Doping

Da Ponferrada a Villafranca del Bierzo.
Da Villafranca del Bierzo a O Cebreiro.

Dalle pietraie delle mesetas al verde rigoglioso del Cebreiro, dalla Castiglia e dal Bierzo alla Galizia, questa parte del cammino mette a dura prova la forza di adattamento climatica, orografica, e soprattutto le gambe che, giunte al seicentotrentesimo chilometro, provano a protestare.
Per fortuna ci sono varie forme di doping, parliamo di quelle lecite, a venirti incontro. Una di queste è quella che chiamo “musica inusitata” cioè quella musica che calpesta ogni tuo gusto, ogni tua storia, ogni tua memoria eppure ti spinge. Vi faccio l’esempio di oggi, mentre ero alle prese con un dislivello in salita di 1.015 metri su una tappa di 28,2 chilometri: mica bambole spettinate. Il mio doping di oggi è stato questo (ascoltatelo se ne avete il coraggio). Una cosa che non c’entra nulla con la mia ostentata raffinatezza di gusti musicali, con quello che chiamiamo background (o forse freudianamente sì). Un’unica infilata di pattern sempre uguali dove il ritmo prevale su ogni significato o forse è esso stesso significato: chi l’ha detto che la mente non ami il junk food? E soprattutto che non le faccia bene ogni tanto? 

Oggi sono finito ad adagiare le mie membra in un agglomerato di case, tra cui l’affittacamere che mi ospita (un tipo gentilissimo) e un bar che si spaccia per ristorante, quattro chilometri fuori dal Cammino: il che significa che tra oggi e domani dovrò percorrere otto chilometri in più (due ore). Nel presunto ristorante una ragazza che giustamente vorrebbe essere altrove anziché spazzare, servire ai tavoli, prendere ordinazioni con un’insofferenza che non posso che capire e giustificare, mi porta una cena che in altri ambiti mi farebbe scappare a zampe levate. E invece mangio e ringrazio, ringrazio a vuoto perché lei si rifiuta di capirmi, unico esemplare di spagnola che rifiuta l’italiano (dell’inglese manco a parlarne). Anche qui, in altri ambiti mi sarei lasciato prendere da un attacco Torquemada, ho il mio rimedio magico. La “musica inusitata”. Infilo auricolari e scrivo queste righe.
Prego che il doping valga anche per l’apparato digerente.

17  – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Artrite spirituale

Da Rabanal del Camino a Ponferrada.

Ho un incubo ricorrente che si propone in due versioni coincidenti. Sogno di tornare all’improvviso a scuola per sostenere l’esame di maturità. Inutilmente dico che l’ho fatto molti anni fa e che adesso ho un lavoro, ho fatto cose… niente: l’angoscia sale verso l’inesorabile bocciatura. Oppure sogno di tornare al giornale dove ho lavorato per vent’anni. Mi danno un posto da occupare per passare le pagine provinciali: ma io ho improvvisamente dimenticato tutto e non riesco neanche a trovare il fax, non ho un computer, una macchina da scrivere. Tutti mi guardano, i miei colleghi di allora, e dicono tra loro “vedi com’è finito”. E ridono di me che resto fino a notte fonda senza neanche chiudere una pagina.

Ultimamente mi è capitato un altro incubo che si è riproposto. Sono in un Cammino – non quello che sto facendo, un altro che pure ho concluso felicemente – e devo affrontare una lunga salita. Arrivato in cima, affaticato, c’è una via obbligata che fa un percorso strano e senza scendere,  come in un romanzo di Stephen King (di cui in questi giorni ho letto una bella biografia), mi riporta giù al punto di partenza, tre litri di sudore più in basso. Devo ricominciare, molte volte: fin quando rantolante non mi sveglio gridando: “E che cazzo!” E l’eco di questa imprecazione mi tormenta fin quando non mi attacco alla bottiglia dell’acqua e bevo come uno sconsiderato. 

La scorsa notte ho fatto proprio quest’incubo, quello della salita. E non per caso. Oggi avevo in programma la tappa più dura (che se la gioca con la prima sui Pirenei) in cui su 32 chilometri, una dozzina erano in salita sino a 1.200 metri e i restanti venti erano un’infinita pietraia molto ripida (pensate che la quota di dislivello in discesa è di 1.267 metri). 
Insomma l’incubo premonitore, o come caspita si può definire, rischiava di fiaccarmi. Invece forse per via delle ore di sonno (nove tonde tonde), forse per gli undici meravigliosi gradi al risveglio, o forse per un compromesso storico dei miei bioritmi, stamattina ero bello tosto, di buon umore (nonostante la sveglia anticipata di un’ora). Risultato: mi sono divorato la salita fresco come un Sangiuliano dopo la lettura del libro quotidiano, nonostante fosse il ventiduesimo giorno di marcia ininterrotta (a un’età, la mia, non proprio da tempo delle mele). Soprattutto l’altimetria mi ha consegnato un pensiero – qui si pensa, eh! – su quella che definirei artrite spirituale. 
Tendiamo a irrigidirci nelle nostre considerazioni, siamo poco elastici nel tradurre i segnali del nostro corpo e troppo proni verso quelli della nostra psiche. O meglio, non riusciamo a mettere in contatto i vari reparti operativi della nostra persona e lasciamo convergere nello spirito tutto quello che ci scoccia decrittare. 
L’artrite spirituale si guarisce rispettando la vera essenza delle salite e delle discese. Soprattutto uscendo dal luogo comune che vede le prime come sinonimo di sforzo, difficoltà, e le seconde come portatrici di agevolazioni, facilitazioni. Niente di più falso come sa chi fa trekking a buon livello, maratone in alta quota, trail, cammini lunghi con uno zaino in spalla.
Nella stragrande maggioranza dei casi le discese sono molto più impegnative delle salite e richiedono uno sforzo tanto maggiore quanto è mancato un allenamento a parte. Perché mettono in gioco altri muscoli, che tendiamo a sottovalutare.

Ecco, metteteci tutte le metafore di cui siete capaci e ditemi se la vostra artrite spirituale non ha bisogno di un occhio diverso. Meno ordinario, meno sbrigativo, meno convenzionale.
D’ora in poi quando vi troverete in una salita della vita, provate a pensare che non è il peggio che poteva capitarvi. Poteva essere una discesa. 

Nella foto una minima idea della pietraia di stamattina.

16 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Molliche

Da San Martin del Camino ad Astorga.

Man mano che ci si avvicina a Santiago il cammino diventa ahimè sempre meno solitario. Per intenderci, dopo venti giorni di passi in compagnia esclusiva di me stesso medesimo mi infastidisco anche solo se qualcuno mi affianca (l’effetto rompicoglioni ungherese non si è mai esaurito e in tal senso non ammetto cali di tensione, tipo Caselli con la mafia negli anni del depistaggio). 
Santiago è la nota dolente di questo cammino, perché è un luogo fondamentale per chi ci arriva una volta, due, ma alla terza cominciano a pesare la folla, i prezzi alle stelle, l’invivibilità di una città simbolo che diventa simbolo di altro, qualcosa di diverso, irritante. Infatti ho deciso che stavolta la eviterò e me ne andrò lontano, dritto verso Porto (ma in pullman) che, tra l’altro ha il volo diretto per Palermo.  
Tenete conto di un fatto incontrovertibile: la maggior parte di quelli che dicono di aver fatto il Cammino di Santiago hanno percorso solo le ultime due o tre tappe: insomma è il Cammino dell’hinterland di Santiago. Questo vi dà la misura di quanto la città sia imbuto e contenitore di un fenomeno globale ancor prima che di un pellegrinaggio.

Tra le dieci-undici persone che ho incontrato stamattina lungo una tappa inaspettatamente fresca, causa pioggia annunciata e pervenuta come un coitus interruptus (cioè scaricando altrove), c’era un padre in bici con tre figli tutti bardati per una missione di lunga pedalata. Si capiva tutto chiaramente: padre e figli perché identici con la stessa corporatura longilinea e la stessa fisionomia; lunga pedalata perché avevano tutti un bagaglio ben evidente; una squadra educata al profitto fisico (andavano forte e si capiva che erano allenati) e alla netiquette (precedenza ai pedoni sempre); e un dettaglio delizioso per me, il “buen camino” ripetuto da ciascuno di loro con sorriso di ordinanza davanti al camminatore affaticato. Un quadretto di armonia familiare, di solidità sportiva, di educazione semplice ma inderogabile. 

Lo confesso, ho un nervo scoperto per certi quadri di vita. Ed è un ambito talmente delicato che la mia indole mi consente di affrontarlo pubblicamente solo con un numero di parole ridotto.
Non sono stato padre per scelta. Non ho mai voluto figli e non ho mai imposto questa mia scelta a nessuno. Chi mi ha condotto o affiancato per un tratto di vita lo ha fatto condividendo e/o rispettando questa visione delle cose. Quindi bandita la parola “rimorso”.

Però quel padre che pedala coi figli lungo una strada lunga giorni che diventeranno anni di ricordi ed eternità umana di gioia ha suscitato nel sottoscritto, catorcio monocilindrico, un sentimento che a voi descrivo come ammirazione, e a me, nell’abbaino angusto del mio cuore, confesso come dolce invidia. 
Penso alla fabbrica di ricordi che quel padre ha messo su con lungimiranza. Al divertimento che quei ragazzini, sgommando ordinati sullo sterrato, stanno capitalizzando. A quella quota di affetto e cura di sé che diventerà rispetto, condivisione, investimento sui sentimenti. Pedalare insieme, sudare insieme, cenare insieme, dormire insieme, progettare insieme, per giorni che resteranno per una vita. Se siete genitori fatelo ora, subito.
Imbastite una missione, prendete una striscia di tempo, staccatela dal resto e dividetela in tante strisce coi vostri figli, progettate avventure alle quali dedicherete mesi e mesi di preparazione, fatevi comandanti e complici, esploratori e turisti. Faticate coi vostri figli, ve ne saranno grati.
Prima che la pigrizia vi ingrigisca, prima che l’ordinario vi sommerga, prima che ci sia un dopo imprescindibile. 
Mollate tutto e andate a impastare il pane del vostro futuro. Perché in fondo presi a solo, siamo molliche.
La quota di parole a me concessa per questo argomento finisce qui.

15 – continua

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Così così

Da León a San Martin del Camino.

Prologo.
Prima dei social le nostre vacanze erano belle o brutte come tutte le vacanze. C’erano le fregature e le scoperte, con tutti i gradi intermedi. E soprattutto esisteva il così così. 
Il così così risolveva ogni dubbio, eliminava ogni decisione, appianava ogni diatriba.
Com’è andata? Così così. Amen.
Oggi è impensabile un giudizio così poco fotogenico, non screenshottabile. La mezza misura è bannata in un mondo in cui il padrone di una gran fetta dei social è un miliardario che fomenta le folle e soffia sul fuoco anche per il peto di una vacca (oddio la metafora è abominevole, ma tutto sommato scialba rispetto ai contenuti di X). Se non avessi questo blog anche io sarei caduto in questa dittatura degli estremi, o meraviglioso o merda, o “lasciatemi qui” o vergogna”, o “se è porno tolgo” o “da dimenticare”. 

Fine del prologo.
Sono a San Martin del Camino, nell’unico albergue in cui hanno una stanza non condivisa, in cui uno può farsi una doccia senza dover fare la fila, insomma in cui la condivisione forzata del pellegrino non è la way of life dominante. Un paese (paese?) in cui puoi cenare in un solo posto e in cui se per caso fai antipatia alla cameriera sei fottuto. Indovinate come è andata? 
In questo inusitato assembramento di persone dove per un abitante si contano un milione di mosche (cifra arrotondata per difetto) si misura la durezza di un cammino così lungo.

Mi è capitato più volte di trovarmi in situazioni dove il così così sarebbe stato un compromesso ruffiano. Una volta, qualche anno fa, mancai clamorosamente un paese, che a dire il vero non si trovò mai come se fosse scomparso dalla carta geografica o come se al contrario fosse stato segnato solo sulla mia, e riparai a casa di una signora che ebbe pietà di me che ovviamente ero a piedi. Un’altra volta il tale che doveva ospitarmi a casa sua si fregò i soldi e vendette la camera a un altro, mi accampai davanti al portone per fargli assaggiare le mie rimostranze solide ma poi fui convinto a ripiegare in un nonviolento rimborso spese. Proprio ieri, un albergo raffinato (uno dei pochissimi) che doveva ospitarmi nel centro di León si è mangiata la mia prenotazione rimbalzandomi in un anonimo hotel ai margini. Anche qui esercizio olimpico di pazienza a corpo libero e via andare (di reclamo). 
Accade. Viaggiare è vivere: se non ci sono imprevisti, nel migliore dei casi significa che sei morto. 
E quindi.
Stasera in questa ridente cittadina di mosche felici, per sfamarmi sono costretto a mangiare pizza scongelata male (nella foto, e quelli non sono funghi ma comparse reclutate ad hoc nel favoloso mondo dei vegetali da fiction) e olive in salamoia. Accanto a me un gruppo di ragazzi italiani che anzichè gioire della loro condizione (di giovani, viaggiatori, camminatori o pellegrini, viventi con prospettiva, costruttori di futuro) si lamentano delle piaghe ai piedi e pianificano un ritiro anticipato. Avranno manco trent’anni e li giustizierei sommariamente coi noccioli delle olive.

Insomma.
In questo Cammino Francese sto visitando posti meravigliosi, come vi ho raccontato, ma per onorare l’oggettività di una narrazione accettabile è giusto togliere ogni forma di eroismo, calare la telecamera del racconto ad altezza uomo, stangare ogni tentativo in cui il pittoresco offusca il reale. 
L’unica costante è la felice fatica, felice perché sino a ora reggo con malcelata soddisfazione (e sono a ben oltre metà dell’opera), fatica perché non c’è sinonimo che renda in modo adeguato il ripetersi costante di mattine, chilometri, arsura, chilometri, passi, chilometri, arrivi e di nuovo mattine, chilometri… 
Come nella vita di tutti i giorni spesso va benissimo, raramente va male, ogni tanto va così così.

14 – continua

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Il tratto fisico e la variante buon gusto

Da El Burgo Ranero a Leòn.

In alcuni dei miei Cammini ci sono stati momenti in cui spinte di cronaca estranea ai miei passi, pochissime a dire il vero, hanno condizionato le mie scelte strategiche. Che so, ricordo la famosa tagliata di faccia di Conte a Salvini nel 2019: ero nel Cammino del Nord e grazie a un itinerario in cui c’era copertura telefonica riuscii ad ascoltare lo scontro al Senato: meglio di un film. Oggi c’era la finale del volley femminile alle Olimpiadi e sono riuscito a seguirla grazie a un intricatissimo (credetemi) sistema di orari di partenze e spostamenti di tappa. Perché comunque è vero che una delle attrattive di queste esperienze è il ritiro da tutto e il sottrarsi dal tran tran, ma è anche vero che per via di un mestiere e di un’indole ci sono cose che ci interessa seguire e che non vanno sacrificate per partito preso.
Non vi dico come e dove ho visto la meravigliosa finale di oggi. L’importante è stata viverla con tutti gli elementi di una vera festa: la gioia, l’orgoglio, il significato.

In questi giorni di fatica mi è spesso tornato in mente il concetto di “tratto fisico” di cui ancora ieri il solito Vannacci andava vagheggiando. E ci ho pensato per vari motivi. Innanzitutto perché la fatica cambia i nostri tratti somatici: ne ho conferma ogni volta che incappo in uno specchio dopo 25-30 chilometri sotto il sole. Poi perché muovendomi per un paese multiculturale come la Spagna ho modo di godere lentamente del mix di colori e tradizioni. Infine perché il Cammino Francese è un crogiolo di lingue e culture incredibile. Negli ultimi giorni ho cenato con americani, chiacchierato con francesi, scherzato con coreani e il succo del discorso era sempre lo stesso: trovare concetti che uniscano, che sia cibo o passione sportiva. È un atteggiamento che, lo confesso, tengo con parsimonia dato che, come ho più volte detto, preferisco il viaggio in solitaria. Del resto straparlo abbondantemente nei restanti undici mesi dell’anno, trenta giorni a regime vocale ridotto fanno bene tanto allo spirito quanto alla laringe.
Però mi pare interessante che il “tratto fisico” abbia perso negli anni la sua finta valenza rappresentativa almeno nei paesi civili. Perché, diciamolo, è un elemento di distrazione, una gran perdita di tempo. Ve li immaginate i leghisti più retrogradi censire i punti fatti ieri sul campo di volley dalle atlete bianche e sbattersi la testa al muro perché i conti non tornano?

La verità è che tra storia e narrazione c’è un abisso e i fascisti di ogni epoca pretendono che la prima si inchini alla seconda. Churcill puntava al Nobel per la pace e, quasi contrariato, si trovò a vincere quello per la letteratura. “Alice nel paese delle meraviglie” doveva essere una favola per bambini e invece fu un gran romanzo lisergico, per di più scritto da un matematico sotto pseudonimo (ne parlo in “1979”). In “Willy il coyote” per la prima volta in un cartoon il vero eroe è un perdente che perpetua la sua sconfitta. E così via. Il “tratto fisico” come metafora della scontatezza, della versione preconfezionata, dell’offesa al genio dell’uomo che sia poeta o sportivo, avvocato o poliziotto, martello o chiodo. Per quel che ho capito della vita, pochissimo, il dipanarsi del nostro tempo libero è una buona palestra per i muscoli della nostra narrazione. Senza nulla togliere alla beatitudine dell’ozio e al gusto del buon vivere (che è uno dei concetti più relativi che si possano tirare in ballo in quest’ambito) le cose che sembrano superflue riescono alla lunga a risultare fondamentali.

Non mi stanco di ripeterlo. Viaggiare a piedi è un discreto modo per esercitarsi in concetti semplici ma cruciali. Tipo che essere tutti uguali è giusto, ed essere tutti diversi è divertente (scoprire che non sono concetti alternativi è illuminante). E che dichiararsi liberi è una cosa facile da far male, come la pasta aglio e olio. Lo insegna ancora una volta il Cammino dove i passi vanno misurati, preparati responsabilmente.
Non c’è libertà senza responsabilità.

Nella foto, un murales di Sahagùn, una cittadina a metà tra il molto pittoresco e l’abbastanza scarso.

13 – continua

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La certezza che vacilla

Da Fròmista a Carriòn de los Condes
Da Carriòn de los Condes a Ledigos.

Crollo delle certezze? Ti svegli, barcolli sino a un simulacro di bar, ingolli le calorie necessarie per una giornata di sudore e fatica, ti carichi lo zaino in spalla. E prima che tu possa fare il primo passo, un furgoncino con la scritta “Caminofacil” accosta al portoncino del tuo B&B e ritira due zaini e quattro trolley giganti. È un servizio abbastanza noto tra chi si cimenta nei vari Cammini e consiste nel trasporto del bagaglio in modo che il pellegrino\camminatore possa fare il suo itinerario senza pesi sulle spalle. Che non è come fare le escursioni con la bici elettrica, godendo di una legittima seppur snaturante agevolazione, ma peggio. La voce più oltranzista del mio spirito di avventura dice che lo zaino è parte integrante del viaggio e mollarlo significa barare. Quella più trasversale dice: magari!

Ne scrivo da anni, lo zaino è il pegno e il bottino di un camminatore. È casa e fuga, è peso e sicurezza, è espiazione e crocifisso. Non potrei mai immaginare una scorciatoia fisica così sleale (io che odio le scorciatoie). Eppure. 
Eppure oggi nel famoso tratto di cui vi avevo detto qualche giorno fa, senza un albero senza una fonte senza un paese, un miraggio mi ha colto. Un miraggio di undici lettere: Caminofacil.

Era stata una tappa complicata. Con tripla scorta d’acqua cioè con tre chili in più sul groppone. Con una linea di orizzonte ingannevole che ti dice che tutto è vicino mentre non è manco a portata di maledizione. Con un misto di terra-sassi-sassi-terra che ti ricorda che le caviglie sono articolazioni misteriosamente connesse ai centri della tua sopportazione che non hanno a che fare con muscoli e tendini ma con parti meno descrivibili.
Le certezze vacillarono sino all’arrivo a destinazione, Ledigos, un non paese basato su un paio di albergue (e ovviamente una chiesa) con trionfo di cene comunitarie, dove la temperatura garbatamente alta ti induce all’unica tentazione accessibile: la cerveza 1906 per la quale ho una passione inconfessabile e alla quale devo il punto finale di queste righe.  

P.S.
La foto di questo post non a caso è simile a quella del precedente: siamo nella stessa regione, ma il terreno si asciuga sempre più.

12 – continua

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Miraggi

Da Burgos a Hontanas.
Da Hontanas a Fròmista.

Spesso quando pensiamo alla nostra infanzia – e mi rivolgo a miei coetanei con un’oscillazione di dieci anni in più o in meno – il primo riferimento quasi istintivo è ai giochi per strada. Le nostre generazioni sono state le ultime a giocare a pallone sotto casa, a nascondino tra le auto parcheggiate, a muffa 21 nelle piazze di quartiere e così via. In “Cenere” c’è proprio un capitolo in cui il personaggio racconta la sua infanzia di strada con le sue regole (quando passava un’auto si fermava il gioco e nessuno barava) e le attrezzature (gli zaini o i maglioni impilati per fare le porte dell’immaginario campo di calcio).

È un pensiero che mi è tornato in mente in questi giorni di cammino tra i rari paesini delle mesetas spagnole: minuscoli centri senza auto dove i ragazzini giocano nei vicoli e abbandonano le bici per andare a pranzo senza paura che gliele freghino. Ecco, la bici lasciata così, incustodita, fa schizzare il mio tasso di nostalgia per quelle epoche che sembrano paleolitico e invece sono solo umanissimo serbatoio di sentimenti ed emozioni analogiche.
A impastare questi pensieri e soprattutto a cuocerli per bene sono stati gli oltre 65 chilometri macinati in due giorni, su altopiani martellati dal sole e sentieri di pietre e terra. Terra leggera che si alza a ogni passo e che si infila dovunque: te la ritrovi dove meno te l’aspetti e i primi minuti sotto la doccia sono sempre imbarazzanti. 

In questa parte del Cammino Francese gli alberi  diminuiscono di giorno in giorno. C’è una tappa addirittura, prevista tra due giorni, in cui la guida e le mappe indicano con precisione il chilometro in cui si troveranno alcuni pioppi e una quercia. E poi nulla.
La stessa guida avverte di fare attenzione perché “in questi luoghi le illusioni ottiche sono frequenti ed è spesso difficile calcolare le distanze”. Il che non mi scoraggia, anzi. I miraggi non ci hanno mai condotti alla meta, ma probabilmente senza un miraggio molti di noi non si sarebbero mai messi in viaggio. 

11- continua

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Ci sarà un motivo

Da San Juan de Ortega a Burgos.

Nel rispetto del patto di verosimiglianza tra chi racconta e chi legge completo la storia del paesino minuscolo di venti abitanti di cui scrivevo ieri. In molti mi hanno scritto privatamente ondeggiando tra un “che invidia” e un “mi trasferirei lì subito”. Ho imparato che la gioia della straordinarietà sta nel sapere godere di una situazione oltre il flash iniziale, diciamo per almeno 24 ore dal colpo di fulmine. È così per tutto, dal lavoro alla vacanza, dall’amicizia all’amore, dal condominio alle perdizioni.

Risveglio a San Juan de Ortega, ore 7:50. Gallo che canta come se avesse un auditorium da soddisfare. Silenzio fuori, inferno di letti e sedie spostati dentro: il proprietario/barista/cuoco del residence/bar/ristorante alle sei e mezza del mattino si muove come se dovesse mascherare la scena di un delitto mentre la polizia arriva. Urla al telefono (si capisce perché non c’è mai un controcanto), rifà le stanze da solo non si sa se per risparmiare o perché la forza lavoro del paese è di poco superiore a quella di casa mia dove vivo da solo, suda la stessa camicia a maniche corte del giorno prima e non credo per via di una passione ecologista. 
Esco a tentoni dalla mia stanza (la mattina un bradipo mi batterebbe senza problemi al gioco del fazzoletto) e cerco un approdo per la prima colazione. Mi imbatto nel de cuius che mi gela (fuori ci sono 18 meravigliosi gradi) dicendo che il bar apre alle 10 e che se voglio fare colazione posso comodamente muovermi per 4,5 chilometri come tutti gli altri.
Per fortuna c’è una macchinetta del caffè, per fortuna ho le monete, per fortuna fuori c’è una giornata meravigliosa (ignorando una tappa lunga, assolata e con ragguardevole salita). 
Lascio la gioiosa e pittoresca cittadina con la ragionevole certezza che non sarà un caso se da tempo immemore i suoi abitanti non si sono mossi da quota venti. 

Nella foto la pianificazione della tremenda tappa di domani, di cui vi dirò appunto domani, se ci riuscirò.

10 – continua

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Venti abitanti

Da Santo Domingo de la Calzada a Belorado.
Da Belorado a San Juan de Ortega.

A spiegare, se mai fosse possibile, il senso di un Cammino come questo c’è l’sms del proprietario dell’appartamento in cui alloggio a San Juan de Ortega. Dice di non fermarmi, all’arrivo, all’indirizzo stabilito ma di andare avanti per 50 metri, oltre la chiesa nella strada principale e di cercare il Bar Marcela dove potrò fare il check-in. Aggiunge senza ironia che è difficile sbagliare dato che oltre la chiesa e la strada principale, poco più larga di un sentiero, non c’è altro in questo paese che, mi scrive, conta 20 abitanti. Insomma mi dice senza dirlo che perdersi è impossibile se si ha qualcosa che tiene distanti le orecchie. Quando lo raggiungo – al termine di un itinerario in salita di 24 chilometri con annessa persecuzione a opera di una famiglia di moscerini che mi ha preso al dodicesimo e non mi molla manco adesso che sto sotto un ombrellone a bere cerveza e a godere per l’oro di Paolini ed Errani – mi chiede cosa voglio mangiare per cena perchè qui non ci sono ristoranti e la sua cucina chiude alle 20. 

È il trionfo del piccolo, del disabitato, della pienezza del vuoto, della magica ruvidità del mondo reale, questa tappa. Perché non è la scomodità, come erroneamente si pensa, che noi camminatori indefessi cerchiamo. Noi, solisti (scusate ma il concetto torna sempre) bipedi e capricciosi (una missione complicata è sempre un capriccio dell’ego e l’ego non è una malattia) cerchiamo il magico accordo che come ogni accordo che si rispetti è fatto di tre note: indipendenza, indipendenza e indipendenza. Una di quelle cose un po’ antipatiche da dire che si traduce nelle tipiche discussioni invernali con chi ti chiede perché e percome in un “solo se lo provi lo capisci, se te lo racconto non te ne fotte niente”.
Nei miei Cammini mi è capitato di trovare rifugio in luoghi inesistenti, di allenarmi a godere di poco (e non sono uno predisposto in tal senso), di adattarmi con soddisfazione: io che sono la persona più scostante e detestabilmente snob in tema di rapporti sociali. Ma questa tappa è davvero la sublimazione di un mondo antico in cui nel raggio di 50 metri hai tutto quel che serve per imbastire la più importante difesa contro i restanti undici mesi dell’anno: un sorriso anarchico, tuo e solo tuo, che non va spiegato, giustificato, spacciato per altro.

P.S.
Nella foto la chiesa, il bar, la strada principale e il suo struscio domenicale di San Juan de Ortega. 

9 – continua

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Divoratori di strada e divoratori di croissant

Da Logrono a Nàjera.
Da Nàjera a Santo Domingo de la Calzada.

Benedetta pioggia. Una tappa che doveva essere a rosolamento lento in un forno dritto e lungo, senza un albero e con un solo paesino a rompere la continuità della cottura, è diventata tutto sommato un piacevole sguazzare nella frescura umida di terra che poteva essere fango e non lo è stata, di pensieri che potevano essere inutilmente roventi e non lo sono stati, di un profumo di viti bagnate che annunciano vino e gioia. L’ho detto e scritto molte volte: un cammino è anche un viaggio di panorami da annusare, lentamente, con la fantasia meteorologica che il Padreterno tira fuori quando gli gira. 
Unico problema per chi, da Doc, considera le variazioni come scalini progettati male, l’errore di calcolo in ambiti non secondari tipo… il calcolo dell’acqua. La faccio breve perché è argomento che interessa solo chi ci inciampa: l’acqua se ne va a litri specialmente sotto il sole, ma pesa sulle spalle (per ironica coincidenza con certi detti popolari). Farne scorta perché un tratto di strada è sprovvisto di fonti è una scelta che va ben ponderata: una bottiglia da due litri significa un carico di due chili in più, e due chili in più su decine di chilometri sono una mazzata. Insomma sbagliai il calcolo e mi ritrovai più pesante quando potevo non esserlo e più assetato quando non potevo esserlo. Risultato, arrancai sotto il peso di qualcosa che consumai troppo presto.
E a nulla è valso per rinfrancarmi l’avvistamento del noto rompicoglioni ungherese – di nuovo! – agganciato all’ennesima vittima, una ragazza bionda alla quale stava mostrando qualcosa dal suo telefonino nel nulla di un rettilineo terroso con nulla intorno (ma probabilmente di nulla se ne intende, il furbo).
In realtà l’unica immagine che davvero mi ha sconcertato in questi due giorni è stata quella di un tale che armato di zaino e sandali, ripeto zaino e sandali, faceva il mio stesso itinerario correndo. Una via di mezzo tra un triatleta in libera uscita dall’ultimo manicomio e un martire in cerca di un agognato esito infausto. A lui dedico la foto di questo post, sperando che non sia alla memoria

P.S.
Nei mesi a venire ci sarà tempo per aprire un contest su un tema fondamentale tipo i migliori croissant (o cornetti come li chiamiamo noi) mangiati nella nostra vita. Dico la mia: li ho divorati – tre – stamattina in un piccolo hotel di Najera, indimenticabili. 

8 – continua

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