Più spari che stalking

Osservatorio serie tv.

Baby Reindeer” (Netflix) è la serie del momento, osannata dai giornali e da Stephen King che l’ha addirittura paragonata al suo “Misery non deve morire”. Ovviamente quando il Maestro chiama, il sottoscritto risponde: me la sono bevuta in un fine settimana. Solo che alla fine la delusione è stata enorme. Lo dico subito. Ho trovato “Baby Reindeer” molto sopravvalutata – ovviamente siamo sempre nell’ambito del parere personale – come spesso accade con le opere che mettono le mani in temi delicati, in cui la connessione tra argomento e giudizio artistico è pericolosamente stretta. Il percorso in cui il narratore – che è anche l’autore e l’interprete della storia – arriva a empatizzare tardivamente con la stalker Martha sta tutto nel caleidoscopio di emozioni che vanno dalla tenerezza al fastidio, dalla compassione all’odio che nel personaggio di Donny, come nel pubblico, si fanno strada episodio dopo episodio. Insomma siamo davanti a uno di quei casi in cui il confine tra supercazzola e capolavoro è labilissimo. Ognuno incolpevolmente decide di attraversarlo come crede e, soprattutto, nella direzione che ritiene più opportuna. Io sono arrivato alla fine dopo un bel po’ di sbadigli.

“Fallout” (Prime) è l’adattamento televisivo di un videogioco post-apocalittico di grande successo che però non ha il difetto più comune di questo genere di prodotti, e cioè il prevalere dell’effetto sulla trama. La serie è scritta in modo magistrale con quattro linee narrative solide. L’uso degli effetti speciali e i dialoghi che spesso hanno un che di umoristico la rendono un’opera molto originale. La violenza esibita e la deriva splatter di molte scene è sempre funzionale alla storia. L’ispirazione retrofuturista, cioè l’uso e la ricerca di elementi del passato in un tempo futuro, contribuisce a un risultato che – ovviamente siamo sempre nell’ambito del parere personale, bis – mi sembra eccezionale. Insomma “Fallout” è nel suo genere un gioiellino e i suoi attori, anche per caratteristiche fisiche, sono il frutto di un casting perfetto. Pur essendo una serie di combattimenti, di spari, di lame e fuoco, l’effetto migliore è nei primi piani degli occhi dei protagonisti. Bella. Anzi bellissima.

Un post chiamato desiderio

Sto guardando la serie Prime “Fallout” che ha il pregio di essere ispirata a un videogioco e di non contenere nulla che sia più di uno spunto rispetto a quel videogioco.
Mi sta piacendo perché mi pare ben realizzata, con un buon ritmo di sceneggiatura e una gran cura nella realizzazione delle riprese, delle scenografie e degli effetti speciali.
Però questo è solo l’ambito che mi ha spinto a scrivere: e vi prego di non fare spoiler sulla serie, dato che sono solo al terzo episodio (aggiornamento, ne parliamo qui).

Il vero motivo ispiratore è una frase che uno dei protagonisti pronuncia, che suona pressappoco così: desidereremo le stesse cose quando saremo cambiati?
Mi pare un concetto molto in linea coi tempi e soprattutto coi miei tempi.
Da aspirante vecchio e ridicolo resistente agli acciacchi dell’età non ho una risposta precisa a una domanda così netta.

Desidereremo le stesse cose quando saremo cambiati?

Credo che nasciamo volendo e cresciamo desiderando. Quindi con gli anni attenuiamo le nostre esibite esigenze nei confronti del mondo. Poi però c’è un momento – io ci sono molto vicino – in cui si fa largo una certa intransigenza per cui il mood cambia: vogliamo più di quanto desideriamo.
Occhio alla trappola logico-linguistica. Non nel senso che vogliamo più di quanto abbiamo o ci possiamo permettere, ma nel senso che cambia l’intensità di ciò che vogliamo. Togliamo il freno a mano ai desideri, insomma.
Per tornare alla domanda di cui sopra, è un mutamento di atteggiamento, non di oggetto. Io non desidero le stesse cose che desideravo prima, ma magari desidero cose come le desideravo prima.  

Capite che siamo di fronte a un tema sterminato e anche parecchio interessante: un concetto universale che ci riguarda tutti poiché una delle poche cose alle quali non ci possiamo sottrarre, a patto di rimanere vivi, è il cambiamento.
Pensate all’amore. E a qualche compagno/a di qualche anno/decennio fa: probabilmente non li desideriamo più, ma se non li avessimo desiderati a quel tempo non saremmo in grado di constatare oggi il nostro grado di (non) desiderio.
Pensate al lavoro. Ci si sbatte per cambiare la nostra condizione, il nostro status, il nostro reddito eppure le nostre esigenze sociali economiche magari non sono cambiate.
Pensate alla salute. Una semplice passeggiata diventa una meravigliosa conquista quando cambia un millimetro di un tendine o una semplice cellula dà di matto.

Forse la risposta più realistica alla famosa domanda è in una constatazione: produciamo molte più esigenze di quante ce ne potremmo concedere, più polemiche di quante ne potremmo affrontare, più delusioni di quante ce ne servirebbero, più disattenzione di quanto il mondo intorno a noi meriti.
Adeguarsi per difetto non sarebbe un difetto.