Uno dei difetti più fastidiosi della comunicazione (di massa) veicolata dai social network è la sfocatura perenne di un concetto, la bava di sottotesto non richiesto che scola da fatti inoppugnabili. Prendiamo la Liberazione. Che sia una festa che celebra la fine dell’occupazione nazista e la conseguente caduta del regime fascista in Italia ci sono pochi dubbi. Che si debba essere concordi nel reputare il 25 aprile 1945 un giorno fondamentale per la nostra libertà e per la nostra democrazia, un po’ meno purtroppo. In fondo se oggi un lestofante (da tastiera o da scranno parlamentare) può criticare allegramente questa celebrazione lo deve appunto all’oggetto della critica. È libero proprio grazie a ciò che vorrebbe negare.
Ma non è questo il punto.
La questione è, secondo me, trovare un approccio diverso nell’affrontare temi così universali. Ad esempio, cercare di rendere più commestibile un grande tema, porgendolo a piccole porzioni.
Parliamo di liberazione.
Per cercare di capire il limite tra assoluto e relativo in un caso come questo devo aprire l’infinito settore “cazzi miei” e sperare di essere chiaro.
Per anni ho celebrato una festa della liberazione molto personale. Festeggiavo in giorni precisi la fine di un paio di periodi difficili, sentimentalmente e professionalmente, e l’inizio di un nuovo modo di vedere le cose. Ne facevo proprio feste fisiche, a casa mia, con amici, musica e cibo. Andò avanti per un bel po’. Fino a quando nuove emergenze della vita non mi costrinsero a mettere altre date da esorcizzare, quindi da celebrare. Fu così che le “liberazioni” proliferarono senza darsi fastidio l’una con l’altra: del resto finché c’è festa c’è speranza.
Sprangai porte che sembravano impossibili da chiudere, spalancai portoni di cui non immaginavo la vista oltre, abbandonai cliché che stavano soprattutto nella mia testa, viaggiai da solo per mesi e mesi, scelsi senza paura di sbagliare, rischiai senza perdere la paura di sbagliare. Il distillato di queste esperienze lo misi in una cartella: liberazione.
Liberazione dal preconcetto, dall’abitudine, dal vizio inutile (esistono invece vizi preziosissimi), dal senso di colpa senza colpa e dal senso di impunità quando invece la colpa è evidente.
Di certo tutto ciò non ha fatto di me una persona migliore: ho ancora il rimorso di troppi errori da cui liberarmi, e forse non farò in tempo dato che il bioritmo della mia autocritica ha lo speed di un bradipo annoiato. Ma almeno, ora che ci penso, questa parcellizzazione delle idee può essere in qualche modo utile per spiegare il concetto di partenza.
Un tema come la liberazione è troppo grande e troppo eccitante e troppo bello e troppo… vitale per dibatterne come se si trattasse di un tweet di Salvini o di un centrotavola della Santanché.
Va invece abbracciato, fatto nostro, usato come termine di paragone (ero più libero nel ’99 o l’altroieri?). Nell’era della globalizzazione estrema, certe risposte – forse le più importanti – stanno in soffitta, tra l’album di vecchie foto ingiallite e la pila cementificata di fumetti di cui non hai mai avuto il coraggio di liberarti, tra le Adidas SL72 con dentro una clandestina colonia di Plerotus e il proiettore super8 Silma.
Ci vuole un po’ di coraggio per andare lì a cercare. E per tornare indenni dalla malinconia: che notoriamente è l’unico sentimento di cui non potremo mai celebrare la liberazione.