini

Questa storia parte da una cosa che potrebbe risultare un po’ schifosa. Una cosa che riguarda i peli umani. Passiamo la vita a odiarli o a rimpiangerli, a coltivarli o a sperimentare intrugli per debellarli. Dipende dalla zona del corpo in cui si trovano (è chiaro che in testa sono più preziosi che altrove) e soprattutto dall’età in cui ci poniamo il problema. Perché col tempo i peli migrano dai luoghi in cui sarebbe consono che dimorassero a posti impensati e francamente sgradevoli.

Il punto è il tempo che passa. Anzi l’effetto del tempo che passa.

C’è una bella frase di Peter Høeg, un autore che mi piace, ne “I figli dei guardiani di elefanti”: “Non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice” (ve ne parlai qui). Rende l’idea di una circolarità delle emozioni che questi tempi duri hanno soffocato. Perché, non è solo un gioco di parole, il tempo risente dei tempi e, ovviamente, viceversa.
Il problema è quello di un’immaginazione inquinata da una situazione estrema e omologante come quella dell’emergenza che ci ha costretti per due anni a una prigionia non soltanto fisica. Ma è anche uno stallo di percezione che fa parte del nostro divenire, credo dall’alba dei secoli.
Ciò che ci affascinava, oggi magari ci fa schifo. Ciò che ci abbagliava, oggi magari è invisibile. Ciò che ci era indifferente, oggi magari ci manca da morire.
Sarebbe anormale che così non fosse giacché l’immutabilità non è di questo mondo terreno, e per quello che so manco degli altri nei dintorni.
È l’inganno delle nostre percezioni che ci spinge all’errore.
Pensiamo all’amicizia come a un valore pressoché assoluto quando è provato che alla base c’è sempre uno scambio di qualcosa (che sia emozione, sentimento, convenienza o altro è un dettaglio che attiene alla nostra fortuna), quindi siamo nel campo del più che relativo.
Dell’amore si dice che quello vero è “per sempre”, mentre magari è proprio quello surrogato e complicato che non morirà mai nell’intimo del nostro cuore (e il mio, come vi dissi, è un cuore bonsai quindi è tutto più complicato e noioso). Quel lavoro sul quale avevamo puntato tutto si rivela, dopo anni di sacrifici, un alibi per non pensare ad altro: abbiamo bisogno di “cause di forza maggiore” per sfuggire alle debolezze, alle nostre cause di comprovata forza minore insomma. Ogni volta che facciamo un favore confidiamo nel fatto che, chissà, un giorno venga ricambiato, mentre ci dimentichiamo che noi prestiamo (e il favore si configura più o meno cinematograficamente come un prestito) ciò che ci possiamo consentire di perdere (e così il favore diventa regalo e fine delle scocciature).

Insomma quello che potrebbe sembrare un festival delle illusioni, è invece una plausibile celebrazione della realtà.
Il fraintendimento è di casa sui social, un po’ meno qui per fortuna, poiché la tendenza superficiale a dover spalmare tutto su un’unica fetta da addentare (il social è una tartina con mille ingredienti da ingerire simultaneamente, alimenta bulimia e non sa di nulla) crea spesso imbarazzanti corto-circuiti tra chi scrive e chi legge. Se uno scrive di amore è iscritto al filone dei depressi. Se uno scrive di aperitivi a quello degli alcolizzati. Se uno scrive di libri a quello degli sfigati. Se uno scrive di politica a quello dei simpatizzanti del regime. E così via.

La verità è molto diversa, per fortuna. Basta imparare a non rompere i coglioni agli altri quando non abbiamo il coraggio di tirare fuori i nostri.
Viviamo una crisi di emozioni genuine, quelle che si sussurrano o si urlano a seconda dei casi (qui un link d’epoca illuminante). Quelle per le quali non c’è vergogna né a dirle né a subirle. Le emozioni degli altri si rispettano, le nostre anche no: ad esempio la debolezza altrui possiamo biasimarla, la nostra possiamo tranquillamente maledirla.

Tutto cambia, tutto deve cambiare altrimenti sarebbe la sagra della noia. Ciò che l’appiattimento di questi anni ci ha tolto è la consapevolezza che non si cambia solo “per uscirne migliori”, la più grande panzana del millennio, ma anche (e soprattutto) per rimanere se stessi: ecco perché non è mai troppo tardi per avere un’infanzia felice.

I social e la solitudine che uccide

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Dopo la tragedia di Palermo con una bambina di dieci anni morta per un tragico (e stupido) gioco su Tik Tok bisogna, a tutti i costi, resistere alla generalizzazione. Quella di dare tutta la colpa ai social network e alle generazioni che vi sono immerse. E occorre innanzitutto contestualizzare. Tik Tok altro non è che un gioco e come molti giochi può essere pericoloso. È stato costruito scientificamente in modo da dare dipendenza, come tutti i social, col meccanismo perverso dell’autogratificazione. A tutti noi fa piacere riscuotere conferme e ottenere soddisfazioni: e ciò è normale. Meno normale è aspettarsi una gratificazione ogni dieci secondi: la droga del refresh ruba il nostro tempo e lo consuma in un’innaturale attesa del like che verrà. Lo scollamento sociale che ne deriva è tutto lì, in quel desiderio che vuole essere appagato istantaneamente. Non conta cosa fai per ottenerlo, conta solo fare qualunque cosa per essere premiato. Le tentazioni maligne, le cattive amicizie, le strade malfamate sono sempre esistite. Solo che prima erano fughe da casa, oggi sono fughe dalla realtà. E però, va ricordato che viviamo in tempi assai strani, in cui le distanze fisiche si allungano come le ombre della solitudine e che proprio grazie ai social stiamo colmando qualche lacuna sociale. Il contesto pesa, nel bene e nel male. Se persino le parole possono essere oggetti contundenti, figuriamoci i serbatoi online di parole, di immagini, di emozioni artefatte… E allora spieghiamo le regole d’uso e soprattutto combattiamo la solitudine imposta da questi giochi che ci illudono di vivere circondati da amici e invece scavano fossati tra chi siamo e chi ci illudiamo di essere.       

Piedi, selfie e altra fuffa dei social

L’articolo pubblicato su Il Foglio.

C’è qualcosa di utile in ciò che è perfettamente inutile: e cioè che lo si può usare come cattivo esempio. Almeno nella vita reale, al di qua del moderno specchio delle nostre brame, ergo lo smartphone. Dall’altro lato, nell’universo virtuale, tutto cambia. L’utile e l’inutile si diluiscono in una marea oleosa nella quale persino il cattivo esempio annega anonimo e umiliato dal non essere più né cattivo né esempio. È il trionfo di una lanugine del pensiero che avvolge e non ripara, sovrasta e non copre, ingombra e non riempie: la fuffa dei social.

Tutto è iniziato quando abbiamo rivolto verso di noi l’obiettivo del cellulare e da cultori più o meno scafati di un voyeurismo innocente e casereccio che alimentava l’interesse per le immagini degli altri, siamo diventati indefessi produttori di immagini da far guardare agli altri. E in questa rivoluzione, che è tecnologica, di costume e di linguaggio, abbiamo sovvertito una serie di regole che originariamente tendevano a raffinare il prodotto, a centellinare i risultati.

Nel passaggio dall’autoscatto al selfie si modifica un fattore determinante come quello del tempo: oggi il risultato è subito visibile, non è più un investimento che potrà essere riscosso dopo sviluppo e stampa, bensì una astrazione di realtà ripetibile, duplicabile e modificabile all’infinito. Quel braccio teso nei selfie è un invito a oltrepassare la cornice del ritratto e a entrare in comunicazione. Ma con chi? Non certo con l’individuo che si è autoritratto poiché nulla è più insondabile di un’immagine ciclostilata a uso e consumo di milioni di occhi. Entriamo in comunicazione col coro degli “adoratori della fuffa”, di cui quell’immagine è parte infinitesimale, ci lasciamo accogliere nelle echo chambers dove ciascuno vede solo ciò in cui si riconosce e che si aspetta di trovare.

L’autoselezione, cioè il volontario intruppamento in una conventicola di followers, è un elemento determinante per il proliferare incolto della fuffa nei social network.

Il caso dei tramonti è prezioso per spiegarne le dinamiche.

Non c’è nulla di più falso della foto di un tramonto. Perché già nell’attimo stesso in cui lo smartphone la cattura, un sistema elettronico ha colorato e alterato l’immagine (che è un controluce per antonomasia) uniformandola a parametri che la renderanno simile a milioni di altre immagini scattate davanti a milioni di altri tramonti. Non è tema di esclusiva pertinenza tecnologica, basti pensare alle ripercussioni sulla filosofia che divide i fotografi tra “albisti” e “tramontisti”. Giacché un’alba si cerca e un tramonto si trova, con quel che ne consegue in termini di fatica, dedizione e competenza, una semplice opzione sulla app di qualsiasi telefonino è in grado di trasformare un sole caldo in un sole freddo e viceversa: risultato, la moltiplicazione infinita di immagini nate e morte false. Eppure l’oppio delle echo chambers produce la reazione opposta a quella che ci si dovrebbe aspettare. In un tripudio di cuori, pollici alzati, faccine sbalordite, sale il coro dei “bellissimo/a”, come se contasse davvero quella macchia di colore rossastra, come se Zanzibar e Ustica avessero davvero un sole diverso, come se quel bicchiere in primo piano (la foto dell’aperitivo al tramonto è una pratica che ha più a che fare con l’onanismo che con la socialità tecnologica) raccontasse davvero una situazione unica.

L’applauso all’emozione contumace premia la conventicola stessa, è più pacca sulla spalla agli amici del gruppo che complimento all’autore. Più effetto che affetto.

Sarà per questo che ormai non ci curiamo nemmeno di apparire al meglio della nostra forma, di metabolizzare raffiche di selfie che non ci soddisfano, che non cestiniamo il brutto per valorizzare almeno il passabile. Che addirittura ci ridicolizziamo con evidente orgoglio mediante stickers o adesivi virtuali, ci mettiamo orecchie da coniglio, nasi da topo, che ci deturpiamo gioiosamente i volti con effetti visivi da casa degli orrori, che accettiamo di metterci in mostra nel luna park del web come non siamo mai stati e come in fondo non vorremo mai essere.

Perché l’applauso non è per noi, e lo sappiamo pur senza essercelo mai confessato, ma è per il circo che ci gira intorno e che usa gli stessi codici per blandirci e rassicurarci: smorfiette, emoji, pollici, cuori.

La fuffa rassicura e scaccia ogni forma di ansia perché droga ogni forma di giudizio.  

Persino il metodo più naturale di narrazione, quello che inquadra il divenire nel suo tragitto inesorabile tra punto di partenza e punto di arrivo, viene stravolto senza che si ridesti in noi il sistema immunitario sociale del senso del ridicolo. È il caso dell’“effetto boomerang”, una applicazione che crea delle brevi gif, ossia scatta una serie di foto in sequenza e le mette insieme formando un video pochi secondi. Il risultato è una galleria nevrotica di smorfie in loop, piedi barcollanti, cucchiaini che affondano nel gelato senza ferirlo, di corpi che resuscitano dalle acque: un panorama tremolante e ossessivo che fa dell’effetto (manco troppo) speciale il mezzo per raccontare una storia troppo breve per essere storia e troppo lunga per essere tollerata senza un sorriso.  

Nel 2014 lo psicologo ed economista ambientale Dan Ariely definì sul Wall Street Journal le cinque ragioni psicologiche per spiegare il fenomeno dei selfie: “1) ci serve a fermare l’attimo; 2) ci permette di continuare a vivere il momento (se dovessimo fermarci a chiedere a un’altra persona di scattarci una foto, smetteremmo per un attimo di viverlo); 3) condividiamo l’esperienza del momento con altri; 4) non ci preoccupiamo troppo del nostro aspetto; 5) lo fanno tutti”.
Era stato fin troppo ottimista dal momento che non aveva aggiunto il punto 6: ci fa godere nell’apparire terribilmente ridicoli.

Ma liquidare la fuffa dei social come mero riempitivo di esistenze che si riverberano nelle timeline, sarebbe sbagliato. Basta fermarsi e guardare con più calma ciò che ogni giorno passa sullo schermo del nostro smartphone. Fondamentalmente un tripudio di gambe e piedi. Ma attenzione, nel messaggio tramandato da questi arti in bella mostra c’è una porta nascosta e la chiave che la apre va cercata nei dettagli.

Nello specifico è una questione di centimetri. Il selfie che svela un paio di gambe adagiate su un divano con il loro corredo di filtri, effetti, sfocature strategiche ci rivela un’intenzionale manomissione che stavolta non interessa la foto in sé, bensì l’effetto che essa vuole provocare. Insomma c’è un curioso meccanismo di doping dell’attenzione altrui su quelle cosce che si mostrano per quello che sono (un paio di cosce) ma che, grazie all’inquadratura ampia quanto basta, promettono un dettaglio inguinale che non c’è. In quell’immagine ci si mostra liberi e al contempo pentiti di tale libertà, come se improvvisamente un freno avesse bloccato, per miracolo, la mano che conduce il gioco dell’autoscatto (che non a caso, negli anni Settanta, era una rubrica di alcuni giornali porno), in un rigurgito di pudore. Anzi di semi-pudore, che è la cifra dominante dei maggiori produttori di fuffa social. Cioè di tutti quegli utenti che sussurrano all’orecchio di ciascuno dei propri followers “vorrei tanto, ma non posso” e intanto alimentano l’antica forma di “ferocia” del feticista visto da Marx, che inquadrava una relazione ossessiva con una parte del corpo come più significativa rispetto a una relazione misurata con l’intero. Si dice: misero è il feticista al quale è offerta una donna, quando ciò che vuole è una scarpa. Ecco, il semi-pudore è una declinazione di furbizia social che non offre in realtà nulla, ma riscuote come se fosse.

Nei suoi lavori su media ed etica, l’israeliano Hagi Kenaan sostiene che l’occhio ha ormai raggiunto uno “stato di morte clinica” a causa di ciò che definisce “estetica dell’appiattimento”. La sua tesi è che “passiamo la maggior parte delle nostre vite di fronte a schermi, di modo che la profondità, il tempo, gli errori, le crepe sono interamente eliminati. In quanto vedenti funzioniamo come drogati, allo stesso tempo bramanti e dissanguati da ciò che usiamo per prevenire il nostro impegno nel mondo”. Così come generalmente accade nella dipendenza, la responsabilità etica tende ad essere la prima vittima dell’appiattimento, afferma Kenaan: dal pudore al semi-pudore è solo un passaggio tecnico, nel rispetto del dio algoritmo che regola l’effetto sul web dei nostri pensieri, parole, opere e omissioni. 

Alla luce di questi cambiamenti climatici nel pianeta delle emozioni, l’antologia della fuffa ha eletto il suo organo di riferimento. Che, come si può supporre, non è più l’occhio, ma il dito. Non a caso l’universo nel quale galleggiamo, più incoscienti che incolpevoli, è quello digitale. E le dita toccano, regolano, scattano, modificano, pubblicano i contenuti che alimentano le echo chambers.  Il paradosso è che proprio il tatto, quel senso che dovrebbe essere penalizzato nel mondo virtuale, è il protagonista di questo nuovo fenomeno cognitivo.

La tecnologia non sta a guardare, non indugia e nel suo perverso tentativo di rendere l’uomo strumento del suo stesso strumento, piazza il suo colpo basso: l’ultimo iPhone 11 Pro ha tre telecamere per inquadrare una stessa scena con un grandangolo, un ultra-grandangolo e un teleobiettivo. Avremo la fuffa in 3D. 

Elogio della distanza

Il mio incubo non è invecchiare, o peggio morire. Ma indurirmi, perdere sensibilità verso la parte più bella della vita che, notoriamente, è quella che comporta più fatica. Come un panorama unico per il quale abbiamo scarpinato, viaggiato, speso un sacco di soldi, sofferto a causa delle zanzare o del freddo o della diarrea, il bello che rischiamo di perderci (passo al plurale maiestatis per diluire un po’ di responsabilità) è qualcosa che ci è costato più di qualcosa. Indurirsi significa aver sprecato fatica, tempo, soldi, e la nostra moneta più preziosa: il sentimento (che, badate bene, non è solo l’amore ma tutta una congerie di corto-circuiti belli e divertenti). 

La condanna ad essere social a tempo pieno, la perdita di un valore come la distanza – perché se si è tutti vicini non ci sarà mai la mancanza che è uno dei fondamenti dell’arte e della ricerca – ci rendono tutti più duri, meno sensibili alle variazioni. E senza variazioni il panorama è piatto: ci può piacere un giorno, due. Poi è una palla mortale. 

Ecco perché dovremmo ricominciare a farci domande senza hashtag, a darci appuntamenti parlandoci e a vederci guardandoci. 

Una vera rivoluzione, secondo me, può cominciare da qui.

Su clochard, cultura, pianoforti e piagnonismo

Tiro fuori dal tritacarne dei social uno spunto di riflessione – a dire il vero non nuovo, ma sempre interessante – sul rapporto tra cronaca cruda e cultura, sulla Palermo ferita dall’immondizia e sulla città che invece sta cercando di rinascere con manifestazioni e spettacoli di prim’ordine.
L’altro giorno è morto un clochard e su Facebook si è scatenata una polemica sul fatto che se un uomo muore per strada, solo e disperato, quella della Capitale della cultura è solo una favola o una frottola, dipende dal grado di fantasia del polemista di turno. Mi sono ribellato a questa raffigurazione che ritengo ingiusta e piagnona. E l’ho fatto con l’esempio più banale che mi è venuto: il 23 dicembre scorso una clochard è morta a Pistoia, la capitale della Cultura 2017, e non risulta che alcun pistoiese si sia sognato di mettere in dubbio il prestigio della città.  L’acredine con la quale la mia argomentazione è stata respinta mi ha fatto riflettere. Quindi ne scrivo qui, a casa mia, per cristallizzare alcuni concetti, a futura memoria insomma. Continua a leggere Su clochard, cultura, pianoforti e piagnonismo

L’assessore che governa on demand

L’articolo di oggi su Repubblica.

L’assessore regionale ai rifiuti Vincenzo Figuccia lancia un contest su Facebook: “Meglio Brescia o Vienna pulite attraverso impianti e nuove tecnologie o Catania e Palermo ‘ngrasciate con le discariche e la differenziata con numeri da prefisso telefonico? Aspetto idee e pareri di cittadini e di esperti in una logica di cittadinanza attiva, di condivisione e ampia partecipazione”. Bene, oggi la condivisione e l’ampia partecipazione sono sempre ben accette, il populismo un po’ meno soprattutto in un settore, come quello dei rifiuti, che da sempre ha scatenato gli appetiti delle organizzazioni criminali. Il problema delle scelte strategiche on demand è che non sono né scelte né strategiche per un semplice motivo, manca il metodo di valutazione: come pensa di vagliare “idee e pareri”, l’assessore Vincenzo Figuccia? Per numero di “mi piace”? Per alzata di mano? Per efficacia di foto profilo? O magari per originalità dei commenti: si va dall’esempio svizzero a quello tedesco, dagli altiforni ai tavoli comunali, dal “bravo!” al “continua così!”. Continua così, come? Aspettiamo idee e pareri di lettori ed esperti.

L’attimo morente

Il “poliedrico riccionese noto sul territorio internazionale come studioso di Arte Liberty e artista alla 54° Biennale di Venezia” – la definizione è sua – che vedendo un ragazzo agonizzare dopo un incidente stradale anziché aiutarlo, chiamare i soccorsi, pregare, fuggire (purtroppo è previsto), ha messo su una diretta Facebook ci dice di questi nostri tempi molto di più di uno studio sociologico o di un editoriale di Selvaggia Lucarelli.
Oggi è facile seppellire questo signore di minacce, ingiurie e maledizioni perché l’esercizio della morale a posteriori è come quello della pedalata in discesa: chi non ha la struttura va in playback.
Ma nemmeno è urgente il bisogno di difenderlo, questo stupido prodotto del colon retto dei social.
In realtà quello che dovrebbe darci uno stimolo di dibattito, non soltanto a me che questi avvenimenti comunque li osservo per mestiere, deriva dalla rarefazione degli attimi cruciali dopo quel tragico incidente.
Il poliedrico assiste al dramma.
Resta sconvolto.
Prende il cellulare.
E qui imbocca la strada sbagliata nel bivio spazio-temporale che divide l’istinto tramandato (quello che tutto conosciamo come semplice “istinto”) e quello acquisito (un ibrido di bieca consuetudine e pigrizia mentale). Sceglie la consuetudine, che come tutti sanno è strettamente personale al contrario di un istinto puro diffuso e di specie.
Prende il cellulare e non telefona al 112, al 113, al 118, all’amico che ha quella stessa moto, alla mamma, alla fidanzata che magari lo ha appena lasciato. No. Accende una diretta Facebook e filma tutto a distanza con una codardia tecnologica che rischia di essere la cifra di una fetta di generazione.
A che cazzo serve la cibernetica (la chiamavamo così decenni fa) se non ci migliora la vita e anzi ce la rende detestabile?
Su questo dovremo interrogarci. Sull’istinto acquisito che ci spinge ad atti innaturali come la diretta Facebook della morte di un ragazzino. Pensate un po’: persino la fuga sarebbe un atto più umano.

Restare in tema

minoranza_aUno dei contraccolpi più fastidiosi – e, a lungo andare, anche un po’ pericolosi – della pseudo-comunicazione liquida, cioè quel flusso di informazioni non certificate che arriva dal web, è la quasi impossibilità di stabilire una conversazione a tema.
Uno prende un argomento e dice: ragazzi, oggi che ne dite se parliamo di questo e non di quest’altro? Dopo un paio di commenti annoiati (le discussioni non deraglianti richiedono un grado di conoscenza e/o fantasia tali che, se mancano, l’effetto sbadiglio è garantito) arriva quello che con l’aria dell’imbucato alla festa delle media si butta a capofitto su quest’altro e non su questo.
Fateci caso quando, magari alla fine di una giornata di lavoro, vi accoccolate sulla vostra timeline in cerca di relax. Se mai doveste scegliere di seguire una discussione, provate a contare quanti cercano disperatamente di rimanere aggrappati allo spunto iniziale e quanti sbrodolano i cazzi loro prendendo come pretesto non l’argomento sul tappeto, ma l’esistenza stessa di un tappeto sul quale esporre, non richiesti, la loro non richiesta mercanzia. E se mai cercherete di far notare che sono fuori tema o, Dio vi preservi, in clamoroso errore, sarete voi a essere messi all’angolo. Quando il non sapere è maggioranza, la ragione non ha più ragioni.