Le bestemmie di Caronte

Vilar de Mouros – Viladesuso

Stamattina quando dalla mia stanza d’albergo ho sbirciato la pioggia battente ho pensato, dati i 27 chilometri in programma, che la maggiore difficoltà sarebbe stata rappresentata dall’acqua che cadeva dal cielo. Neanche arrivato a Caminha un sospetto mi si è insinuato nella parte asciutta del cervello dinanzi al rio Minho che avrei dovuto attraversare per raggiungere la Galizia, quindi per entrare in Spagna. Bisognava traghettare e, percorrendo la bellissima ecovia che costeggia il rio, ho seguito le indicazioni per il ferry boat. A un certo punto però la segnaletica si è fatta più insistente, meno istituzionale (e mi sarei dovuto insospettire se solo la pioggia non mi avesse annacquato le idee di prima mattina). Frecce gialle, come quelle del Cammino, indicavano deviazioni per un accattivante “Taxi Mar” e portavano a un bar che aveva i suoi tavolini proprio su un molo con un traghetto ormeggiato. Fatto il biglietto, ho chiesto alla signora del bar delucidazioni sugli orari dato che non c’era nessuna tabella, cartello, monitor, pizzino: niente di niente. Intorno a me il gruppo dei potenziali traghettati si era accresciuto secondo una delle leggi dell’effetto pecora, per cui se uno si ferma senza motivo altri troveranno motivo per fermarsi senza motivo. La signora ha risposto in modo vago, “vabbè vi chiamo io”: e anche lì il mio cervello latitava nel prevalente umido. 

Giunto il momento, cioè quando la signora ha battuto le mani due volte tipo maestra con scolaretti svogliati, un contingente di noi si è accodato a un tale con giacca a vento e calzoncini corti dall’aria rincoglionita. Costui ci ha contati più di una volta probabilmente più per confermare a se stesso il suo stato vigile che per una qualche ragione organizzativa o strategica. Sei, dovevamo essere sei. Gli altri attendano.
Lo abbiamo seguito sotto la pioggia battente sino a superare la banchina del presunto traghetto che, visto da vicino, ora mostrava la sua sinistra essenza di vascello fantasma. Nessuno dentro, nessuno intorno (a parte noi sei fantasmi e l’uomo in calzoncini e giacca a vento). Più avanti ci siamo impantanati nella sabbia fradicia e i tizi che condividevano con me questo capovolgimento di emozioni (da molo a fango, da traghetto a…?) cominciavano a dare segni di nervosismo dato che avevano anche le biciclette da trascinare. 
Senza guardarci, coi pensieri multilingue stile esperanto, siamo stati investiti tutti dalla stessa domanda: perché cazzo sei e solo sei?
La risposta si è materializzata in una specie di barchino arenato, anzi incagliato, in una zona remota della spiaggia. Nella foto di questo post potete vedere il Caronte in giacca a vento e pantaloncini che cerca di smuoverlo con l’acqua alle ginocchia. Per fortuna non potete sentire le bestemmie in dolby surround con le quali ha accompagnato le sue manovre maldestre. 

Alla fine siamo riusciti a salire, proprio mentre il cielo ci mandava un sinistro avvertimento rinforzando la pioggia, grazie a una scaletta fatta con le casse dell’acqua minerale. Stringendoci tutti, uomini e biciclette, anime e zaini, siamo sopravvissuti a una corsa forsennata da una costa all’altra, da una nazione all’altra (qui un frammento video dove sembriamo solo turisti incoscienti). Poi, toccata terra spagnola, abbiamo maledetto il nostro scafista e ci siamo lasciati consolare da un tranquillo temporale sulla terraferma. 

20 – continua

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Viventi resistenti

Esposende – Viana do Castelo
Viana do Castelo – Vilar de Mouros

Siamo cresciuti col mito della dritta via smarrita, imbottiti di metafore da Dante a Vasco Rossi. In realtà, come tutti sappiamo e non tutti ammettiamo, smarrirsi (o perdersi) ogni tanto non è male. Anzi è consigliabile se non addirittura prescrivibile. Ma non è questo il caso.

La premessa è un appiglio al tema degli ultimi due giorni, “sbagliare strada, come e perché”. Il come è semplice: basta essere stanchi come uno che ha percorso oltre 500 chilometri a piedi e se lo nasconde perché ammettere una debolezza quando ci si crede forti è difficile come dire “la Meloni può fare anche cose buone”. Il perché è imbarazzante dato che in un caso, quello più complicato, ero distratto dal male assoluto, lo smartphone. La mia netiquette da camminatore è chiara in tal senso: nessun estremismo, ma un certo rigore. Mi muovo senza il telefono in mano, spesso lo spengo, spesso è fuori campo, in casi estremi è utile per la geolocalizzazione. Capita però che ci sia qualcosa di interessante da fotografare.
E questa va raccontata poiché è proprio da primo capitolo del manuale “come non si fa”. 
Ero in un posto molto bello con un ponticello di pietra sospeso sull’acqua (il video lo trovate nei miei account social e la foto è quella di questo post). Ho deciso di riprendere quel passaggio perché era davvero suggestivo. E nel farlo, alla fine del ponte, ho seguito proprio l’indicazione che la mia guida e le mie mappe mi avevano raccomandato di non seguire. Era una freccia gialla, come quelle che ci sono nel Cammino portoghese, ma indicava un percorso diverso, interno e soprattutto montuoso. Puntava a destra, invece dovevo andare a sinistra (e anche qui metafore…). Risultato: anziché godermi una passeggiata sulla sabbia, mi sono ritrovato a scalare montagne e a scarpinare su pietraie con pendenze da stambecco.
Non contento, anche oggi mi sono messo di impegno per sbagliare strada. A mia discolpa va detto che il tratto da Viana do Castelo a Vilar de Mouros, ultima tappa portoghese prima di entrare in Spagna, consente un’abbondante dose di improvvisazione quando, dopo i primi 10 chilometri, non ci sono più sentieri di riferimento e le frecce scompaiono. Insomma l’importante è tenere la direzione e la direzione è nord, fortissimamente nord. Indicazione molto relativa se pensate che il nord ti indica verso dove muovere i tuoi passi ma non su cosa mettere i piedi. Un concetto dirimente per i camminatori che macinano chilometri, per i quali oltre ad arrivare, l’importante come arrivarci. Ma su questo ci vorrebbe una assise mondiale, non ristretta ai camminatori, ma allargata ai viventi resistenti. Da secoli ci incartiamo sul fine che giustifica i mezzi, pure in totale assenza del primo e dei secondi. Forse è il caso di metterci qualcosa nel mezzo, tra fine e mezzi: impegno, predisposizione, formazione, resistenza, motivazione, cultura insomma.

19 – continua

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La prima volta

Pòvoa de VarzimEsposende

Vi ho già parlato del cronocentrismo, cioè di quella sensazione di vivere sempre in tempi eccezionali in barba al passato soprattutto quando il passato ci sbugiarda. Tipo non ci sono più le canzoni di una volta oppure ai miei tempi la morale sì che contava. Ho fatto due esempi banali e pertanto parecchio attaccabili per evidenziare l’aspetto più evidente del cronocentrismo. Cioè il vedere le cose solo in valore della nostra età: tutto era migliore, tutto era profondo, tutto era vero. Ieri o l’altroieri.
Si tratta ovviamente di una visione miope come abbiamo imparato solo qualche anno fa col Coronavirus: credevamo di avere a che fare con la peggiore epidemia della storia solo perché non l’avevamo studiata, la storia.
Questo modo parziale di raccontarci le cose, sottolineo raccontarci, può essere aggirato facendo realmente esperienze diverse che quindi sfuggono alla smania del confronto coi “nostri tempi”. Io sui Cammini mi sono cimentato in tarda età dopo aver fatto tante altre cose tipo le maratone, ma mi guardo bene dal dire e dirmi: “Certo prima cinque chilometri li facevo in meno di 25 minuti, oggi li faccio in un’ora. Uè, non esistono più le gambe di una volta!”. Non vi sfugge l’anacronismo logico di una tale affermazione giacché il passato non lo si prende per il collo per buttarlo in campo, ma lo si invita garbatamente nel teatro della storia.

Ci pensavo oggi mentre attraversavo spiagge nebbiose (l’oceano ha dato spettacolo in tal senso) per la prima volta e mi veniva in mente un gioco che avrei proposto ai miei amici il prossimo inverno (poveri loro): progettare prime volte. Ovviamente cercando di elevare il livello della discussione al sopra della cintola con la contestuale eccezione delle gambe, dei piedi e di altre appendici non sospettabili.
La prima volta fa cadere gli alibi su cui il cronocentrismo poggia. E vi svelo un segreto: la migliore prima volta è quella di cui non avete contezza sin quando non si è dipanata interamente. Non si progetta, altrimenti è appunto un progetto e ha requisiti che possono fondarsi sul paragone col passato (e non va bene): è una prima mela offerta o trovata o conquistata all’improvviso, mai coltivata.
Quindi partire, provare, scovare, liberarsi.
Dffidate delle persone che pur potendolo fare non viaggiano mai, che parlano solo del loro lavoro , che non sognano mondi in cui finalmente sono quello che non sono.

P.S.
Saldo brevemente il debito col post di ieri (ma ci torneremo a bocce anzi a gambe  ferme). In questo Cammino i portoghesi mettono garbatamente in mostra la loro raffinata civiltà. Ogni lido, ogni spiaggia vicina a un centro abitato (quindi la maggior parte di quelle lungo la Senda Litoral), ha i suoi wc, le sue docce, le sue fontanelle pubbliche. E soprattutto ha le sue “biblioteche da spiaggia” (nella foto sopra) dove chi vuole entra, sceglie un libro e si accomoda nei tavolini sistemati all’ombra: è un’iniziativa aperta a tutti dai primi di luglio a metà settembre. Di certo è qualcosa per me perfettamente al riparo da qualsiasi tentazione di  cronocentrismo: mai ai miei tempi e nelle mie lande si sognò tanta polluzione di saggezza.

18 – continua

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Sabbia

 Vila Chā – Pòvoa de Varzim

“Vai a nuoto?”. L’anziano ciclista mi guarda e ride. Capisco il senso di quella domanda con qualche secondo di ritardo e scoppio a ridere pure io.
Avevo sbagliato strada e mancato in pieno un ponte: la strada davanti a me si chiudeva inesorabilmente nel fiume (questa zona è piena di fiumi e canali che finiscono nell’oceano). Grazie alle indicazioni del simpatico cristiano sono tornato indietro e ho recuperato il bivio perso. 
Effetti collaterali della distrazione. E io in quel frangente ero distratto perché venivo da un’esperienza intensa e non mi ero ancora ripreso: la camminata a piedi nudi sulla battigia, con l’acqua fredda dell’oceano quasi alle caviglie.
L’avevo preparata bene, va detto.
Siccome camminare sulla sabbia è faticoso, e con uno zaino sulle spalle lo è ancora di più, ho fatto in modo da far coincidere questa tappa, in cui c’era un tratto di spiaggia che mi piaceva particolarmente, con le esigenze di praticità. Ergo l’ho accorciata, spostando in avanti (e conseguentemente forzando) la tappa di ieri. In pratica ieri mi sono caricato di qualche chilometro in più per avere mano, anzi piede libero oggi.
Nulla è per caso quando hai settecento chilometri da portare a casa (e per di più a una certa età). 

Camminare sulla battigia è divertente, o romantico a seconda delle propensioni e degli annessi, o very cool se lo fai per una decina di metri e in costume (magari vista Twiga). Ma se quei metri diventano chilometri, se sulle spalle hai almeno undici chili e gli spallacci dello zaino hanno già scavato la loro tana nelle clavicole le cose cambiano.
Senza tenere conto – lasciatemi aprire una breve parentesi di Superquark del Cammino – che spesso la sabbia non è proprio fina, che ci sono pittoresche conchiglie che aspettano i tuoi alluci al varco, e che la tua casa sul groppone rispetto alle tue caviglie è come lo Stato per Matteo Messina Denaro, il nemico giurato. Senza tener conto che questa sabbia sta a metà, per teoria, tra quella del deserto che adora il nulla e quella della spiaggia che accarezza i corpi.
Anche abbandonata la battigia – perché la passione per la natura e la full immersion in essa talvolta sconfinano nell’autoerotismo e un punto va messo – le passerelle in legno non è che concedano massima tranquillità. In questa zona infatti si snodano tra le dune (che mia amica Tiziana, biologa, definisce “un habitat meraviglioso e ormai residuale”… a me sembrano collinette e basta) e spesso finiscono per essere sommerse dalla sabbia. Insomma si cammina sulla sabbia smossa, non compatta, la più complicata e snervante.
Alla fine i quindici chilometri di oggi, della tappa che doveva essere la più breve dell’intero Cammino portoghese, valgono in termini di fatica almeno il doppio secondo il famoso teorema.

Ora mi godo la cena in ristorante a Pòvoa de Varzim dove tra i tavoli lavorano i figli del titolare e con fidanzati/e annesse (che ovviamente parlano tutti l’inglese). Una gioia di gioventù, entusiasmo, good vibrations che già da sola vale almeno metà del conto.

P.S.
Domani vi racconto di wc, docce e biblioteche. Incredibili le biblioteche.

17 – continua 

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Il vento dell’infinito

Porto – Vila Chā

Non saprei come definirlo diversamente. Io lo chiamo “il vento dell’infinito” e lo riconosco al primo alito non appena mi affaccio sull’oceano Atlantico. Non ha una direzione, mi avvolge e basta. Basta si fa per dire, nel senso che dal momento in cui mi prende è invece l’inizio di un sentimento che conosco bene e che non finisce mai di impressionarmi. Non ha temperatura, non scompiglia i capelli, non gonfia vele e non agita alberi. Accoglie solo me tra le sue braccia e mi culla in pensieri non recensibili. Se ho caldo mi rinfresca, se ho freddo mi scalda, se mi sento oberato mi alleggerisce, se mi sento vuoto mi riempie. So per certo che molti di voi sanno di cosa parlo: ognuno di noi ha sistemi di riferimento o, in modo più romantico, magiche convergenze che risolvono, fluidificano, benedicono, purgano, rivelano, accarezzano, trascinano, sanano. Che sia geografia, arte, storia, astronomia, fondi di caffè o altro è un dettaglio ininfluente.

Il mio “vento dell’infinito” probabilmente è la somma di passioni e aspettative, è il placebo di tutte le sindromi che mi invento quando non so dare un nome alle mie colpevoli debolezze. Ci penso sempre quando sono lontano, un po’ come accade con la montagna e con la neve. Solo che qui, sulla Senda Litoral, è una cosa più complessa, più intima. Vento è, e il vento indossa i vestiti di tutte le anime che incontra non per mimetizzarsi, ma per spogliarle.
Per questo probabilmente non riesco a spiegarmi come vorrei. Anche perché mentre scrivo, in un bistrot orgogliosamente di quart’ordine, un tale abbastanza strafatto si è seduto accanto a me e vuole fare conversazione nel suo portoghese alcolico: ci siamo messi d’accordo, con la complicità della proprietaria del locale, tu non mi rompi troppo i coglioni e io ti offro la birra. Ha capito subito e si è chiuso in un mutismo soddisfatto.

Per dare un senso definitivo al pippone sul “vento dell’infinito” potrei dirvi, banalizzando, che è una specie di doping dei pensieri. Li catalizza e li guida, indubbiamente li influenza e forse se ne porta qualcuno appresso come topini dietro al pifferaio. Io me lo chiedo: dove vanno a finire tutti quei pensieri?

16 – continua

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Porto bella

Porto

Ero tentato di ammorbarvi di foto per raccontare la bellezza dirompente e graffiante di una città come Porto. Poi ho fatto il ragionamento più scontato: chi minchia sono io per recensire storia, tradizioni, cultura di un posto così unico nel mondo? E chiedendomelo ho trovato la risposta. L’unicità di un racconto è l’insieme di sensazioni di chi ci è dentro: quindi di quelle vi dico.
Nessuna presunzione di essere guida, del resto neanche io in generale so bene dove vado (forse manco mi interessa troppo), e anzi qui il Cammino è un raro momento di coscienza in tema di direzione, volontà, impegno a lungo termine. 

Porto è l’unica sosta programmata in questi 28 giorni di scarpinata ininterrotta. Una sosta non proprio comoda dal momento che dalle ultime rive del Douro, sul quale la città è adagiata, al centro c’è un dislivello che gli ottimisti chiamano scarpinata e la restante parte del mondo chiama scalata. Nulla ha comunque inficiato l’unico momento in cui una mattina mi sono svegliato (pur non avendo cantato “Bella ciao”), non ho consultato mappe, non ho ricomposto a bestemmie lo zaino, non mi sono strafatto di Vaselina: mi sono alzato, ho fatto colazione come una persona normale e mi sono concesso l’ebrezza di fare il turista. Mi sono detto: oggi riposo. Eppure dopo tre ore di giri ininterrotti mi sono reso conto di aver guardato l’orologio con l’ansia improvvisa di sapere quanto mancava alla destinazione. Ma è stato un attimo. Poi mi sono immerso nuovamente nei miei pensieri e nelle considerazioni di cui vi sto dicendo.

Vista da siciliano, Porto è più affascinante di Parigi, più graffiante di San Francisco, più ammaliante di Londra, più efficiente di Oslo. Perché gli occhi di un palermitano vedono in questa città il riflesso di mille occasioni mancate. In fondo noi meridionali di tutto il mondo siamo anche quel che ci è stato tolto. Siamo orfani di città imperfette che affascinano gli imperfetti: e gli imperfetti, che piaccia o no, sono la maggioranza della popolazione dello zoo umano.
Porto ostenta l’abbandono e la criminalità che non mi sono estranee, ma ha soprattutto un’altra faccia orgogliosamente diversa. Il tema dell’orgoglio è fondamentale per capire questo popolo. L’orgoglio portoghese non è l’orgoglio francese o quello italiano. Loro, i portoghesi, sono pacificati col passato: dopo aver esplorato (e conquistato) il mondo si sono ritirati su una striscia di terra nella quale vivono senza rompere i coglioni a nessuno. Accolgono ma non hanno la pretesa di darti lezioni (come invece facciamo noi, i francesi, i tedeschi, eccetera). Hanno un’attenzione per la qualità che noi ci sogniamo.
Stasera ceno in uno dei posti più incredibili in cui sia stato. Ho comunicato di essere vegetariano e mi hanno mandato un tale che è esperto di cucina vegetariana e che ovviamente ha saputo accoppiare il vino giusto ai miei piatti. Ho pagato poco più di che in un medio ristorante di Palermo dove avrei potuto trovare un cameriere svogliato e una cassiera che con una mano ti scodella il conto e con l’altra si masturba di social network sotto il bancone. Insomma ho pagato un conto a gente perfettamente consapevole di quel che ti sta chiedendo: che è un tema, dal momento che la consapevolezza è il buco nero di una parte (la più scarsa e diffusa) dell’offerta commerciale delle nostre lande.

In generale, come ho spiegato, qui non hanno il feticismo della pulizia. Una cartaccia in un vicolo può scappare, ma una piazza la mattina deve essere linda senza eccezioni. 
Qui si capisce che c’è un’idea di amministrazione pubblica (non so manco di che ispirazione politica sia e il fatto che non me lo chieda vuole dire che non è importante saperlo) che non cerca i giochi di prestigio ma solo un minimo di risultato. Di domenica tutto aperto, tutto sorvegliato, tutto spiegato in almeno due lingue (anche il più raccomandato dei bigliettai di bus, metro, musei parla l’inglese, sorride per contratto e sta al suo posto senza eccezioni).
Ecco perché, in soldoni, per un siciliano Porto non è solo bella. Ma è drammaticamente bella.

P.S.
Da domani oceano e pensieri conseguenti. Ameno spero.

15 – continua

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Il mattino può attendere

Espinho – Porto

C’è questo detto, contro il quale combatto da decenni, secondo il quale il mattino ha l’oro in bocca. Ora, a parte la citazione obbligata per quel capolavoro che è Shining, c’è un dato incontrovertibile che vi prego di prendere per buono (perché altrimenti il settore cazzi miei diventerebbe difficile da gestire pubblicamente): tutti i peggiori casini della mia esistenza sono avvenuti in un orario che ha tolto il prezioso cibo dalla boccuccia dell’incolpevole mattino.
Col sole ancora basso ho affrontato disastri professionali, sentimentali e familiari, ho dovuto inventarmi anticorpi che non avevo, dato che il mio fisico era abituato a lavorare sino a notte ma non a essere reattivo prima di una certa ora (che ci crediate o no i giornali, quando esistevano, si facevano di sera). 
Insomma per me il mattino al massimo può avere in bocca un espresso doppio e amaro, dopodiché può farsi una bella ripassata di letto. 
Tutto questo per dirvi che, come accennavo qualche giorno fa, i miei orari di partenza sono comodi, anzi “comodi” così nessuno può ironizzare: le virgolette, che personalmente detesto, sono il migliore modo per invocare il fraintendimento. 

Non frequento gli albergue, né i centri di accumulo di pellegrini esausti quindi sto molto ritirato rispetto agli altri camminanti. Ciò significa che non ho termini di paragone con le tabelle di marcia altrui. Però so per certo che la mattina parto per ultimo: mai prima delle 9. Dite: così ti becchi le ore più calde. Dico: ma se mi sono allenato per mesi e mesi a Palermo, in Sicilia, dove a maggio c’erano dieci gradi in più di stasera che bambolina devo vincere se mi butto dal letto due ore prima?
Cammino e basta. Usando le mie precauzioni (protezione solare totale), con scorte di acqua strategiche (perché l’acqua pesa), e inseguendo il miraggio del ghiacciolo perfetto nei bar che incontro lungo ogni tappa.
Quindi altro che oro in bocca – del resto vedete come finisce a Jack Torrance nel film di cui sopra ispirato dal genio di Stephen King – per quanto mi riguarda il mattino ha nella panza diversi caffè, un paio di cornetti, uno yogurt e un piatto di frutta. Poi se la sbriga lui. Io comunque mi metto in cammino. 

P.S.
Sono finalmente arrivato a Porto e domani è il primo giorno libero, anzi “libero” da turista. sono indeciso se farmi la città a piedi o per una volta cedere al lusso di bus, monopattini, metropolitana. Lusso o “lusso”?

14 – continua

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In passerella

São João da Madeira – Espinho

Ho già percorso oltre 360 chilometri, almeno questi sono quelli ufficiali poi ci sono quelli in più di cui vi ho detto varie volte: comunque sono oltre la metà del Cammino portoghese. Sono arrivato finalmente sull’oceano. Ci sono arrivato in anticipo rispetto all’itinerario ufficiale poiché ho cambiato una tappa: al posto di Grijò, un piccolo paese squallido dove non c’è quasi nulla a parte un bel convento che lascio in esclusiva ai pellegrini, ho deviato verso ovest e sono andato a Espinho, una divertente cittadina di surfisti e gaudenti attempati con una spiaggia di 17 chilometri dove è bello perdersi tra i bar e i ristoranti dell’infinito lungomare (ovviamente pulito e ben curato). Ci sono vari motivi di fascinazione per cui vale la pena di spendere qualche riga su questo posto. 

Primo, il mare: da qui inizia la parte più bella del Cammino portoghese, quella sulle passerelle di legno che per centinaia di chilometri mi porteranno in Spagna. Le passerelle offrono un vantaggio pratico, servono a non impelagarsi nella sabbia sebbene ci siano tratti che si possono percorrere a piedi nudi sulla battigia, e soprattutto uno ambientale perché sono una protezione delle dune, fondamentali per l’equilibrio ecologico di queste aree. 
Secondo: sto entrando nella Valle del fiume Douro, considerata la più importante zona vinicola del Portogallo, rinomata in tutto il mondo per i suoi vini forti e di gran carattere. E sapete che io sono abbastanza sensibile al fascino di una buona bottiglia (di rosso, of course). 

Come in ogni cammino mi sono dato, senza alcuna fatica, regole nette sulle comunicazioni. Che sono ridotte al minimo, tranne tipo la sera quando mi ricollego col mondo per scrivere questi diari, e che hanno come eccezioni mia madre e un gruppo ristretto di amici cari. Ciò serve fondamentalmente a proteggermi da un evento pernicioso per un giornalista, l’invadenza della cronaca. La mattina leggo i giornali dopodiché archivio ogni considerazione, anzi quasi la cestino, e mi dedico ad altri pensieri, indosso altre vesti, quelle del viaggiatore che annusa l’aria per conoscere ciò che altri sensi non consentono di esplorare, quelle dell’appassionato di musica che finalmente ha la colonna sonora per il film di quella fetta di mondo che sta attraversando lento pede. E’ per questo che stamattina ho salutato come un evento giubilare la telefonata – ne ho accettate sei o sette in tutto da quando sono in cammino – di un amico e giornalista che cazzeggiando mi ha chiesto cosa ne pensassi di alcune vicende dominanti in questo momento in Italia. La piacevole conversazione, possibile solo perché ero in pianura e a soli cinque chilometri dall’arrivo, mi ha dato la misura di quanto, per contrasto, sia fondamentale perdersi una volta tanto nella cronaca di se stessi. E ciò vale ovviamente non solo per i giornalisti, che pure sono tra quelli più a rischio alienazione. 
Imparare a dedicarsi a qualcosa di vicino allunga la vita delle cellule della soddisfazione. Non è facile, lo so. Ma basta provarci. Basta prendere un compasso e fare cerchi sempre più piccoli e in essi immergersi per scoprire che un cerchio piccolo non ha meno spunti, ma li ha più concentrati, più intensi.

13 – continua

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Il callo (e non si parla di piedi)

Albergaria-a-NovaSão João da Madeira

I momenti al ristorante (o in qualche posto in cui si ingurgita cibo prima di svenire per la fame) sono preziosi per tirare le somme di giornate di chilometri e sudore. Appena il mio nobile posteriore fa contatto con la sedia e i miei polpastrelli accarezzano un bicchiere di vino, entro in modalità sociale: accendo l’iPad, mi ricollego col mondo (anzi solo con quella parte che non mi dà disagio, e qui mettiamo un segnalibro per le prossime puntate) e scrivo queste note. E’chiaro che i miei resoconti sono spesso condizionati, se non addirittura ispirati, da ciò che accade in questi momenti di relax.
Per questo vi racconto due minime storie che mi hanno colpito sinora. Le storie di due calli.

La prima a Sernadelo dove ho cenato accanto a una coppia abbastanza giovane: abbastanza giovane rispetto a me quindi fate voi e tenetevi le vostre considerazioni.
Lei gli parlava divertita, lui annuiva sorridendo dietro lo schermo di un cellulare. Io ero dietro di lui e vedevo cosa stava guardando: immondizia di Tik Tok, calcio, Formula 1, filmati di cadute divertenti. Nulla di compromettente. Ma quel che mi ha impressionato è stata la serena perseveranza di lei che continuava a chiacchierare come se si stessero guardando in faccia, come se quel cellulare non esistesse: rideva, parlava, si divertiva insomma.
Ho fatto due considerazioni: o era talmente abituata a interagire in questo modo (da notare che lei non ha mai tirato fuori il suo smartphone) da averci fatto il callo, o si era ritrovata nella inconfessabile consapevolezza di un’alternativa mancante, quindi o così o niente (callo uno). Ci sarebbe una terza via che avrebbe a che fare con la mia visione trasversale ma è bene che me la tenga per me: non sempre tutto ciò che ci è inspiegabile ha una soluzione nelle nostre manie e\o perversioni.

La seconda stasera a São João da Madeira. Ci sono due ristoranti l’uno accanto all’altro e si capisce che non ci sono buoni rapporti tra i proprietari. Entrambi hanno tavoli all’esterno in una deliziosa e tranquilla isola pedonale. La guerra è sul terreno più sanguinoso che mi viene in mente in questo momento di relax: la musica.
Si fanno guerra con la musica diffusa all’esterno.
Ognuno ha la sua colonna sonora. Sospetto che le compilation, come si chiamavano una volta, siano stilate con intento apertamente bellicoso. In questo momento uno spara “Gloria” e l’altro “Lady Marmalade” (comunque canzoni dignitose).
La parte impressionante è quella che riguarda i clienti. Non so voi, ma io rischio di impazzire se due persone mi parlano in contemporanea, figuriamoci se mi si sparano due brani musicali nello stesso momento.
Aggiornamento live, scopro adesso che di fronte c’è una chiesa con campane amplificate che ovviamente ha il diritto di fare la sua parte: quindi la situazione è Tozzi nel canale destro, Labelle nel sinistro, campane al centro. Mi guardo intorno. Tutti cenano e chiacchierano come se niente fosse. L’orgia di suoni tramortisce solo me e questo è un pensiero da mettere nel caricatore per i prossimi giorni.
Perché solo io sono a disagio?
Perché il mondo riesce a godere di una promiscuità multitasking?
Giro a voi i dubbi, con una domanda in più.
Vi è capitato di chiedervi se siete voi ad aver sviluppato un’ipersensibilità o se è il contesto che vi circonda che ha fatto il callo? (callo due)
Intanto indosso i miei auricolari, mi sparo un Prince e porto questo post al suo approdo (vale come un callo tre?).

P.S.
Mentre scrivevo questo post mi è venuta un’immagine in testa. E non era una delle mille foto scattate durante il mio cammino, ma inopinatamente quella di un film che ho adorato: “Il senso della vita” dei Monty Python.
Sarà un pernicioso effetto collaterale del callo.

12 – continua

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Il signor Fernando

Sernadelo – Águeda
Águeda – Albergaria-a-Nova

Stamattina la tappa era abbastanza leggera quindi me la sono presa comoda. Ero ad Águeda, una cittadina poco nota lungo il Cammino portoghese che non ha monumenti indimenticabili ma che, ho scoperto, infonde la serenità delle piccole cose di buon gusto. Prima di affrontare la mia dose giornaliera di chilometri ho fatto un giro, seguendo la scia di ombrelli colorati che decorano alcune sue vie suggestive e mi sono informato. Ogni estate in questo posto si svolge uno dei più importanti festival artistici del Portogallo, l’AgitÁgeda. La punta di diamante delle manifestazioni è l’Umbrella Sky Project, un’idea che poi è stata copiata da molte città del mondo. 

Era presto per la mia tabella di marcia (parleremo dei miei orari anarchici perché so che è tema caldo tra chi fa la mia stessa esperienza) e ho deciso di investire il mio tempo nella maniera meno consueta per un camminatore seriale e compulsivo. Mi sono seduto su una panchina e ho lanciato un brano a caso della mia playlist “Passi felici” – la trovate sul mio account di Apple Music. Mentre ascoltavo questa canzone mi sono guardato intorno con l’inusuale filtro della semplicità: del resto ero lì, solo, con uno zaino che racchiudeva la mia vita, avevo tutto quello che serve (riserva d’acqua, pancia piena, scarpe ben allacciate, pensieri sguinzagliati). Sul lungofiume in cui mi trovavo c’erano decine di ragazzini, accompagnati da maestre o chessò impiegate comunali, che si divertivano e sudavano nel parco giochi lindo e perfettamente funzionante. Un papà con passeggino faceva giocare il suo cane con una palla, mostrando di amministrare con gioia i suoi affetti a due, quattro zampe/ruote. Intorno tutto abbastanza pulito, ma di un pulito, come dire?, non clamoroso. Che se ci pensate bene, per noi abituati al lerciume di ordinanza è impressionante. Perché è facile lasciarsi incantare dalla pulizia svizzera o altoatesina, per fare due esempi banali, ma trovare una efficienza discreta laddove magari una cicca o qualche bottiglia fa capolino – il mio caso portoghese – è di maggiore effetto. Perché ti fa capire che una città accettabilmente pulita, seppur coi suoi limiti e le sue eccezioni, ti libera dall’illusione della fantascienza.
Mi pare un concetto basilare che tira in ballo la responsabilità comune. Sino a quando non capiremo che le sorti di una comunità non sono soltanto nelle mani dei nostri amministratori, ma soprattutto nelle nostre, nel nostro senso civico, nella quota di responsabilità che dobbiamo brandire non appena varchiamo la soglia di casa, non avremo speranza alcuna.
Ok, fine del pippone. Ogni tanto mi faccio prendere da fremiti che interferiscono con una strisciante andropausa civile (non si può stare in trincea per sempre, le retroguardie in fondo possono essere posti in cui è bello svernare, e non sono in Cammino per caso…).

Comunque, a proposito di prendersela comoda. A fine cammino oggi, a dispetto delle good vibrations della partenza, approdai in una specie di hotel poco al di sotto del rango di topaia: ci ho messo cinque minuti per entrare nell’antro a me assegnato, scacciare una decina di mosche e insetti vari, individuare un pelo sul cuscino, incuriosirmi per una macchia sull’asciugamani (sarà bruciatura di sigaretta o residuo organico?), mandare affanculo il capo-topaia e chiamare un taxi.
“Dove andiamo?”, ha chiesto il signor Fernando, orgoglioso di portare un nome italiano.
“Vada a Nord che tra poco le dico”.
Nel giro di pochi chilometri (come scorrono veloci quando si è su ruote, minchia!) ho trovato al volo un fantastico hotel abbastanza distante dal Cammino: una grave violazione nella mia ortodossia dato che non mi allontano mai – tantopiù in taxi! – dal percorso. Trovato rimedio all’emergenza, trovato rimedio al rimedio dell’emergenza. In due modi.
Il primo. Domani mattina il signor Fernando mi viene a riprendere e mi riallinea all’itinerario.
Il secondo me lo sono dimenticato mentre entravo nella Jacuzzi.

11 – continua

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