Per amor di clic

L’altro giorno ho postato sui social una mia foto di quando avevo vent’anni o giù di lì, con questo testo:

Oggi, svuotando cassetti, mi è tornata tra le mani questa foto. È dei primi degli anni ottanta, riflette una fase che credo molti dei miei coetanei hanno vissuto: quella del cuoio, dei capelli lunghi, delle perline, di qualche canna, e via dicendo. E senza ricamarci su troppo ho pensato che abbiamo avuto davvero una possibilità immensa in giovinezza: quella di avere la più ampia possibilità di sbagliare da soli. Senza suggerimenti di senza volto, senza intelligenze artificiali, senza inganni cibernetici. Si sbagliava e basta. Senza sconti e franchigie. Si sbagliava e la conseguenza era lì, davanti ai nostri occhi con tutto il suo carico di forza analogica. Le ferite e i lenimenti erano reali, senza trucchi e illusioni.
E, badate bene, non è nostalgia. Ma consapevolezza: dobbiamo stare vicini ai nostri giovani, ai figli di questo tempo pericolosamente liquido. Perché sono loro i veri supereroi.

Ne sono scaturite alcune riflessioni pubbliche e private, tra le quali una mi ha colpito in modo particolare. Prima dell’avvento degli smartphone le foto erano fondamentalmente una testimonianza di affetto. Si centellinavano perché la pellicola costava. Erano dono ponderato. Non si pensava alla futura memoria, ma all’incorniciatura del presente. E soprattutto racchiudevano non solo l’essenza visibile del soggetto, quanto l’impronta di chi le faceva.
Di ogni scatto ricordiamo perlopiù chi ha fornito il dito cruciale. E se non lo ricordiamo magari ci struggiamo: aderisco a quella corrente di pensiero secondo la quale uno scatto anonimo è uno scatto monco nella memoria della nostra vita (in generale odio le cose anonime tipo i regali senza un pensiero, un biglietto).
Nulla a che vedere con la fotomania contemporanea dove la narrazione non sta davanti all’obiettivo, ma dietro il mezzo di diffusione. Non vi sfuggirà che il selfie, il più importante mezzo di autopromozione degli ultimi dieci anni, un tempo si chiamava autoscatto ed era quanto di più clandestino si potesse immaginare in presenza di una macchina fotografica.

Alla luce di tutto ciò la tentazione sarebbe quella di considerare i nostri album cartacei – ne ho a decine – una sorta di spoon river dei ricordi o meglio delle esperienze. Per fortuna quello che sino all’altroieri chiamavamo progresso e che oggi chiamiamo innovazione ha i suoi lati positivi. Come quello di poter inanellare facilmente righe anarchiche (tipo queste) nei confronti del tempo e dei tempi e farne veicolo di un pensiero, né antico né moderno. Un pensiero e basta.
Pensare è la cosa più difficile del mondo se non sei stato addestrato a farlo.

Rotolarsi nel fango

È davvero complessa la vicenda della ristoratrice suicida dopo le critiche di Selvaggia Lucarelli per i sospetti di recensione farlocca sul suo locale.
Brevemente vi spiego un mio metodo quando mi trovo ad affrontare una notizia difficile da commentare: identificato uno o più fattori scatenanti cerco di immaginare qualcosa ad hoc per ciascuno di essi. Quindi decompongo il problema e sposto un mattoncino dopo l’altro.
Qui abbiamo: un probabile errore commesso dalla signora che si sarebbe inventata una recensione falsa sfruttando temi delicati per farsi un po’ di pubblicità; un’operazione di debunking che smaschera il presunto imbroglio; l’aggressività polarizzata dei social che mette sugli altari e seppellisce nella polvere con la stessa velocità di un clic.

Il primo mattoncino è facile da spostare: sarebbe bastato non commettere l’errore all’origine di tutta la drammatica vicenda. Capisco che è una frase scontata, però la scrivo per una questione di metodo: prima spunta.

Il secondo è già più dirimente: dobbiamo rinunciare a interrogarci su ciò che accade intorno a noi, ad analizzare i fatti, a inseguire verità solo per paura delle conseguenze che il risultato della nostra osservazione possa far male a qualcuno? Tutto il giornalismo di inchiesta – e parlo in generale – porta in sé i semi di effetti indesiderati: leggetemi dimenticando per un attimo il caso della signora Giovanna Pedretti. Nel momento in cui indagando ognuno col suo mestiere (magistrato, giornalista, poliziotto, ma anche insegnante, psicologo, medico, eccetera), si apre una via nuova per una lettura diversa dei fatti, il percorso delle vite coinvolte cambia. Delle vite di tutti, da un lato e dall’altro rispetto all’evento chiave. La sola idea di rinunciare a interrogarsi e a interrogare per timore di non poter esercitare un controllo sugli effetti di quei punti interrogativi rimanda a censure e verità di Stato di cui la nostra storia è piena.

Tornando alla tragedia della ristoratrice di Sant’Angelo Lodigiano siamo al terzo mattoncino. I social. Stiamo discutendo su un supporto basculante in cui il reale flusso di una notizia è sconvolto pericolosamente. Nel mondo dell’informazione, quindi non sui social, una notizia si forma secondo uno schema abbastanza stabile. C’è un professionista, cioè uno che di mestiere trova e analizza le notizie. C’è un mezzo blindato su cui quella notizia viene inserita, è uno strumento o se volete un prodotto che offre l’unica garanzia possibile, quella della responsabilità: cioè c’è qualcuno che è sempre identificabile per rispondere dinanzi alla legge di quel che è stato diffuso. C’è un pubblico che fa il suo mestiere di pubblico: legge, assorbe, ci ragiona su e si fa una sua idea. Non si trasforma nel professionista che ha studiato per porgere e scovare le notizie. Non le arricchisce. Non ha modo di andare a molestare facilmente le persone coinvolte.
Nel mondo dei social invece la notizia rotola e si infanga, assorbe la melma di cui non è fatta e se ne sostanzia sino a diventare un’altra cosa.
Merda.

Questa è la realtà.

Due cuori e una caviglia

Anni ‘80. Giovane aspirante giornalista. Giovane aspirante maestro di sci. Giovane aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno). Il giovane si sbatte da una parte all’altra del mondo da avvitare e svitare: collabora con la radio di Stato, scrive su qualunque supporto cartaceo immaginabile, suona e canta, s’inventa una rock-opera, affila lamine di sci e scalda sciolina, cavalca sogni e moto. E proprio con una moto imbocca la curva determinante della sua vita. Ma non schiantandosi o schivando in accelerata un ostacolo. No. Restando fermo e cercando di accenderla, quella Yahaha XT 550.
In quel tempo non c’è ancora il congegno elettronico per avviare il motore: c’è una leva, piccola e scomoda. E soprattutto c’è la compressione di un monocilindro ribelle.

In un pomeriggio di inverno quel giovane che ha appena addentato i vent’anni ha un lavoro che insegue, una passione che lo sorregge e una ragazza che aspetta solo che lui le chieda di stare con lei a tempo indeterminato: la gioventù ha questo di bello, che il tempo e i tempi sono ingannevoli e che si può dire serenamente “per sempre” senza immaginare che “per sempre” non esiste.
Ma lui è a Palermo in via Lincoln, a pochi passi dal mare, e lei è a 1.800 chilometri di distanza, con lo sguardo su una vetta di 3.800 metri. Lui tiene a bada l’eccitazione per il privilegio che gli è toccato: può scegliere tra una vita e un’altra, tra un mondo e un altro, tra una passione e un’altra. In cuor suo lui ha già scelto e sta parcheggiando il suo cavallo a cinque marce tra un’auto e un’altra. Tra un’ora, consegnati i fogli scritti a macchina dell’articolo che ha nello zaino, andrà all’agenzia di viaggi per prenotare la nave sulla quale tra qualche giorno imbarcherà l’auto e un abbondante bagaglio di vita: vuole esplorare il mondo verticale della montagna, lui che viene da quello orizzontale del mare, esporsi al sentire selvatico di un amore che è nella sua fase migliore, quella del germoglio annunciato e manco visibile.
In via Lincoln l’auto a destra si muove per abbandonare il parcheggio, lui sceglie di spostare la moto in una posizione più comoda. E anziché spingere fa la scelta cruciale. Accendere il motore.
Gira la testa della leva di avviamento verso l’esterno, risale sulla moto e carica il peso sul piede destro. Ma il monocilindro si oppone.  
Il rimbalzo della leva è crudele e spacca la caviglia dell’aspirante giornalista, aspirante maestro di sci, aspirante compagno di ragazza francese della Savoia, intelligente bella e selvatica (quando ancora si poteva dire di una donna che è intelligente bella e selvatica senza incorrere nei distinguo dello scassacazzi di turno) e via discorrendo.
Tutto cambia. Quasi 15 anni prima di Sliding Doors e del destino incellofanato di una pigrizia intellettuale molto (troppo) attuale.

Con una caviglia distrutta il giovane non può partire, non può affrontare gli esami da maestro di sci. Resta a Palermo. Continua a scrivere. Scrive anche alla presunta amata che lo aspetta 1.800 chilometri più a nord, fin quando le parole non si diluiscono nella distanza che è impassibile, incorruttibile, inaggirabile. Le parole si perdono prima degli esseri umani, solo che ce ne accorgiamo sempre troppo tardi.
Lui non diventerà mai maestro di sci. Farà il giornalista dopo aver preso a calci e sputi la sua moto.
Lei non diventerà mai la sua compagna. Farà altro, chissà cos’altro.
Lui non ha mai indagato sul destino di lei.
Lei non ha mai indagato sul destino di lui.
I due non si sono mai più incrociati, fedeli a una regola non scritta: fatalità è il nome che diamo alle decisioni che non abbiamo saputo (o voluto) prendere.  

Questo accadeva una quarantina di anni fa. Era un 14 gennaio, questo lui lo ricorda bene.    

Armando, a che numero siamo?

Molti anni fa quando lavoravo al Giornale di Sicilia capitava spesso che il condirettore Giovanni Pepi usasse l’interfono in modo abbastanza invasivo. Dal nulla quell’infernale apparecchio (che, lo confesso, sfasciai il giorno dopo che lo avevano installato) faceva “Diiin!” e trasmetteva la voce imperiosa del de cuius che a tradimento dava un ordine o, peggio ancora, chiedeva qualcosa a saltare. La cosa davvero fastidiosa era l’invasività del mezzo, per non dire della persona che lo usava a sproposito: quella voce irrompeva spesso quando nelle nostre stanze c’erano ospiti e la figuraccia era purtroppo assicurata.

Una sera, come ogni sera, io e Francesco Foresta eravamo riuniti (quasi accampati data la mole di lavoro) nella stanza dell’allora caporedattore Armando Vaccarella. Era il periodo in cui il giornale si batteva per la riapertura del Teatro Massimo e pubblicava periodicamente editoriali sul tema, preceduti da un numero che scandiva i giorni dall’inizio della campagna. Quella sera dal nulla scattò il tremendo “Diiin!” seguito dalla voce tuonante di Pepi.
“Armandooo! A che numero siamo col Teatro Massimo?”.
Armando non ci penso due volte e sparò: “Duecentotrentasei!”
“Bene, pubblichiamo un editoriale su domani!”.
Chiusa la comunicazione ci guardammo smarriti e io non chiesi ad Armando cosa avrebbe scritto in un fondo commissionato a tradimento, così come se fosse un coppo di calia e simenza, ma: “Ma come facevi a sapere a memoria a che numero eravamo arrivati”.
E lui: “Che minchia ne so? Ho sparato a muzzo (a casaccio, ndr)”.
Quindi tutti di corsa, con un sottofondo di risata isterica tipo quella che ti scappava in classe quando la maestra ti guardava e tu non potevi dire nulla, nella stanza del caporedattore centrale Giovanni Rizzuto.
“Giovà, fai quello che vuoi ma domani in prima pagina ci deve essere questo numero: duecentotrentasei”. Altre risate, nella cui eco – essendo l’unico sopravvissuto di quel dream team – mi cullo ancora oggi con serena nostalgia.
Armando non aveva sbagliato di poco: solo di un centinaio di giorni (in più o in meno, non ricordo e non importa). Nessuno se ne accorse mai.

Questa storia mi è venuta in mente stamattina mentre, durante il solito dispendio di calorie quotidiano che alcuni chiamano supplizio e altri chiamano sport, pensavo al mio futuro lavorativo: è un rituale che mi concedo ogni fine anno, un po’ scaramantico e un po’ candidamente razionale.
Il lavoro di tutti noi, ma proprio tutti, è fatto prevalentemente di cose che conosciamo solo noi ed è quasi sconosciuto a chi ci sta sopra. È una questione ontologica, i livelli di comando sono compartimenti stagni in cui le interferenze che vengono dal basso vanno disinnescate e in cui ciò che è davvero importante sono i feedback che vengono dall’alto.
C’è un però gigantesco.
La competenza.
Credo che un buon manager debba conoscere la materia prima dei suoi prodotti e non solo i numeri che scaturiscono dalle vendite. La nostra politica si è sostanziata sempre più di dilettanti orgogliosi di esserlo, di inutili cittadini di potere, di gente qualunque investita inopinatamente di poteri straordinari. Il risultato è stato – è sotto gli occhi di tutti – disastroso.
Il direttore che sbraita nell’interfono per chiedere qualcosa di cui non ha idea, che non controlla, è la fotografia di un sistema produttivo che punta all’abisso: e i risultati della cronaca lo confermano.
Serve competenza condivisa. Servono capi che cazziano con cognizione di causa i dipendenti ignoranti. Serve chi sa, chi conosce, chi può insegnare. Serve un’idea di valorizzazione che sia complementare a un sistema di esclusione: ciò che funziona deve stare dentro, costi quel che costi, ciò che non vale un cazzo si butta, pazienza.
Serve il coraggio di ribellarsi, di mollare tutto se necessario, di inventare.

“Armandooo! A che numero siamo?”
“Duecentotrentasei” (e non rompere il cazzo, è il sottotesto).

Che il 2024 sia un anno di trionfo oltraggioso della competenza. Auguri.

Piano B

Quanti di voi si preoccupano di avere sempre un piano B? Io raramente. E questa risposta potrebbe cozzare con un’idea di cui abbiamo già discusso, quella dell’uscita di sicurezza.  Ma diciamolo subito, c’è una differenza abissale: mentre la sola vista dell’uscita di sicurezza è consolatoria quando meno ce n’è bisogno, il piano B serve ad affrontare un’emergenza quando si ventila che essa si possa manifestare. Insomma la prima ci rassicura che tutto è possibile anche quando non ci serve altro di possibile, il secondo serve ad arginare l’impossibile.

Difficilmente ho avuto piani B, in vita mia.

Mi sono schiantato una mezza dozzina di volte in curve strette e senza guardrail e non so ancora se mi sono salvato per fortuna, per miracolo o per merito. Di certo stilare piani B mi annoia a morte. Ipotizzare scialuppe di salvataggio col mare ancora forza 4, mettere i sacchetti di sabbia alle finestre alla prima pioggia, muoversi per colloqui di lavoro quando ancora manco ti hanno licenziato, cercare fidanzata quando la moglie sta solo pensando di mollarti per il primo che passa, sono tutte attività poco eccitanti. Perché non c’è gusto a mettersi il vestito buono preparandosi allo schianto fatale: il piano B non è il casco prima dell’incidente, quella è prudenza; è piuttosto prevedere la strada che farà l’ambulanza per raggiungerti il prima possibile.

Il piano B, anzi la sua inutilità, mi ricorda un mio indimenticabile maestro, Salvo Licata, che a noi giovani aspiranti giornalisti (in gergo “biondini”) dei primi anni Ottanta spiegava perché non prendeva mai appunti su cosa dire a una conferenza: “Perché ogni volta finisco per ignorare il foglio o per perderlo e mi ritrovo a raccontare l’esatto opposto di quello che avevo segnato”.
Per molti di noi, il piano B è solo un alibi per mettersi a posto con la coscienza facendo finta di ignorare il gran vantaggio di usare l’incoscienza.
Ecco, non è lo “stay foolish” di Steve Jobs, ma qualcosa di simile. Aspettando il piano B sottovalutiamo il piano A, oppure ci impigriamo in scelte di comodo (un piano B che si rispetti non è mai comodo), oppure ci perdiamo la fondamentale paura di perderci per ritrovarci più a valle, sudati, sporchi, affaticati ma ricchi di un’esperienza in più.
Ci piace stare comodi, ma è con la scomodità che ci alleniamo. Ci piace intorpidirci, ma è con l’adrenalina che ci eccitiamo. Ci piace il minimo garantito, ma è col massimo dell’incognito che davvero possiamo sentirci vivi. Non è per tutti e da tutti vivere senza piano B, lo capisco. Gran parte di chi riesce a rinunciarci è gente che conosco bene, senza famiglia, senza padrone, senza timori.
Una volta, in uno dei miei cammini, mi persi in un bosco in mezzo a un temporale. Stavo in un terreno scosceso senza sentiero e con un fango che cominciava a diventare torrente. In quell’atmosfera quasi da disastrer (B) movie il cellulare (ovviamente) non aveva campo e la mappa su carta rischiava di diventare una poltiglia. Dal nulla, dopo un’ora di scivoloni e bestemmie, mi apparve un cartello sbiadito appeso a un albero.
C’era scritto: “Di qua”. Senza una freccia, senza un “qua” plausibile.
Non so perché ma lo ritenni il canto del cigno di un qualsiasi piano B.

Buon Natale a tutti.

In difesa di Chiara Ferragni (una volta tanto)

Questa storia può essere affrontata da due punti di partenza opposti.
Il primo è quello che tende a semplificare le cose. Chiara Ferragni ha fatto una serie di errori nella sua partnership con la Balocco. Sorpresa con le mani nella marmellata dall’Antitrust, ha scelto la via più diretta (e a lei consona) per cercare di mettere una pezza: parlare direttamente alle folle oceaniche che la seguono. Lo ha fatto con toni dimessi, senza spocchia, da brava comunicatrice. Ha ammesso di aver sbagliato e ha promesso di donare un milione di euro (mica bruscolini) all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino. Insomma ha fatto quello che pochissimi fanno in questo paese a responsabilità limitata: chiedere scusa e rifondere di tasca propria.
Attenzione, Chiara Ferragni è un’imprenditrice, un soggetto privato che coi suoi soldi fa quello che vuole e che, soprattutto, insieme con suo marito Fedez è abituata a fare beneficenza.

Il secondo punto è invece più complesso. E riguarda il contesto. Chiara Ferragni è tanto amata quanto odiata e su questa condizione ha fondato le sue fortune. Nessun influencer può fare a meno dei suoi detrattori perché proprio grazie a essi riesce a costruire il suo personaggio polarizzante. Senza polarizzazione infatti non può esistere successo nel mainstream: i santi e i demoni trionfano in chiesa o in carcere, nel mondo dell’anno 2023 se non sei divisivo non emergi dalle sabbie della coscienza limacciosa dei social.
Anche quando è stata colta in fallo, Chiara Ferragni ha usato codici precisi, in modo da alimentare il lievito madre del suo successo: i suoi odiatori. Sotto tono, commossa (magari lo era sul serio, ma qui non importa), semplice, ma pronta al colpo a effetto: un milione di euro in beneficenza. Cazzo, un milione di euro.
(Poi è ovvio che le regole vadano rispettate, che si debba vigilare su ogni forma oscura di beneficienza: ma per quello c’è la legge).
L’obiezione più scontata, che mi è stata mossa a più riprese, è una. Anzi sono due, ma collegate.
La prima: lo ha fatto per incrementare la sua audience. Dico: e se non lo avesse fatto? Sarebbe stata coerente? Insomma qualunque mossa avesse deciso di intraprendere, comunque ci sarebbe stato sempre il furbo di turno a svergognarla. Nulla è più patetico dell’anonimo vendicatore con una mano sullo smartphone e l’altra nella patta.
La seconda: eh, ma la beneficenza si fa di nascosto… In questo caso il ditino alzato cozza con il risultato. Mi è capitato di discuterne in occasione delle mie donazioni di sangue che tendo spesso a pubblicizzare proprio per sensibilizzare chi mi segue. La beneficenza, come le donazioni di sangue (che sono una forma di beneficenza), è importante farla: poi se uno sceglie di dirlo o non dirlo sono cazzi suoi. Chi critica, usualmente (non sempre, è ovvio), non ha mai alzato il culo dalla sedia e al massimo ha elargito un euro al posteggiatore abusivo per non farsi rigare la macchina. Insomma, dalle mie parti, si guarda al risultato. Farne un trofeo o meno non toglie nulla alla bellezza del verso. L’importante è farsi avanti e fare qualcosa per gli altri: del resto mi va benissimo un mondo in cui dare gioia al prossimo è una forma di egoismo, di egocentrismo, di esibizionismo. Dieci, cento, mille selfie per raccogliere fondi e sacche di sangue. Ogni volta che vedo uno che si mobilita in prima persona per regalare quel che può regalare, sto automaticamente dalla sua parte. Che sia Ferragni o Donnunzio è un dettaglio che interessa prevalentemente solo chi dona ciò che nessuno vuole: odio, invidia, ignoranza.

Chiacchiere e croficisso

Nelle critiche di blasfemia al film di Ficarra e Picone “Santocielo” c’è tutta la ruggine degli ingranaggi che regolano il rapporto della religione, la nostra religione, con la vita sociale, la nostra vita sociale. L’uscita di don Mario Sorce, parroco della chiesa del Sacro Cuore di Gesù di Agrigento che è anche direttore del Servizio di pastorale sociale dell’arcidiocesi di Agrigento, ha più a che fare con un’azione di polizia morale che con il diritto di critica. Perché la critica si basa sul metro artistico, sulla tecnica e l’effetto, persino sul gusto, ma non grida allo scandalo, non induce al boicottaggio in nome di Dio: soprattutto non traccia la storia come ci piacerebbe leggerla. È questo il bullone arrugginito che blocca lo scorrere degli ingranaggi tra noi, molti di noi, e la religione, per chi crede.
L’arte – che è quella di Ficarra e Picone, come è quella di chiunque usi la fantasia per creare occasioni di racconto – non prevede suggeritori esterni che raddrizzino i muri, correggano la rotta. L’arte è appunto (anche) muri stori e rotte perigliose.
Non capirlo, o far finta di non capirlo, è un gesto da polizia morale o comunque da ignoranti. Lo spettatore può dissentire quanto vuole, del resto gli autori hanno come primo obiettivo quello di mirare ai sentimenti, di scuoterli, di far cadere le foglie secche. Ma l’uomo di chiesa, che parla per il gregge (perché lui ancora considera pecore i suoi “seguaci”) avrà sempre l’idea di un auditorium muto, al limite belante, al quale indicare la retta via: immaginando un mondo di rette vie che paiono correre all’infinito e invece si perdono sino a dissolversi nel buio della grettezza.

P.S.
Il prete di cui sopra ha bocciato il film senza nemmeno averlo visto. Quindi ha espresso un giudizio alla cieca: chi non sa, non può parlare di ciò che non sa.
Insomma tutta la polemica nasce dalla presunzione di chi giudica senza conoscere e andrebbe liquidata con un’alzata di spalle. Ma, essendoci di mezzo la religione, è bene impegnarsi a distinguere le chiacchiere dai crocifissi.

Grazie di cuore (bonsai)

Quando nacque questo blog, esattamente diciassette anni fa, era buio e non solo per l’orario. Vivevo in una casa non mia una vita non troppo mia, lavoravo in un’azienda editoriale nella quale non mi sentivo più gratificato (che avrei abbandonato di lì a poco) e avevo appena realizzato che il rischio da evitare negli anni a seguire non era la disoccupazione o la solitudine, bensì la noia.
Insomma cominciai a riempire queste pagine web per dare alla colonna sonora della mia esistenza un nuovo spartito. Solo dopo, molto dopo, mi resi conto che grazie a questo blog, oltre allo spartito, cambiavano anche i teatri e le orchestre (dapprima per metafora) che mi cercavano. Fu lì che iniziò la Somma Meraviglia: quella che mi spinse a non finire mai di ringraziare il Padreterno che mi aveva regalato la più grande soddisfazione per un professionista, e cioè fare un mestiere per il quale ti stupisci che ti paghino. L’ho raccontato più volte, grazie a questo blog ho cambiato mestiere almeno quattro volte in questi anni. E l’emozione più grande è stata quella di fare ciò che ho sempre sognato, e farlo perché non avrei potuto non farlo: come respirare, mangiare, bere, amare, correre, esplorare, inventarsi nuovi limiti da superare.
Quando cominciai qui, Facebook era appena uscito dall’alveo locale e debuttava sulla scena mondiale, Twitter era online da nove mesi, e per capire la caduta di Pinochet leggevo uno dei libri più indimenticabili della mia vita, “Ho paura torero” di Pedro Lemebel. Esistevano ancora i giornali, nonostante la bolla internettiana fosse già scoppiata. Palermo era la città più cool d’Italia.  

Oggi, diciassette anni dopo, mi rendo conto che in realtà poco è cambiato del mondo che mi circonda. Cioè sono cambiate le facce, le situazioni, gli incroci, ma gli ingranaggi sono sempre quelli. La staticità della politica e delle istituzioni (penso alla scuola, al mondo della cultura) è ancora un freno per il futuro. E invece nell’anno 2023 i problemi sono tutti legati al movimento, allo spostamento, ai flussi: dall’immigrazione ai testi universitari e scolastici, dalle stagioni teatrali alla comunicazione liquida, dai rapporti sociali alla scienza, dalle emergenze alle soluzioni ad esse.
Siamo rigidi, fermi. Di default.
E invece dovremmo essere mobili, flessibili, adattabili.
Cerchiamo la democrazia sul web quando non siamo in grado di rispettare il dissenso più semplice e nonviolento: un loggionista alla Scala che grida “Viva l’Italia antifascista”. Inseguiamo la verità anche laddove è chiara ed esplicita, perché una verità nascosta è spesso il Viagra del nostro ego moscio. Vogliamo essere moderni senza accettare la scomodità dell’innovazione, che è rivoluzione e trauma, e chiediamo al futuro di venir pure a farci visita, ma che non si vada oltre un tè e pasticcini nel salotto.
Eppure non è tutta ruggine e aria stantia.

Oggi sono andato a guardare quali sono stati i post più letti nel 2023 su questo blog. E non vi nascondo che la sorpresa c’è stata. A parte l’home page, cinque dei primi sei posti sono occupati da podcast, cioè da narrazioni pure: il podcast infatti richiede all’ascoltatore tempo e dedizione, non è roba che si consuma in un paio di minuti come questa sveltina di qualche riga. Ed è bello pensare che decine di migliaia di persone abbiano scelto di trascorrere ore con me, autore di un piccolo blog, artigiano della narrazione, senza avere la necessità di manifestarsi, prendendo quel che serve e lasciando il resto.
Chi scrive per mestiere e/o per passione non chiede altro che essere letto. Il resto non conta.
Per questo, anche per questo vi ringrazio con tutto il mio cuore bonsai.


Di seguito i link:

Il mago dei soldi
Porno mondo
Una favola storta
Invertiti, viaggio nelle differenze
Sedici
Il cammino, un pretesto di felicità
Il dio ateo del web
Fuochi e pistole
Non può succedere a me

P.S.
La foto alla quale affido questo momento di imperdonabile autocelebrazione è di Peppino Romano

L’onanismo dell’odio social

Mi sono più volte schierato per il diritto di non perdono, per quello di essere faziosi, contro ogni forma di buonismo d’acchito, persino per il diritto di odiare.
Ma quest’odio social, odio liquido quindi praticamente fine a se stesso (i sentimenti manifestati hanno una loro ragione di essere se avviluppati in un ragionamento, altrimenti sono peti dell’intestino psichico) è insopportabile. Perché si accanisce, nello specifico di Filippo Turetta, su un bersaglio immobile, che si è già arreso, sul quale non c’è possibilità di argomentazione oltre l’onanismo del “buttate la chiave” salviniano.
Non c’è bisogno di martoriare le carni di un morto vivente, per di più giovane. E non c’è vergogna a provare umana (e cristiana, per chi ci crede) pietà.
Siamo sempre pronti a mostrare i nostri opposti su queste timeline, felicità o dolore, odio o amore, fiducia o diffidenza. E ci dimentichiamo la più grande lezione della vita, per chi ne ha una fuori da qui: il contrario dell’amore non è l’odio, ma il dubbio (cit).

Chi fa cosa

Chi fa cosa. Tre parole per stabilire la differenza tra un progetto a cazzo e uno che ha qualche possibilità di riuscita. Siamo circondati prevalentemente da due categorie di persone: quelli che non vogliono fare nulla e quelli che vogliono fare tutto loro. In mezzo, componente minoritaria al limite della categoria protetta, quelli che fanno solo quello che sanno fare senza rubare il lavoro agli altri e senza risparmiarsi sul proprio.

Chi fa cosa è anche un buon esercizio di fiducia e di responsabilità.
C’è una regola che usiamo coi miei amici quando si cucina insieme: se uno mette una pietanza in forno è tenuto a controllarla lui, con assoluto divieto di demandare ad altri.
Chi fa cosa è anche un modo per premiare il merito. Mi è capitato spesso di trovarmi sottoposto a giudizi di ogni genere: personali, professionali, artistici, eccetera.
Li ho accettati tutti, e mentirei se dicessi che l’ho fatto sempre volentieri: nessuno gode nel sentirsi scansato, pestato, sminuito.
Il problema è il chi fa cosa, appunto. Che non va confuso col diritto di critica, che è garantito sin quando non si entra in competenze concorrenti, in precari ambiti gerarchici, in sistemi professionali blindati.

Insomma io posso dire a un light designer che il suo progetto non mi convince, ma non posso sostituirmi a lui e fare di testa mia: perché non ho la sua professionalità, la sua arte, non ho studiato quello che ha studiato lui, inoltre parlo solo per il mio gusto. E coi gusti, che spesso sono capricci, non si fa innovazione (ma di questo parleremo in modo approfondito un’altra volta).

Il chi fa cosa, osservato in modo rigoroso, serve a costruire il migliore dei progetti, quello che porge al mondo un cibo diverso che va sottoposto a giudizio: se è migliore degli altri è giusto che viva e proliferi, altrimenti non è uno scandalo se soccombe.