L’onanismo dell’odio social

Mi sono più volte schierato per il diritto di non perdono, per quello di essere faziosi, contro ogni forma di buonismo d’acchito, persino per il diritto di odiare.
Ma quest’odio social, odio liquido quindi praticamente fine a se stesso (i sentimenti manifestati hanno una loro ragione di essere se avviluppati in un ragionamento, altrimenti sono peti dell’intestino psichico) è insopportabile. Perché si accanisce, nello specifico di Filippo Turetta, su un bersaglio immobile, che si è già arreso, sul quale non c’è possibilità di argomentazione oltre l’onanismo del “buttate la chiave” salviniano.
Non c’è bisogno di martoriare le carni di un morto vivente, per di più giovane. E non c’è vergogna a provare umana (e cristiana, per chi ci crede) pietà.
Siamo sempre pronti a mostrare i nostri opposti su queste timeline, felicità o dolore, odio o amore, fiducia o diffidenza. E ci dimentichiamo la più grande lezione della vita, per chi ne ha una fuori da qui: il contrario dell’amore non è l’odio, ma il dubbio (cit).

Chi fa cosa

Chi fa cosa. Tre parole per stabilire la differenza tra un progetto a cazzo e uno che ha qualche possibilità di riuscita. Siamo circondati prevalentemente da due categorie di persone: quelli che non vogliono fare nulla e quelli che vogliono fare tutto loro. In mezzo, componente minoritaria al limite della categoria protetta, quelli che fanno solo quello che sanno fare senza rubare il lavoro agli altri e senza risparmiarsi sul proprio.

Chi fa cosa è anche un buon esercizio di fiducia e di responsabilità.
C’è una regola che usiamo coi miei amici quando si cucina insieme: se uno mette una pietanza in forno è tenuto a controllarla lui, con assoluto divieto di demandare ad altri.
Chi fa cosa è anche un modo per premiare il merito. Mi è capitato spesso di trovarmi sottoposto a giudizi di ogni genere: personali, professionali, artistici, eccetera.
Li ho accettati tutti, e mentirei se dicessi che l’ho fatto sempre volentieri: nessuno gode nel sentirsi scansato, pestato, sminuito.
Il problema è il chi fa cosa, appunto. Che non va confuso col diritto di critica, che è garantito sin quando non si entra in competenze concorrenti, in precari ambiti gerarchici, in sistemi professionali blindati.

Insomma io posso dire a un light designer che il suo progetto non mi convince, ma non posso sostituirmi a lui e fare di testa mia: perché non ho la sua professionalità, la sua arte, non ho studiato quello che ha studiato lui, inoltre parlo solo per il mio gusto. E coi gusti, che spesso sono capricci, non si fa innovazione (ma di questo parleremo in modo approfondito un’altra volta).

Il chi fa cosa, osservato in modo rigoroso, serve a costruire il migliore dei progetti, quello che porge al mondo un cibo diverso che va sottoposto a giudizio: se è migliore degli altri è giusto che viva e proliferi, altrimenti non è uno scandalo se soccombe.     

Obbligo o verità?

C’è un arrabattarsi, non recente ma urente, sul tema delle verità. Ho usato di proposito il plurale – le verità – perché è proprio sulla non singolarità che si dipana l’eterno conflitto tra bene e male, tra giusti e ingiusti, tra coltelli e fratelli.

La guerra tra Israele e Hamas, come il conflitto in Ucraina scaturito dall’invasione russa, ci pongono dinanzi alla più complicata delle missioni in quanto uomini di buona volontà mediamente senzienti e obbligati alla prudenza (capisco che sono tutti requisiti che restringono drammaticamente il raggio di azione, ma ci devo provare): rinnovare giorno per giorno la consapevolezza che non esiste la Verità Assoluta.
Nel corso della mia vita professionale mi è capitato molte volte di dover fronteggiare l’obiezione più diffusa (e superficiale) sul ruolo degli organi di informazione, che è questa: i giornali non dicono la verità.
A questa osservazione ho sempre risposto con la frase di un mio maestro: “L’unico giornale che dice la verità è la Pravda degli anni ‘70”.
L’abbiamo sottovalutata per troppo tempo, la pericolosità di quest’esigenza di pensiero unico, blindato. E ci siamo dimenticati la grande lezione della storia, che non obbedisce a nessuna regola se non a quella dell’anarchia dei fatti: prima o poi una visione intelligente, cioè ampia e problematica, ha sempre la meglio su un potere ottuso.
Le verità sono tante e si formano dinanzi ai nostri occhi mentre le cerchiamo. Ci sconvolgono e ci rassicurano, ci annoiano e ci eccitano, ci piacciono e ci fanno schifo. Perché è nel loro essere verità plurali che si nasconde il mistero di una rivelazione: il vero e il falso si possono scambiare di posto nel mondo della conoscenza (e solo in quel mondo, altrimenti è regno della cazzata).
In una singola verità ne convivono tante, belle o brutte, bianche o nere, mancine o destrorse. Perché siamo noi a essere tanti, belli o brutti, bianchi o neri, mancini o destrorsi e via vivendo.

La verità è come il mondo: singolare solo nella grammatica di primo acchito.

Non cogito ergo sum

La bufala dell’ “anch’io sto disattivando” riferita a Facebook è una preziosa occasione per fare il punto sul livello allarmante (e, diciamolo, indecente di credulità a buon mercato) e su quella che un gruppo di psicologi inglesi ha chiamato sugrophobia, ovvero il timore ossessivo di essere raggirati.

Ci sono argomenti a buon mercato per ridere di chi crede ancora a queste scemenze  – e ci sono purtroppo fior di professionisti, di persone non incolte, di miei amici tra loro – il più realistico e grave è quello legato al “tanto non mi costa niente” oppure al “per sicurezza condivido”. Che è la certificazione di una caduta degli anticorpi contro l’illogico. Come se le cazzate fossero vento innocuo e noi tutti fossimo bandiere che garriscono al primo soffio o, a seconda dei casi, al primo peto. No, noi non siamo vele, drappi esposti passivamente alle correnti, noi siamo quelli che le governano, le correnti. Siamo noi che scegliamo se veleggiare o opporci, se accodarci o deviare. Neanche il copia-incolla proposto con umiliante semplicità (“tieni il dito ovunque in questo post…”) suscita in queste anime candide quel minimo di risveglio intellettuale che dovrebbe fare di noi creature senzienti.
Perché? Perché non leggiamo, non leggiamo nulla. La maggior parte di questi spanditori di spam non legge nemmeno ciò che condivide: ed è un dramma dato che si tratta, ripeto, in gran parte di gente che non sta ai margini del mondo e che ogni giorno col suo lavoro e la sua opera contribuisce alla costruzione di ciò che ci circonda, alimenta, rende migliori.
Ciò mi allarma moltissimo. Mi allarma soprattutto l’orgoglio con cui ci sono persone che potrebbero scegliere di essere consapevoli e non lo fanno. Persone che scelgono la distrazione, la superficialità, la grettezza (non tutte insieme magari) e non se ne pentono.
Io me ne vergognerei, ma ho vergogna ad averlo scritto quindi fate conto che non lo avete letto.

L’altro tema è quello della sugrophobia di cui, immagino, queste persone poco o nulla sanno. E si capisce benissimo poiché esse sono la dimostrazione di un’inversione di trend che scompagina i piani degli psicologi. Dai negazionismi al Trumpismo, dai no vax agli inseguitori del chip sottopelle, c’è sempre stata la domanda strisciante alla base di ogni dubbio senza dubbi: “Non mi farò mica fregare, io?”.
L’illusione di essere più furbi degli altri e la certezza che anche dinanzi alla prova più schiacciante “a me non la si fa”, oggi con l’“anch’io sto disattivando” franano senza timore nella valle del qualunquismo orgoglioso.
Non ho un’idea e per giunta ne vado fiero. Mi dà noia impegnarmi a vagliare un’informazione anche se è alla portata di tutti. Nel dubbio abbocco. E, quel che è peggio, non me ne frega niente se faccio la figura del coglione. È il trionfo di un pericoloso sentimento, il checazzomenefreghismo.
Non cogito ergo sum.      

Porno Mondo

Parlare di porno è come fare un frittata: facilissimo sbagliare. Il porno è un tema di cui è noto l’involucro, ma è quasi sconosciuto ciò che sta dentro. O che ci sta dietro. E mi rendo conto che già con gli avverbi (dentro, dietro) siamo entrati in un ambito linguistico complicato, pieno di fraintendimenti più o meno accettabili.
L’ho fatto non a caso perché uno dei lati interessanti di questa storia – anzi forse quello che ne fa la fortuna – è proprio la trasversalità. Le allusioni al porno sono dovunque – nella pubblicità, nell’arte, nello spettacolo, nella vita sociale – e sfuggirle con imbarazzo è molto peggio che accettarle con un sorriso (se ovviamente l’ambito è compatibile con un pensiero leggero).

In questo podcast cercheremo di analizzare quanto pesa il sesso nel web e com’è cambiato negli ultimi dieci anni (un’era geologica quando si parla di internet), cosa c’è dietro in termini finanziari e criminali e soprattutto sveleremo cosa è stata la “regola 34”, dove – state sereni – 34 non sono centimetri.

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La forza dei dubbi

Sin da quando ero bambino… anzi no… sin da quando eravamo bambini tendiamo a lasciarci affascinare dal mondo che per noi è ontologicamente complicato. Io ad esempio ero affascinato dalle radioline che negli anni settanta si usavano moltissimo, quasi come gli smartphone di oggi: si portavano dappertutto, in ufficio, in macchina (non tutti avevano le autoradio anche se l’impianto elettrico disturbava la ricezione), allo stadio. Per capire meglio come funzionava una radiolina la smontavo pezzo per pezzo, insomma la sfasciavo. Ed era un bel paradosso, un paradosso che ha a che fare con molte situazioni che avrei vissuto da grande: certi sentimenti di afflato, amore, passione, curiosità, si attagliano in qualche modo perverso alla distruzione.

Insomma sin da quando ero bambino – sin da quando eravamo bambini – la tendenza era quella della semplificazione: ridurre una macchina complessa a un insieme di viti, di ingranaggi, di fili per decrittarne il funzionamento, per carpirne (o rubarne) l’anima.

È il segreto della vita. Per entrarci – nel segreto e nella vita – bisogna farsi largo attraverso singole serrature e le chiavi le otteniamo studiando, affinando i nostri sensi, alimentando la curiosità: ma è solo il primo passo.

Piano piano, andando avanti ci siamo resi conto che quello della semplificazione non era l’elisir di lunga vita. Persino l’avvento della tecnologia ha contribuito ad alimentare l’illusione. Un mondo infinito ridotto a un codice binario, ma com’è stato possibile crederci! Come la mela primordiale: la mangi o no, on off, maschio femmina, vita morte, albero serpente. Il peccato originale è vegetariano, ahimè.
Abituati a schematizzare al ribasso ci siamo incartati nelle questioni complicate. Prendete la mafia. Ci hanno preso per i capelli e ci hanno sbattuto la verità, anzi la “verità”, in faccia: o con loro, o con noi.
Giusto, però anche in questo caso abbiamo pensato che gli scenari fossero semplici. Bianco o nero, non ci si può sbagliare, facilissimo. Lo confesso. Questo pensiero l’ho maturato in tarda età, quando ho cominciato a scrivere di mafia per il teatro. Il teatro vive di codici, l’arte matura tra gli opposti. Però la narrazione per come ci era stata tramandata era in bianco e nero, cioè non teneva conto delle infinite tonalità intermedie tra un opposto all’altro.
Era semplice e semplificata. E non teneva conto del colore più pericoloso e infido: il grigio.

Oggi, davanti a guerre inaudite, perché moderne e medioevali al tempo stesso, credo che si debba prendere atto che questa narrazione non funziona più.
Serve attribuire la giusta complessità alle cose, senza tuttavia cadere nella trappola del suo eccesso, il complessismo.
Serve una maggiorazione delle quote di pluralismo nei nostri consessi sociali, nelle nostri luoghi della politica, nei nostri luoghi della cultura (molto soffocati dalla paura della complessità che non sia meramente artistica, esecutiva).
Non può esserci un dibattito su Hamas, Gaza e Israele senza una base di difficoltà condivisa, chiara, esplicita, dichiarata.

Io non so, non capisco… Quindi se sono, tipo, Zerocalcare spiego perché diffido di Lucca Comics però non mi astengo, magari vengo solo per raccontare i miei dubbi e raccogliere i vostri.

Non ne sono certo, non sono certo di nulla (tranne delle mie papille gustative che mi fanno giudicare un cibo o un vino in modo per me incontrovertibile).
Il tramonto della semplificazione come salvagente allunga le ombre dell’incoerenza: possiamo cambiare idea, forse dobbiamo, perché i tempi ci impongono di farlo. I nuovi barbari non vengono da un Paese diverso, ma si sono armati nell’appartamento sopra il nostro. Il vero diverso non ha sesso e colore che non sono i nostri, ma un minore rispetto della vita, sua innanzitutto.  
Dovremmo rivedere i nostri riti, le nostre certezze domenicali, i nostri privilegi da tinello.
Prima di discutere dobbiamo imparare a recitare una preghiera laica che ci imponga di scambiarci i dubbi. Come segno di pace.

La privacy del moscerino

Perché gli scienziati stanno anni a violare la privacy di un moscerino? Perché allevano topi? Perché studiano una particolare tartaruga? Perché per ricerche che vanno dallo scorpione africano a una nuova navicella spaziale spendiamo un botto di soldi? Perché ci sono laureati pagati per scrutare il cielo di notte?
C’è una risposta breve che riguarda il nostro nuovo modo di comunicare: perché la scienza è il contrario di un social network in quanto guarda lontano, non è interessata alla compulsività e cerca dove nessuno ha trovato. Quindi in un mondo stratosfericamente diverso da una qualsiasi timeline.

La risposta più lunga invece riguarda la lungimiranza e la caparbietà. La dottoressa Katalin Karikò e il dottor Drew Wiessman iniziarono le loro ricerche sull’Rna messaggero una ventina di anni fa, quando il Covid non esisteva neanche nei nostri incubi peggiori. Nel 2023 hanno ricevuto il premio Nobel per una scoperta che fecero nel 2005. La loro ricerca, come quella di moltissimi altri scienziati, non si occupava di cose pratiche (brevetti, applicazioni immediate) ma di conoscenza e di comprensione dei fenomeni naturali. Funziona così nella scienza, lo sa chi ha studiato come sono stati scoperti i raggi X o gli antibiotici.
Guardare dove gli altri non hanno trovato.
Sopportare chi ti accusa di perdere tempo.
Schivare chi cerca la monetizzazione immediata.
Questo fanno gli scienziati e gli innovatori in generale, ma soprattutto gli scienziati, che stanno agli antipodi dei nuovi arroganti di cui parlavamo qualche settimana fa. Molto dobbiamo a questi discreti signori che spiano moscerini, allevano topi, seguono la vita di una tartaruga, tampinano lo scorpione africano perché hanno intravisto qualcosa. Sono persone che non solo hanno una testa (!!!), ma ce l’hanno che rimbomba di domande: come? Perché? E nel cercare una risposta costruiscono un mondo che può illudersi di essere migliore (dove chi studia sta al timone e chi non sa nulla prende ordini senza fiatare).

P.S.
L’ultima parentesi mi è scappata dalle mani, ma fate finta di niente…

Noi siamo Giorgia

Chi è passato per una frana sentimentale più o meno pubblica, chi ha assaggiato la polvere della maldicenza compiaciuta, chi non si è dovuto accontentare del naufragio amoroso ma ha dovuto sorbirsi pure la schiuma della sguaiatezza sa.
Sa quanto ha dovuto masticare acido Giorgia Meloni per le incaute scempiaggini del compagno. Sa che ci sono momenti in cui uno vorrebbe farsi disarcionare da ogni responsabilità e darsi all’oblio di un cielo terso e basta. E invece nuvole, nuvoloni bui.
Nessuno è esente dalla stoltezza e dall’imperizia, proprie e altrui. Per questo, concetti come normale e tradizionale per i sentimenti e i frutti di essi sono fallaci quando vengono branditi come bandiera o manifesto politico.
Perché normali e tradizionali sono anche il tradimento, l’odio, l’arroganza, l’ingratitudine.
Al di là delle indecorose ironie social, spero che finalmente oggi ci sia una Giorgia in più che, soffrendo per un brutto colpo alle spalle, possa sentirsi più donna, più mamma, più tollerante. E che possa ammettere con se stessa che la famiglia migliore è quella che regge alla prova dei fatti. Non conta il tipo di ingredienti (colore, sesso, religione), ma la loro qualità.
Per quel che so l’amore più resistente è fatto di rispetto tra i protagonisti e di tolleranza degli astanti.

Professione complessista

Sto provando a star lontano dal dibattito social buoni/cattivi a proposito dell’attacco di Hamas a Israele. E non lo faccio per saggezza o per evitare di farmi il sangue marcio, ma semplicemente perché non ci può essere un dibattito su questo tema. Una strage all’arma bianca, un proposito di sterminio di un popolo solo perché è quel popolo, un attacco vigliacco e sanguinoso in cui l’obiettivo non sono militari o uomini armati ma bambini e neonati, tutto ciò non comprende il dilemma buoni/cattivi ma al contrario lo esclude categoricamente. Perché dinanzi alla violenza cieca, quella inenarrabile, quella che ci fa rabbrividire solo al pensiero, non esistono le categorie umane. Siamo nel disumano.
E non funziona neanche la narrazione “prima quelli hanno fatto questo e quest’altro”, né il distinguo “sono contro la violenza però”. Quando ci si trova dinanzi all’orrore non esistono sentimenti, geografie, biografie, analisi politiche, acrobazie religiose, espedienti giornalistici o pseudo tali che possano in qualche modo giustificarlo.
Molti talk show televisivi (ma anche molti giornali), figli delle pulsioni social che garantiscono audience, sono il luogo dell’esercizio libero di una disciplina che, dai negazionismi storici ai no-vax, dal terrapiattismo al giustificazionismo antico e recente (dalla Shoah a Gaza), costruisce piccoli fenomeni che dovrebbero essere da baraccone e che invece diventano da baraccopoli della verità.
La chiave che questi individui usano (non voglio fare nomi e cerco di rimanere sui concetti anziché sulle persone) per scardinare la serratura della credibilità è il cosiddetto complessismo. Che consiste nel mettere in mezzo uno spaventapasseri (tipo un ragionamento di parte che spacciano per assodato, diffuso, ovvio mentre è prevalentemente farina del loro sacco), sradicarlo con un colpo di teatro e poi prendere il volo, ritenendosi leggeri e liberi, al di sopra di noi pecoroni semplicisti.

Il complessismo problematizza, contestualizza, relativizza, riduce e ingrandisce, sovrappone e isola, per fabbricare la nuvola di fumo più grande e densa possibile. Anche e soprattutto quando la vicenda è semplice, il complessista si nutre di retorica e usa frasi che possono essere fraintese. Solo in tal modo può sfruttare al meglio la seconda sua caratteristica, il vittimismo.
Il complessista brama per essere insultato, si siede sulla poltroncina del dibattito con la speranza che gli si tiri un uovo addosso, arriva in uno studio tv pregando di poterlo abbandonare indignato. Perché punta a una sola cosa: non dover mai essere costretto ad argomentare logicamente la catena di minchiate sulla quale costruisce la sua vita pubblica.
Se scoprisse interiormente di avere ragione forse si suiciderebbe. Ma accanto al corpo farebbe in modo di lasciare uno spaventapasseri.  

La violenza è l’arma dei perdenti

Cerco di dirlo in maniera semplice. Provo dolore solo a immaginare bambini sgozzati, donne violentate, anziani usati come ostaggi, esseri umani oltraggiati in vita e in morte. Non c’è un “ma” o un “però” che si deve frapporre tra un errore e il suo rimedio, tra un’accusa e la sua replica. Dinanzi a fatti acclarati c’è un on e un off.

Il mondo ideale di chi fugge da quello reale – che è orribile – non è fatto da chi passa la giornata a cantare messa, a inanellare distinguo o peggio a contrapporre culture, ma molto più prosaicamente da chi scansa il prete e decide di cambiare registro, da chi ragiona dopo aver ragionato. Nella politica, nel barlume di società civile, in quel che resta dei giornali (e qui via alla fuga forsennata dei like dei miei colleghi), nell’arte (idem, come sopra), serve un giro di boa che rasenti la modestia di un ragionamento semplice. I cattivi in fondo fanno il loro mestiere. Sono gli altri che fanno la differenza, che devono spiazzare, ammazzando l’unica cosa che va sterminata in tutti i campi di combattimento: il pregiudizio. Scovando il passo falso che si tende a nascondere. Non lasciandosi ingannare dalle versioni precostiuite. Abbattendo i muri dell’ideologia da slogan.

La violenza è l’ultima arma dei perdenti e degli incompetenti. Lo insegnano la storia, l’arte, il buon senso e molte altre good vibrations che non abbiamo il tempo di dipanare.
Però prima di sventolare bandiere o di aver timore di farlo, parliamone se abbiamo il coraggio