Gli spaventati del presepe

Non parliamo dei risultati elettorali. O meglio ne parliamo ma da un’altra angolazione. Cercando di spiegare come siamo arrivati a oggi. Niente politica, promesso. È una storia che mi è venuta in mente ieri, leggendo alcuni post su Facebook dove c’erano molte persone che si meravigliavano del fatto che tutta questa destra nelle loro timeline non l’avevano vista e che sospettavano che magari molti avessero votato di nascosto Meloni per poi far finta di nulla, fischiettando su Facebook.

È una storia che la dice lunga su quanto non sappiamo dei mezzi che usiamo, su quanto ci illudiamo di padroneggiare e su quanto dovremmo investire in conoscenza, studio e buona creanza, prima di meravigliarci per il poco di cui non c’è proprio nulla da meravigliarsi. Buon ascolto.

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Gery Palazzotto
Gery Palazzotto
Gli spaventati del presepe
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La lunga notte…

Di nottate elettorali è fatta la vita di un giornalista. Modestamente le ho affrontate sin dagli anni ’80 e ho attraversato tutte le difficoltà tecniche possibili. Dalla fotocomposizione all’impaginazione digitale, dalle telescriventi alle agenzie online, dai dimafonisti alle chat di internet, dalla carta al web, non c’è notte elettorale che sia semplice: perché per assioma se uno spoglio è semplice o stai sognando o sei nel Donbass.

Coi colleghi che al contrario di me ancora oggi resistono in trincea, abbiamo rievocato spesso quelle notti in cui un corrispondente si dava latitante (famoso il caso di uno che approfittò dell’alibi elettorale per andarsene con l’amante) e tutto si fermava, o abbiamo rivissuto l’incubo delle elezioni nel Messinese dove con 108 comuni, alcuni di pochissime anime, era praticamente impossibile avere i definitivi entro l’ora stabilita e a volte entro le ore che seguivano. A tutto ciò si aggiunga la grottesca esigenza delle aziende editoriali di anticipare sempre più l’orario di chiusura e quindi il crescente ricorso, da parte nostra, ai salti mortali per mandare in edicola una versione almeno plausibile di ciò che era accaduto e stava ancora accadendo.

All’alba del suo pensionamento un anziano caporedattore del giornale in cui lavoravo, ripescando le collezioni, scoprì addirittura che in questa foga di anticipare, anticipare, anticipare, di alcune tornate elettorali non avevamo mai pubblicato i risultati definitivi.
Ancora oggi con alcuni colleghi di cui sopra abbiamo una sorta di parola d’ordine che facciamo circolare via whatsapp a ogni elezione. È una frase: “La lunga notte…”. E rievoca, appunto, una notte che nella nostra memoria si arricchisce col tempo – sapete, i vecchi quando non ricordano, inventano – di particolari fantasiosi.

Elezioni del 1996. Avevamo mandato Enrico del Mercato, allora cronista parlamentare del Giornale di Sicilia, a fare un reportage nel quartier generale della Rete e lui, in assenza di un briciolo di dati che non fossero quelli scarni dell’affluenza, aveva temporeggiato sino all’ultimo per cercare di mettere più sostanza possibile in quelle cento righe di pezzo. Solo che era tardi. Anzi tardissimo. Fumavamo nervosamente intorno a lui, mentre scriveva una frase che avrebbe dovuto imboccare la fine agognata dell’articolo, ma lui stava ancora lì a scegliere le parole, a cercare un’arguta metafora.
Aveva appena digitato “la lunga notte…” quando il caporedattore Nonuccio Anselmo mi scansò di peso, letteralmente vista la stazza, tolse la tastiera dalle mani di Enrico e scrisse: “…finisce qui”.
Poi schiacciò i comandi “control – assegna” e la lunga notte, almeno per quel pezzo, finì davvero lì. Per poi entrare nella nostra minima leggenda di giornalisti sopravvissuti e non rassegnati.

Ancora oggi una notte elettorale non si evita, si scampa.

La politica, l’informazione e la merda

Avvertenza per il lettore: questo articolo contiene alcune parolacce pur volendo stigmatizzare la volgarità disinvolta nella politica e nell’avanspettacolo a essa collegato.

Da un paio di giorni il candidato alla presidenza della Regione siciliana Cateno De Luca è il reuccio incontrastato del web per via di un attacco a un giornalista che, a suo dire, sarebbe strumento di un complotto ai suoi danni ordito da poteri forti. Cioè un complotto messo su da un giornale talmente potente che, va detto, si ritrova da anni con le pezze al culo e che non ha nemmeno saputo difendere adeguatamente le sue tesi (e il suo cronista) nello specifico: quattro righe oggi e pezzo ritirato dal web (vabbè, ognuno sa come farsi male senza chiedere l’aiuto da casa).
Per dire che questa storia ha De Luca al centro di un vortice di volgarità inaccettabili, ma ha anche un adeguato corredo di errori compiuti dalla stampa siciliana.

Se vi dico che c’è differenza tra la politica e la merda la cosa può apparire scontata. Messi da parte i luoghi comuni che addossano ai politici tutti i mali del mondo, persino quelli atmosferici, ci dobbiamo però arrendere dinanzi alla constatazione che, a conti fatti, a una buona parte della politica questa differenza conviene non marcarla.
Perché è il cliente che chiede il prodotto: e se il prodotto è di scarsa qualità (quindi costa poco) ma rende tantissimo nessuno ha voglia di cambiare. È l’uso che fa legge. Anzi gregge.

Abbiamo più volte affrontato nel corso degli anni questo tema e abbiamo anche sperato in un improvviso rinsavimento della classe politica, ma dai “5 Stelle” in poi questo appiattimento sul fondo del barile si è talmente mescolato alla melma del residuo da non distinguere più l’idea dal rutto, il progetto dall’incubo, la strada maestra da quella per l’inferno.
Cateno De Luca mostra con orgoglio le cicatrici del suo essersi fatto da solo a forza di spallate, colpi di teatro, ingiurie, graffi e sputi al potere. E in questa pantomima costruisce un personaggio che non le manda a dire, che spedisce affanculo chi non la pensa come lui, che dice quello che pensa (dire quello che si pensa è la cosa più facile del mondo, la vera prova di maturità è l’opposto, filtrare, progettare, ponderare, ma su Facebook non fa engagement). Basta poco per capire che questi non sono valori in politica. Non lo sono proprio per l’essenza della politica stessa e del rispetto delle istituzioni.
Il bello/brutto sarebbe che se mai De Luca fosse eletto dovrebbe comportarsi in modo opposto, affrontare una nemesi epocale. Rispettando chi non la pensa come lui. Filtrando le intemperanze personali per garantire quella cosa che si chiama democrazia. Garantendo personalmente per ogni minoranza: culturale, politica, sociale, geografica, economica. Governando per il Pipitone di turno insomma.
Perché sarebbe questo il suo compito più difficile e importante: ma forse dovevo scriverlo in maiuscolo per essere ben compreso.  
Sbraitare va bene e frutta sui social dove ci si trastulla con migliaia di adepti di cui alcuni pericolosamente fuori controllo. Tuttavia quando si deve decidere del destino di sei milioni di siciliani non basta un bicchierino di amaro e via andare: “Pipitone pezzo di merda; cesso di personaggio; ti cavo gli occhi; so con chi vai a cena, con chi fai le vacanze”.
Oggi c’è Pipitone, domani c’è qualcun altro che non gli piace.

La stampa siciliana gli ha apparecchiato la tavola. Lo dico da giornalista, da precario a quasi sessant’anni che non ha mai preso un cazzo di sussidio e mai vorrà prenderlo (non sono ricco di famiglia purtroppo), da professionista fuori da ogni giro di interesse più o meno trasversale.

Il Giornale di Sicilia, nello specifico, ha le sue colpe. Che si trascinano da quarant’anni in una serie incredibile di errori, di sottovalutazioni, di connivenze, di porcherie verticistiche mai espiate. È stato il giornale del garantismo peloso per eccellenza, della lettera della signora Patrizia contro Falcone che disturbava con la sua scorta, delle interviste in ginocchio, del potere oltraggioso sul controllo delle notizie, di Giovanni Pepi e della sua angusta visione del mondo elevata a sistema sociale. Ma – questo De Luca lo dimentica o non lo sa nemmeno – è stato anche il giornale di Mario Francese, di una redazione orgogliosa che pur di pubblicare le notizie le nascondeva al condirettore Pepi (proprio così!), di un manipolo di resistenti che oggi lavora con lo stipendio quasi dimezzato.
Il GdS è solo uno dei pilastri franati sui quali si è inscenato questo disastro. Il panorama desolante dei siti nati dalla bolla internettiana del 2010 (o giù di lì) andrebbe recensito non tanto con l’ottica del giornalismo, ma con quella del buon gusto. Tra marchette senza ritegno e sfilata di dilettanti allo sbaraglio, la differenza tra servizio e servizietto è pericolosamente vicina (e mi costa dirlo) alla visione deluchiana del giornalismo. Ma di questo, lo prometto, parleremo un’altra volta.     
Anche alla luce di tutto ciò Cateno De Luca ci ha messo anni a costruire un personaggio ad hoc per i social, con eccessi ben calibrati e ottima capacità di inventiva. Ha cantato, si è spogliato, ha urlato, ringhiato, blandito le folle affamate di urla, ringhi, violenza verbale.
Si è però distratto da un tema fondamentale, che probabilmente si confessa ma non ha il coraggio di affrontare, oggi a frana in corso.
Il suo elettorato.
Lo ha forgiato a sua misura e non è un bene: basta leggere i commenti sui social che il noto candidato brandisce come un fucile col colpo in canna. Sono tutti appesi alle sue parole, anzi alle sue minacce. È tutto un fiorire di incitamenti a fare la rivoluzione, a vendicare un popolo oppresso. Oppresso dal nulla di una violenza cieca senza la quale nulla, in quell’universo, può esistere.
Mi piacerebbe essere smentito, ma oggi come oggi il (dis)valore di uno come Cateno De Luca sta nell’aggressione, nell’offesa, nello storpiare il cognome dell’avversario (un’antica “tradizione” siciliana a partire da Totò Riina che additava “Caselle” e “Violanti” ai suoi followers ante litteram). Non è incapace di dibattere civilmente piuttosto, realisticamente, sa che non gli conviene. Perché senza la carne cruda del massacro verbale tra i denti è digiuno di argomenti.
E il suo desco purtroppo è affollato.      

P.S.
Ho seguito la diretta del suo comizio ieri a Mascali. Guardatela e provate a trovare un briciolo di programma. Niente. Solo offese e basta.

Like come voti? Macché

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

È vero che l’unione fa la forza, ma è anche vero che ci sono forze che unite si annullano a vicenda. Prendete il caso di Francesca Donato che per la sua corsa a sindaco di Palermo aveva riscosso l’appoggio dell’ex pm Ingroia e del comunista Rizzo, ma soprattutto aveva goduto dello straordinario endorsement di Heather Parisi e Alessandro Meluzzi. Risultato: poco più di seimila voti e lista a picco. Eppure la storia della signora Donato non è soltanto un paradigma di alleanze sul tema del negazionismo applicato alle cose della vita – che sia un virus o una strage di ucraini è un dettaglio di mera contingenza di cronaca – ma anche l’occasione per collocare il virtuale nel suo alveo naturale: che è appunto quello di atto non in atto, opposto alla realtà (o peggio suo surrogato).

Finora la migliore prova di fisicità delle sue idee la signora Donato l’aveva data in tv. Ma certe comparsate televisive in cui si discetta, per di più urlando, di ciò che è discettabile solo perché si è forniti di corde vocali annodate a una perigliosa dose di tesi alternative non sono garanzia di nulla, al netto di una complice audience post pandemica.

Poi ci sono stati i social. I like a migliaia, gli applausi digitali ai suoi post non erano promesse di voto, così come non lo erano per altri candidati di ogni schieramento che avevano respirato aria di vittoria a ogni cuoricino luccicante o pollice in su. Perché, oggi domani e sempre, che sia elezione o relazione, fallace è l’emozione da emoticon. E perché il filtro tra promessa e voto, tra polpastrello e cuore è quella cosa che alcuni chiamano reticenza e altri chiamano coscienza.

Palermo senza Orlando

La chiusura dell’era Orlando a Palermo è importante più per quel seguirà che per ciò che è accaduto sin qui. Perché Orlando è stato Palermo e adesso senza di lui la città deve scegliere cosa o chi essere. I palermitani sono purtroppo esperti di indolenza, maestri in quell’arte storta del lasciarsi trasportare senza manco pagare un biglietto. Quindi oggi, alla vigilia di una tornata elettorale i cui unici spunti che resteranno sono gli arresti per questioni di mafia e l’endorsement di Heater Parisi per una aspirante sindaco che crede a Putin e non crede ai vaccini, va riconosciuto ad Orlando di aver fatto ciò che un sindaco, nel bene e nel meno bene, può fare: imprimere un’orma e farla diventare sentiero.

L’ormai ex sindaco ha molti meriti, civili, culturali, sociali. E altrettanti demeriti, amministrativi, caratteriali, politici. Ha incantato con la sua “visione”, dimostrando di saper guardare lontano, ma non ha brillato nell’affrontare l’ordinario, snobbando ciò che è vicino. Soprattutto – ed è un suo vizio antico – non è stato in grado di scegliersi una squadra fidata ed efficiente (salvo rarissime eccezioni).
Il risultato è che oggi il panorama è talmente sconcertante che è più chiaro per chi non votare che per chi schierarsi. Perché Palermo, questa Palermo, deve avere la forza di trovarsi una narrazione senza il dio-demone Orlando, senza qualcuno da amare e maledire allo stesso tempo.
Non è mai stato così nella storia di questa città. I sindaci o si odiavano o si amavano, o si rispettavano per ruolo o per convenienza. Dal pugno di ferro del sindaco boss al pugno di salatini del sindaco aperitivista a go-go, Palermo è stata comunque ostaggio: della mafia, dell’ignoranza, del gioco di specchi di una politica cialtrona. Con Orlando no. Con lui Palermo è stata finalmente Palermo, con le sue possibilità inespresse, con le sue gioie improvvise, con le sue insopportabili contraddizioni, con il suo posizionamento mediatico. Con le sue rinnovate vergogne.
Perché ovunque vai, nel mondo, quando dici Palermo dici Orlando. E tutti conoscono spesso prima lui della sua città.

Ora i palermitani devono mostrare di saper nuotare in mare aperto, da soli. Quello stesso mare che Orlando ha reso ponte anziché confine, battendo, con un’intuizione politica che solo i grandi hanno, un ministro che chiudeva i porti con un tweet: la forza della ragione è il grimaldello dei cuori migliori, quelli che la diversità la cercano e non la sfuggono, quelli che allargano le braccia non per negarsi ma per accogliere.
Chi verrà a Palazzo delle Aquile dovrà ricostruire una macchina comunale allo sfascio, dovrà soprattutto sfuggire alle trappole di una politica gretta e pericolosa che usa il Consiglio comunale come un’arma di ricatto.
Soprattutto dovrà dirci dove andremo.
E rassicurarci che la primavera è una stagione che torna, torna sempre.

Le elezioni e il fattore C

L’altro giorno ho pubblicato sui social questo post, a proposito dell’appoggio di personaggi con precedenti penali pesanti a candidati a sindaco nella mia città, Palermo.

Se incontro Totò Cuffaro per strada lo saluto, così come lui saluta me. Se capita ci scambio pure quattro chiacchiere perché è persona con la quale può essere piacevole conversare. Anche di politica ovviamente. In passato ho scritto cose molto dure nei suoi confronti ma mi è capitato anche di difenderlo quando mi è sembrato che fosse il caso: siamo uomini e mai la nostra dignità deve essere calpestata, mai. Però se oggi lui mi offre il suo appoggio per una mia candidatura politica lo ringrazio ma mi guardo bene dall’accettarlo: è molto semplice.

Nei commenti contrari, tutti peraltro civili a conferma che ognuno ha le timeline che si merita, prevale la seguente tesi: siccome Cuffaro e Dell’Utri (i due personaggi in questione) hanno espiato la loro pena, adesso sono liberi di esprimere il loro pensiero, democraticamente. Il che è giusto e non collide con la mia tesi.
Il problema è facilissimo da intuire, complicatissimo da esporre senza cadere nelle trappole del qualunquismo o del cosiddetto fascismo di sinistra, roba dalla quale cerco di tenermi lontano da sempre.
È provato che questi signori hanno interagito in modo non occasionale con la mafia. Ed è intuibile che una fetta del loro elettorato sia riconducibile a quegli ambienti. Del resto lo stesso Cuffaro ha dichiarato a Repubblica: “Ai candidati chiedo che facciano esattamente il contrario di quello che ho fatto in passato. Non clientele, non prebende, non rapporti che possono rivelarsi pericolosi”. Un elettorato che quindi era in parte di clientele, di prebende, di rapporti pericolosi.
È questo il punto. Io posso credere nel ravvedimento di Cuffaro (di Dell’Utri niente so in tal senso) e posso apprezzare i suoi sforzi di riabilitazione, di concentrarsi su ciò che prima guardava con distrazione (a voler essere benevoli). Ma non penso che in un candidato sindaco che dovrebbe rappresentare il nuovo (senza ridere, eh!) ci dovrebbe essere spazio per mere questioni di numeri: prendersi gli elettori potenziali di Cuffaro, chiunque essi siano.
Perché gli “elettori di Cuffaro chiunque essi siano” non possono avere ancora la possibilità di indirizzare la politica di questa città già massacrata e sconfitta. C’è una base elettorale di Cuffaro seria e onesta che capirebbe da sola a chi dare il proprio voto, senza il placet di nessuno e senza suggerimenti dell’ultima ora. La vera politica non ha bisogno di ammiccamenti e ruffianerie: è immediata come un pensiero dritto, convincente come un semplice ragionamento di buon senso. Dici qualcosa nel presente che mi piace nel futuro, che fa bene a tutti senza oltraggiare il passato: e io ti voto.
La memoria non si evoca e non si sbandiera a convenienza, si usa e basta.

Poveri turisti!

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

C’è un boom del turismo che fa ben sperare in questa Sicilia che brilla di luce propria, nonostante tutto. Quest’anno si prevedono un milione di arrivi solo per le crociere e ci sarebbe da gioire se all’orgoglio per una ripresa possibile si accompagnasse anche un moderato senso di responsabilità.
Perché quel “nonostante tutto” è un fattore di rischio ben noto a queste latitudini. La politica distratta e menefreghista ha usato l’arte e la cultura – che, ricordiamolo, sono il volano di una rinascita economica reale – solo per passerelle elettorali o per pasturare greggi di clientele. E per fare ciò ha impiegato il metodo della elargizione delle molliche: io ti do meno del minimo in modo che la tua fame diventi dipendenza. Si veda ad esempio lo stato dei teatri a Palermo. Inoltre nel tempo si è andata concretizzando la balzana idea che il turismo sia un settore come un altro, che va trattato da burocrati con convincimenti puramente ragionieristici. Insomma che sia festival di musica sacra o sagra del corbezzolo poco importa: lo stanziamento guarda al bacino elettorale più che alla qualità del prodotto e alla sua audience. Badate bene, anche la sagra ha il suo appeal. Ma solo se inserita in un contesto in cui arte, cultura e tradizioni stanno ognuno al proprio posto, degnamente, senza schiacciarsi i piedi a vicenda. Proprio perché entriamo nel vortice delle elezioni va detto chiaramente che, se non si cambia radicalmente ottica, il rischio è quello di continuare a considerare i turisti come un sottoprodotto della circolazione delle merci: veri bancomat ambulanti che, inconsapevoli, cadono nella trappola di andare a meravigliarsi di ciò che è sciatto e banale.    

Spacciatori di dubbi inutili

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Non è il filo di imbarazzo per i recenti dubbi espressi sulla strage di Bucha, né lo sconcerto per le reiterate uscite no vax e no green pass a ispirare le seguenti righe sulla parlamentare europea Francesca Donato. È sulla sua candidatura a sindaco di Palermo che, col dovuto rispetto, vale la pena di incatenare un paio di concetti base, tanto per ricordare che il negazionismo non è un’emergenza recente e che soprattutto in questa terra ha causato ferite mai rimarginate. Per decenni della mafia è stata negata l’esistenza. E le immagini dinanzi alle quali allora si scuotevano le teste diffidenti erano orrifiche al pari di quelle che oggi arrivano dall’Ucraina e appena ieri dall’inferno infetto di Bergamo. In Sicilia in quegli anni terribili il negazionismo istituzionale diventò endemico grazie allo stesso meccanismo di riproduzione abnorme dei dubbi che oggi consente all’onorevole Donato, e a quelli che discutono come lei, di far proseliti sgonfiando le ruote della verità acclarata. Si usò, allora, il garantismo per indebolire una macchina della giustizia che arrancava contro un nemico forte e ramificato, così come oggi si è usato lo scetticismo estremo per screditare la ricerca scientifica contro un virus pericolosissimo. E in questo eterno gioco di distinguo si mise in azione una campagna di superficialità pignolesca per mettere all’angolo Giovanni Falcone. Che, non dimentichiamolo, fu colpito prima che dai boss, dal fuoco amico di una certa antimafia che lo voleva, sciaguratamente, “fuori dai palazzi romani”. Ciò grazie al “distinguismo”, oggi tanto in voga.
Insomma se il dubbio è l’inizio della conoscenza, forse lo spaccio di punti interrogativi dovrebbe essere vietato per decreto.

Tu chiamale se vuoi elezioni

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

A Palermo dici elezione e leggi confusione. Nella corsa alla poltrona di sindaco – che poi di fatto è solo una sedia tutt’altro che comoda – si leggono in filigrana vizi e contraddizioni di questa città. Una città dove pianificare è il refuso del panettiere e dove sarebbe saggio uniformarsi al vecchio detto: meno promesse, meno delusioni.
Diciamo subito che finora la politica non ha prodotto un bel nulla, a parte i “campi larghi”, i “pressing”, i “veti incrociati”, le “sfide interne”. Tutte frasi dalle quali, come in un gioco della “Settimana enigmistica”, possono scaturire infinite possibilità. L’esercizio più divertente è quello di “dimenticare Orlando” senza dimenticarlo, magari cercando di estorcergli qualcosa che sta a metà tra il testamento e l’investitura. Ma è nei candidati fai da te che la questione rischia di diventare appassionante, almeno al confronto con le strategie sbadiglianti dei partiti. Dalla sovranista no-pass che ha messo il Covid in una narrazione molto personale, al tale che immagina di costruire mega parcheggi sotterranei e sopraelevati (a conferma che il vero problema di Palermo resta il traffico), dal sopravvissuto della società civile che si muove come il soldato giapponese emerso dalla giungla trent’anni dopo la fine della Seconda guerra, all’ex direttrice di carceri che spiega come il modello Ucciardone si adatti  questa città (con ampia libertà di metafora).
La materia è talmente rarefatta che ci si può scherzare su e al contempo parlarne seriamente senza che nessuno noti la differenza. Al momento l’unica indicazione seria arriva da un comico come Corrado Guzzanti: “Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori.”

C’è chi dice no

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Nell’aprile del 1991, quattro mesi prima di essere ammazzato da Cosa Nostra, Libero Grassi spiegò meglio di tanti Soloni dell’Antimafia che la lotta alla criminalità partiva dalle competizioni elettorali. “Ciò che davvero conta è la qualità del consenso, la formazione del consenso”, disse. “A una cattiva raccolta di voti corrisponde una cattiva democrazia”. Ne avevo parlato già qui.

L’universalità di quel concetto, solida come la moralità di chi lo espresse, e non è mai stata messa in dubbio dallo scorrere del tempo, dal cambiamento degli scenari politici, sociali, criminali. L’ultimo allarme sulle estorsioni a Palermo e in Sicilia proprio in coincidenza con le elezioni prossime venture è un’occasione utile per riannodare il filo di un ragionamento che ormai sembra interessare solo i sopravvissuti della cosiddetta società civile e gli addetti ai lavori (ivi compresi i mafiosi). Il commerciante che si rivolge al boss non perché ha subito una minaccia, ma perché vuole farsi aiutare a sbrigare una “pratica” è il paradigma di un sistema storto. Un sistema in cui la mafia è sempre ceto dominante e in quanto tale dispone di soldi, di mezzi, di inserimenti nell’amministrazione. E di voti. La politica, che il consenso lo coltiva per poi nutrirsene, ha in ogni tornata elettorale la preziosa occasione di scardinare questo sistema. Non servono sindaci sceriffi, ne convegnisti compulsivi. Servono buoni esempi di ordinaria amministrazione, servono squadre blindate sui programmi, serve soprattutto una nuova cultura di muri. Proprio così, muri: contro il qualunquismo, contro il negazionismo, contro le scorciatoie sociali.
Un consenso di qualità è fatto anche di no.