Via D’Amelio e la verità monca

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

È una sgradevole sensazione quella che ci prende quando ascoltiamo parole appassionate come quelle del pm Luciani che al processo di Caltanissetta tiene la sua requisitoria contro i poliziotti accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. È sgradevole non solo perché l’idea, la sola idea che uomini delle forze dell’ordine abbiano tramato per deviare l’inchiesta sulla morte di loro colleghi è urente come una coltellata in un corpo già ferito. Ma anche perché ci ricorda che quella che si sta ricostruendo con un ritardo inammissibile, proprio nel trentennale quell’eccidio, è una verità monca. Chiediamocelo senza infingimenti, come del resto fa da anni Fiammetta Borsellino: è mai possibile che il più grande depistaggio d’Italia sia stato orchestrato da quattro poliziotti senza che nessun magistrato si sia accorto di nulla? O meglio: è mai possibile che chi doveva controllare la regolarità delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia non lo abbia fatto e oggi se la passi liscia, senza manco una ramanzina?

Il sistema che ha mandato in tilt le indagini sulla strage Borsellino per 16 anni e che ha condizionato trent’anni di processi non può dipendere esclusivamente dalla libera iniziativa di un manipolo di uomini dello Stato: ce lo dice la logica. La realtà processuale che certifica implicitamente un “liberi tutti” per quei magistrati che potevano fermare in tempo le mefitiche panzane di Scarantino non può bastare per sanare la sete di verità dei familiari delle vittime e di tutti gli italiani che hanno a cuore la certezza del diritto: ce lo dice la buona creanza.
Via D’Amelio ci insegna che un megafono non parla da solo. C’è sempre una voce dietro. E finora ci hanno voluto far credere che a parlare siano stati solo i fantasmi.

L’antimafia neomelodica

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Sono da sempre favorevole alla cultura pop. Penso che il vero rimedio contro i sepolcri imbiancati non sia cambiare il colore, ma scoperchiarli: e in questo la decontestualizzazione di un messaggio di alto valore civile può essere utile. Ma ci sono dei codici ineludibili da rispettare: una qualunque cosa non è cultura pop, può diventarlo se si riesce a renderla differente da una cosa qualunque.

La partecipazione di Gigi D’Alessio al dibattito nel chiostro della questura di Palermo, nel giorno delle commemorazioni per la strage di via d’Amelio, suscita qualche perplessità proprio perché è fuori da quei codici. Perché se è vero che pur di veicolare un’idea di antimafia moderna è lecito ricorrere a personaggi simbolo, è pur vero che l’idea ci deve essere a priori e deve essere chiara. Soprattutto nel sancta sanctorum dell’investigazione e nel giorno in cui ci si stringe sul ciglio del cratere di Palermo.

D’Alessio era stato invitato in quanto esponente dei cosiddetti neomelodici, dopo il caso di un suo meno noto collega che in tv aveva detto che Falcone e Borsellino se l’erano cercata. Eppure non ha parlato né di mafia, né della strage Borsellino, né di legalità, non ha nemmeno condannato l’improvvido neomelodico di cui sopra. Ha attirato fan, certo: ma basta il “successo di pubblico” per definire l’evento come una missione compiuta?

La ricerca di nuovi modelli non deve far perdere di vista l’obiettivo che è quello di spiegare ai giovani cosa non gli è stato spiegato. O peggio ancora, cosa gli è stato raccontato male, magari con narrazioni storte, deviate. E per fare questo non credo che il personaggio migliore sia uno che qualche mese fa ha dichiarato: “Alla camorra ho regalato un sacco di canzoni”.

La cultura pop è un valore aggiunto non è il “liberi tutti” delle idee.

L’ultimo tribunale

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Quando il 4 ottobre 1994 presso Corte d’Assise di Caltanissetta si aprì il primo processo per la strage Borsellino neanche la più pessimista delle Cassandre giudiziarie poteva prevedere il groviglio di procedimenti che ne sarebbero scaturiti per i decenni a seguire. Tra ordini e contrordini, rivelazioni e allucinazioni, gradi di giudizio e tormenti di pregiudizio, di processi sull’eccidio di via d’Amelio se ne sono contati, sino a oggi, dieci. Ma il dato è ovviamente provvisorio, come solo gli errori perduranti promettono di essere. Le ultime indagini sui presunti depistatori – poliziotti o magistrati che siano – arrivano talmente in ritardo da far sì che il sentimento prevalente dinanzi a questo accatastarsi di verità sia quello della delusione.     

Per questo, maneggiando la storia dei misteri delle stragi del ’92 abbiamo scelto di inventarci una sorta di tribunale di fantasia. E di raccontarla, quella storia, nel posto che secondo noi, meglio di altri, poteva contenerla con i suoi drammi, le sue deviazioni, i suoi risvolti grotteschi, le sue fiamme raggelanti. Abbiamo scelto un teatro, un teatro lirico, il più grande d’Italia: il Teatro Massimo di Palermo.

L’opera-inchiesta scritta insieme con Salvo Palazzolo – s’intitola “I traditori” ed è recitata da Gigi Borruso, con le musiche di Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri e la regia di Alberto Cavallotti – è un’indagine sul palcoscenico che parte da un presupposto: nel luogo dell’arte, cioè nel tempio in cui si celebra il primato della fantasia, si può trovare la libertà che serve per provare a evadere dalle prigioni delle versioni preconfezionate. Spesso la verità del dubbio è più utile della certezza di uno slogan. E i dubbi nelle indagini sulle stragi di Capaci e di via D’Amelio non mancano. A cominciare da ciò che accade nell’immediatezza degli eccidi.

Passano poche ore dall’attentato in cui è morto Paolo Borsellino con gli agenti della scorta, e l’agenzia Ansa batte un take in cui c’è scritto che “fonti della polizia di Stato” sanno che l’autobomba è una Fiat di piccole dimensioni: “Una 600, o una Panda, o una 126”. Solo che ancora il blocco motore della macchina imbottita con novanta chili di tritolo non è stato recuperato (il ritrovamento avverrà l’indomani). E soprattutto ci vorrà un esperto della Fiat, fatto arrivare apposta dallo stabilimento di Termini Imerese, per capire che quell’ammasso di ferraglie appartiene proprio a una Fiat 126.  

I dubbi e le certezze. I primi ci accompagnano da ventisette anni, le seconde sono subito brandite da chi, come l’allora capo della Squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera, sa troppo e non si capisce perché. Come fa la polizia di La Barbera ad avere identificato in anticipo il tipo di auto usato per la strage quando l’unica traccia che resta di quel veicolo è un blocco motore che non è stato ancora recuperato?   

La Fiat 126 è importante nella nostra ricostruzione poiché è su di essa che poggia gran parte dell’impalcatura del depistaggio grazie al sistema dei falsi pentiti. Poco meno di un mese dopo la strage di via D’Amelio, una nota riservata dei servizi segreti riferisce alla direzione del Sisde che “la Polizia avrebbe acquisito significativi elementi informativi per l’identificazione degli autori del furto dell’auto, nonché del luogo in cui la stessa sarebbe stata custodita prima di essere utilizzata nell’attentato”.

Ancora lo stridere di dubbi e certezze.  Se i falsi pentiti Salvatore Candura ed Enzo Scarantino ancora non sono stati arruolati, come fanno la polizia e il Sisde a sapere dove è stata rubata la 126? E soprattutto com’è possibile che Candura e Scarantino siano a conoscenza del fatto che la macchina è stata prelevata dalle parti di via Oreto a Palermo, circostanza vera, se loro in realtà non c’entrano nulla con la strage?

Tenete conto che i dettagli che smaschereranno l’impostura del depistaggio, li svelerà il vero autore del furto della macchina, Gaspare Spatuzza. Ma lo farà solo quindici anni dopo l’attentato, nel 2008. Fino ad allora il circo dei veggenti metterà in scena, indisturbato, quello che i giudici di Caltanissetta hanno definito uno dei più gravi depistaggi della storia italiana. Ufficialmente, almeno sino alle latitudini giudiziarie a noi note, nessun magistrato tra quelli che hanno gestito le prime dichiarazioni di Candura e Scarantino (con l’eccezione di Ilda Boccassini), ha mai avuto sentore di imbroglio. La macchina della menzogna ha visto girare i suoi ingranaggi senza che mai qualcuno muovesse un dito. Oggi, ventisette anni dopo il boato, sappiamo che Scarantino, finto pentito inaffidabile per indole, per storia criminale, per physique du rôle, sta accusando del suo vergognoso indottrinamento solo un gruppuscolo di poliziotti a processo, come se i magistrati a quei tempi non ci fossero o stessero tutti a bocca aperta a tracannarsi l’intruglio allucinogeno preparato da La Barbera (che è morto da tempo e che quindi incarna l’essenza del colpevole perfetto). Fatto salvo il rito ecumenico dei rimbalzi di competenze giudiziarie che passa la palla da Palermo a Caltanissetta, a Catania, a Messina – in un gioco di fratelli coltelli dove scarseggiano i parenti e abbondano le armi da taglio – e che adesso con una sorpresona attesa ventisette anni vede indagati per calunnia due dei fulgidi pm di allora, Anna Maria Palma e Carmelo Petralia.

Certo se non ci fosse di mezzo una ferita al cuore dell’Italia, quella delle stragi del ’92 sembrerebbe una storia scritta apposta per essere raccontata. Del resto con i colpi di scena al momento giusto, con una galleria di personaggi dalla doppiezza cinematografica, con il succedersi serrato dei nodi della trama, la solidità del plot è assicurata.

Poche ore dopo la morte di Giovanni Falcone, due magistrati della procura di Caltanissetta entrano nella sua stanza al ministero della Giustizia, mettono i sigilli e fanno ciò che nessuno si aspetterebbe: lasciano lì i due computer all’interno dei quali ci sono tutti gli appunti del collega appena assassinato. Manco li degnano di uno sguardo. Ma non basta. Una settimana dopo, gli stessi magistrati tornano in via Arenula e dissequestrano tutto: (o)missione compiuta. Anzi stavolta l’effetto della loro disattenzione è ben più grave, dal momento che lasciano i pc incustoditi, alla mercé di tutti.

Stesso modus operandi a Palermo, dove a casa del magistrato in via Notarbartolo un computer portatile viene ignorato con pervicacia quantomeno sospetta.

Nella nostra messinscena siamo entrati nelle cartelle telematiche di Falcone e abbiamo constatato ciò che purtroppo era annunciato: qualcuno è entrato in quei file già il primo giugno del 1992 ed è tornato nei giorni seguenti, facendo quel che voleva. Tanto i computer non erano più sotto sequestro. Oggi sappiamo che da quei pc sono spariti i diari di Falcone.

Da un colpo di scena all’altro.

Per l’agenda rossa di Paolo Borsellino, un totem dei misteri italiani, la forma d’arte più adeguata sarebbe il balletto. Un balletto tragico magari con uno sfondo di seta tempesta rosso sangue. Perché le figure note e meno note che si aggirano attorno alla borsa che contiene l’agenda sembrano muoversi tutte sotto le direttive di un coreografo: del resto l’inganno è anche arte di movenze. Quel pomeriggio del 19 luglio 1992 poliziotti, carabinieri e funzionari dei servizi segreti mettono le mani sulla borsa, tirandola fuori dalla blindata in fiamme nella quale l’aveva riposta il magistrato, aprendola e rimettendola nel posto da cui l’avevano presa: cioè l’auto in fiamme.

Nella concitazione di quei momenti – lo scenario di via D’Amelio dopo l’esplosione è un inferno di lamiere, carne, fuoco, – due, tre, quattro persone, ognuna col suo distintivo, prendono la borsa dalla blindata che brucia, la aprono, rovistano, e chiamano in causa l’ex magistrato Ayala che era sul luogo: lui smentisce di avere mai avuto un ruolo in questo mistero inanellando però troppe versioni diverse, almeno secondo Fiammetta Borsellino.

Quanti danzatori oscuri nel cratere di Palermo.

La finzione teatrale per raccontare gli infingimenti dietro i quali la verità gioca a nascondino. Tra i mille rivoli in cui questa storia si disperde, un espediente narrativo che può essere utile nella sua trasversalità è quello del cambio di soggettiva. Perché non provarci? Sinora avevamo raccontato la storia da un punto di vista classico: i buoni e le vittime da un lato, gli assassini di Costa nostra dall’altra. Poi abbiamo deciso di cambiare inquadratura, scegliendo di guardare le cose con gli occhi dei mafiosi. Ecco cosa ha detto Gioacchino La Barbera, già componente della task force criminale che si è  occupata di preparare la bomba da piazzare sotto l’autostrada di Capaci poi diventato collaboratore di giustizia: “Mentre stavamo mettendo da parte l’esplosivo per l’attentato a Falcone, in una villetta di Capaci, notai una persona che non avevo mai visto, un estraneo. Questo tale arrivò con Antonino Troia, il capomafia di Capaci, parlò pure con Raffaele Ganci, il capomafia della Noce. Evidentemente lo conoscevano. Rimase in tutto dieci minuti, un quarto d’ora. Avevamo spostato l’esplosivo sul telone steso sotto la veranda. Non l’ho più vista quella persona. Penso che l’individuo non fosse di Cosa nostra perché poi non lo vidi più”.

Anche Gaspare Spatuzza, il mafioso che 16 anni dopo l’autobomba di via d’Amelio ha raccontato i misteri della strage Borsellino, ha fornito spunti interessanti. Il 18 luglio 1992 sta guidando la Fiat 126 (quella delle preveggenze di La Barbera e sodali) che dovrà essere imbottita di tritolo. “Non so dove dobbiamo andare. Io guido l’auto che mi avevano fatto rubare, la notte fra l’8 e il 9 luglio. Seguo Fifetto Cannella che fa da staffetta”. A un certo punto arriva in un garage dove si deve preparare l’autobomba. “All’interno vedo due uomini, uno è Renzino Tinnirello, della famiglia di Corso dei Mille, che mi viene incontro. L’altro è una persona sulla cinquantina, che io non conosco, perché non l’avevo mai visto. Intanto, arriva anche Ciccio Tagliavia, di Brancaccio, che in quel momento è latitante”. Un altro uomo misterioso sul luogo cruciale in cui si prepara il “botto” e per giunta in presenza di un latitante. “Non era un uomo d’onore, non era un mafioso, non l’avevo mai visto prima”, assicura Spatuzza, che ha dalla sua l’attendibilità di chi ha svelato l’impostura del falso pentito Scarantino.

I dubbi e le certezze. Le domande sulla reale identità di queste sagome misteriose fanno parte di un copione che sembra scritto anche per altri delitti eccellenti, precedenti alle stragi Falcone e Borsellino: Dalla Chiesa e i suoi diari scomparsi, i documenti trafugati a Peppino Impastato, il commissario Cassarà e la sua l’agenda rossa (un’altra agenda rossa!) che si volatilizza, gli appunti sottratti all’agente Agostino dopo che era stato massacrato assieme alla moglie sposata da un mese e incinta da due. La certezza è che c’è stato un metodo del delitto a Palermo.

All’antimafia non sono mai mancati i palcoscenici e anzi, in decenni che poi si sono rivelati cruciali per la credibilità di alcuni suoi protagonisti, si è assistito a una moltiplicazione di essi. Dal corteo alla tv, dallo slogan per strada all’articolo sul giornale militante, dal volontariato alla carriera, il treno movimentista della santa guerra (a parole) contro i boss si è lanciato a tutta velocità contro un obiettivo che si è rivelato sbagliato: dovevano essere i mafiosi, invece è stata una generazione sociale. Anche negli effetti è andata peggio del previsto: poteva essere binario morto, invece è stato deragliamento.

Forse è il destino delle storie storte, generare cantori sbilenchi. Forse c’è una luce piccola e seminascosta nell’abbagliante ribalta dell’eterno protagonismo istituzionale: i temi e i dipinti dei ragazzini che hanno visto “I traditori” con la scuola e che scrivono al teatro – sì al teatro –  come si fa a un familiare, “grazie, ora ne sappiamo di più”. Forse da qui si potrebbe immaginare il nuovo incipit di un’antimafia che è stata frutto da addentare dimenticandosi di dover essere seme.     

Il “tribunale del teatro” con la sua indagine sul palcoscenico non è argine né corrente. Non si sostituisce a nessuno né agisce per delega di alcuno. Brandisce l’unica certezza che si scorge, come terra emersa, da un mare di domande senza risposta. La verità del dubbio.

Un pugno nello stomaco

Con coraggio Il Post ha scelto di pubblicare le foto atroci del bombardamento chimico in Siria. Per un semplice motivo: nell’era della post-verità o di quella che potremmo chiamare veritezza, cioè un surrogato di verità che soddisfa solo le nostre aspettative, è fondamentale riprendere in mano il pallino della realtà. A Khan Sheikhun c’è stato davvero un attacco chimico. E ci sono state decine e decine di morti, molti dei quali bambini. Nonostante il governo siriano abbia negato ogni responsabilità, molti testimoni sul campo – di agenzie attendibili come Getty Images e Associated Press (tra le più importanti del mondo)  – dicono che l’attacco è stato compiuto dal governo del presidente Bashar al Assad o dalla Russia, suo alleato di ferro.
Questa foto è un pugno nello stomaco. E mi faccio quasi ribrezzo nel pubblicarla. Però può servire a ristabilire una verità.

Ne parlo anche qui. Ascolta il podcast.

 

Mi si nota di più se mi faccio i cazzi miei?

Non è roba dell’ultima ora. Sulla necessità di commemorare la strage di Capaci, sulla necessità di fare altro in un giorno di memoria, sulla necessità di evitare il blabla, sulla necessità di non raccontare dove eravamo mentre il tritolo dilaniava corpi e speranze, sulla necessità di trovare altre necessità per il 23 maggio si dibatte sin dal 24 maggio dell’anno precedente.

Una volta, un tale teorizzò da qualche parte il divieto di esibizione della memoria in occasioni come queste per non inquinare lo scenario di guerra. Era un’opinione talmente strampalata, perché confondeva memoria con ricordo, dolore con pregiudizio, lucciole con lanterne, che mi rimase impressa. Comunque il destino fu puntuale con questo propalatore a sproposito dato che lo cancellò dalla cache sociale e culturale in un contrappasso tutto sommato non ingiusto.

Oggi per quel che ho visto – e qualcosa l’ho vista – l’unica febbre che andrebbe misurata (e tenuta sotto controllo) in questi frangenti è quella del protagonismo di rimbalzo. Cioè il protagonismo dei non protagonisti. C’è questa strana tendenza, che partita dagli anziani contagia sempre più i giovani, a mostrarsi contro o disinteressati per salvaguardare, almeno nelle intenzioni, il valore di ciò che non si vuol seguire. Cioè, io vado al mare invece che sotto l’albero Falcone perché lì, in via Notarbartolo, c’è gente che in realtà pensa ad altro piuttosto che ai morti di mafia. Che è un bel cortocircuito logico: faccio altro per protestare contro quelli che presumo facciano altro. Un tempo si diceva “ci sono con lo spirito e non con il corpo”, oggi è “non ci sono perché non ci voglio essere, ma non si pensi che non mi interessa perché mi interessa più degli altri e per questo non ci sono, perché non ci voglio essere…” e via loop. Che è un passo avanti rispetto al “mi si nota di più se non vengo?” di Ecce Bombo. È: “Mi si nota di più se mi faccio i cazzi miei e lo dico?”.

La strategia del trampolino

trampolinoC’è un filo che unisce il leader della lega Nord Matteo Salvini con Luisa La Colla, consigliere comunale pd di Palermo. Non è ovviamente l’appartenenza politica, né la condivisione di un ideale. È quella che chiameremo la strategia del trampolino.
Funziona così. Agguantato un drammatico fatto di peso internazionale, lo si usa per prendere slancio saltando sempre più in alto in modo da centrare, grazie ad esso, l’obiettivo dei cazzi propri. Più praticamente, si cavalca un evento immenso per dar volume a particolarismi.
Così, fatte le dovute proporzioni, Salvini ha usato le stragi di Bruxelles per ribadire le sue minuscole tesi anti-immigrati, mentre La Colla si è ricollegata al terribile incidente stradale in Spagna per imbastire una campagna sul presunto superlavoro degli autisti dell’Amat.
Eccola quindi, la strategia del trampolino. Richiede coraggio, tanto coraggio, e una buona dose di equilibrismo logico. Rincorsa sulla notizia, molleggio sul suo impiego, e tuffo nell’ambito dei propri limitati interessi.
L’effetto non è scontato. Nel nostro caso, ad esempio, Salvini fa piangere mentre La Colla fa scassare dalle risate.

Dove stimiamo di atterrare tra circa mezz’ora

Itavia Ustica 1980

Sono molto sensibile, per questioni personali e professionali, alle notizie sulla strage di Ustica del 1980 (anche se – ripeto – con Ustica quell’omicidio di massa non ha nulla a che fare). Le ultime parole del pilota, che ho ascoltato per la prima volta oggi, mi danno l’idea di una tragedia ancora più grande: il colpo alle spalle, il tradimento, la menzogna di massa, roba da lama islamica e invece no, questione dietro l’angolo, casa nostra, insopportabile merda istituzionale. Ogni volta che leggo qualcosa sull’abbattimento di quel Dc9 dell’Itavia, sono catturato da un senso di inaudita impotenza che genera in me sussulti qualunquisti tipo: ma se Sabina Guzzanti invece di sparare cazzate atomiche su Riina e Provenzano, si fosse presa la briga di manifestare vicinanza nei confronti delle vittime oneste delle bugie istituzionali (con annessi traditori) non ci avrebbe fatto una figura migliore? Forse il vero problema del successo è che dà talmente alla testa, che la disconnette.

La speranza e gli onesti

Ricordare è celebrare. Trent”anni fa ero un ragazzo. Quando uccisero il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa ero con gli amici a fare baldoria. La notizia arrivò non so come, mentre eravamo stravaccati sui vespini parcheggiati in una strada di Mondello. Molti di noi nemmeno sapevano chi era Dalla Chiesa.
Un paio di giorni dopo mi capitò di passare dal luogo della strage e mi colpi quel cartello che sarebbe entrato nella storia delle grandi tragedie italiane. Non ho mai dimenticato quelle parole, e in principio le ho ritenute più che fondate. Col tempo ho riacquistato la speranza, ma credo che sia giusto tenere sempre a mente quella frase di disperazione. Per capire da dove proveniamo. E ricordare.

Quel che resterà

Due cose mi rimarranno nella valanga di parole, testimonianze, ricordi, ammonimenti di questo ventennale della strage di Capaci. Sono le testimonianze di due donne, donne diverse per età, formazione, mestiere.
Una è Letizia Battaglia e ha scritto:

In questi giorni si inaugura all’ambasciata italiana a Washington una mostra fotografica , dal titolo Un eroe italiano. Questa mostra l’ho curata io, scegliendo immagini mie di Franco Zecchin e di Shobha.
Tra queste c’ è una foto che mi è particolarmente cara, di cui sono fiera, realizzata da Shobha. Una foto orizzontale: a sinistra, c’è Falcone col suo sorriso timido, a destra ci sono io, in centro ci sono le nostre mani unite. A quelli di Washington non gliel’ho detto che quella donna sono io. Tanto non mi conoscono.

L’altra è Stefania Petyx, che ha scritto:

Oggi provo solo rabbia e dolore. Come ogni anno da quel 1992.
Nel mio piccolo l’ho detto in tutte le lingue e davanti a chiunque. L’ho detto anche davanti casa di quell’uomo di merda che 20 anni fa organizzò e pianificò quella maledetta bomba.
Anche oggi rifarei quella citofonata ma vorrei che stavolta Ninetta Bagarella avesse il coraggio di aprire.

 

Il regolamento di conti

Di volta in volta, con un crescendo rossiniano, i magistrati sono stati definiti “mentalmente disturbati”, sono stati accusati di essere “l’anomalia del paese” e “la metastasi del paese”, vengono considerati “un cancro da estirpare”, alcuni tribunali sono stati equiparati a “plotoni di esecuzione”.
Ed allora, al fine di evitare che “questa” magistratura, tacciata di essere del tutto inaffidabile e orientata decisamente a “sinistra”, continui ad amministrare giustizia contro il ”Paese” e non per il “Paese”, mirando a sovvertire per via giudiziaria il risultato del voto popolare del 2008, il precedente esecutivo ha pensato bene di mettere mano ad una riforma della giustizia, definita “epocale”, che, se fosse attuata nei termini in cui è stata pensata, appare non tanto una opera di restyling del Capo IV della Carta Costituzionale quanto, in realtà, un divisato e definitivo regolamento di conti con la magistratura da parte del potere politico.

Nel ventesimo anniversario della strage Falcone, il presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta non le manda a dire. Oggi su diPalermo.