E vissero volgari e contenti

Sono a casa, costretto da un problema di salute. Fuori è bello, dentro è bello incasinato. Come incasinati sono stati gli ultimi mesi in cui i miei attributi sono stati limati al limite della frantumazione da personaggi inaffidabili e congiunture astrali che sembrano architettate da un negazionista in crisi di astinenza di chip sottopelle. Leggo i giornali, come ogni giorno: solo che oggi è un po’ presto per un non mattiniero come me.
Caffè, musica. Metto da parte un bel libro che mi ha fatto compagnia in una notte selvaggia, ma solo di lettura (ahimè) in questo momento.
Oggi, per via della limatura di cui sopra, me la prendo comoda e così sarà ancora per un po’ almeno sin quando il capo della mia Centrale Operativa Corporea non deciderà di togliere il limitatore di potenza alle macchine.
Plano sulla timeline social e atterro sulla notizia che è morto un caro collega col quale ho condiviso venti-anni-venti di Giornale di Sicilia, lui capo della Cronaca di Palermo io capo della Cronaca Siciliana, migliaia di riunioni, pagine, telefonate, discussioni, sigarette (lui fumava il sigaro), nottate di lavoro.
Si chiamava Nino Giaramidaro e non ho voglia qui di fare il suo panegirico anche perché dovrei raccontare una mezza dozzina di episodi esilaranti (e istruttivi) che lo videro protagonista e che oggi preferisco tenere per me. E poi c’è in giro una buona quantità di ricordi di altri amici e colleghi che rende omaggio all’uomo e al professionista.
C’è però qualcosa che mi colpisce. Un pensiero. Un pensiero catalizzato da Nino e dal suo non esserci più. E non è una questione di ricordi, ma di presente, di attualità.
La sua gentilezza.
Nino Giaramidaro era una persona gentile: non era uno che sbrodolava, anzi era spesso tranchant nei giudizi, ma era di buoni modi. Ed era il bersaglio preferito di un condirettore che lo trattava talvolta con deprecabile prepotenza. Lui non ha mai reagito con una parola fuori posto: assorbiva il colpo e dato che non era un buon incassatore ne portava i segni per lungo tempo.

Mi faccio un altro caffè e mi metto comodo davanti al computer. Apro un foglio di Word e scrivo. Scrivo quello che adesso state leggendo.

Diciamo spesso che la verità non esiste. Invece esiste, esiste eccome.
Però quando se ne va una persona gentile, un granello di verità si perde. Perché la verità esiste in contrapposizione alla menzogna, e se la prima può essere sia buona che meno buona, la seconda è perlopiù cattiva.
Se si perde gentilezza, per omeostasi etica e sociale, ci guadagna la malvagità quindi per effetto diretto la menzogna.

È così che decido di riaprire i giornali e di rimettere mano ai miei appunti di cassettista maniacale per trovare ciò che so già che troverò: a conferma del fatto che non sempre un pregiudizio è un aborto di ragionamento.
Atterro sulle cronache di Cateno De Luca, leader di Sud chiama Nord la cui sguaiataggine è lo specchio fin troppo lucido di una politica di volgarità e di violenza verbale che non merita troppe parole: come la bellezza è un principio fragile, la bruttezza è refrattaria al ragionamento, quindi risparmio pensieri e punto e a capo.

C’è la scenetta del presidente del Consiglio Giorgia Meloni che si vendica della “stronza” datagli dal presidente della regione Campania Vincenzo De Luca: uno scontro al vertice del minimo gusto.     

C’è il reflusso acido della “frociaggine” di Papa Francesco: a conferma che il vento in chiesa non spegne solo le candele, ma anche certe fiammelle interiori.

C’è un ennesimo capitolo della saga che vede protagonista Gianfranco Miccichè, uno il cui massimo ragionamento politico verte sul “ce la possono sucare altamente”. Ora pare che il suo pescivendolo sia stato assunto come consulente per la pesca al Senato: a conferma che esiste anche una volgarità silenziosa del sistema, grottesca e paradossale.

C’è la storia dell’eurodeputato di Fratelli d’Italia Giuseppe Milazzo incluso tra gli impresentabili della Commissione parlamentare antimafia alle prossime elezioni europee. E anche qui l’effetto Giaramidaro ha i suoi effetti per contrappasso quanto a gentilezza. Uno dei più significativi atti politici di Milazzo risale al dicembre scorso quando l’esponente di FdI saltò fisicamente sul banco della presidenza del Consiglio comunale di Palermo, strappando il microfono dalle mani del vicepresidente Giuseppe Mancuso “per la mancata discussione del regolamento sulla movida, mentre le notti di Palermo venivano segnate dalla violenza”, scrive Repubblica. Insomma Milazzo nelle sue battaglie contro la violenza non è proprio un gandhiano (e mi viene l’urgenza di comunicargli, a scanso di equivoci, che Gandhi non è la marca di una pastiglia per lavastoviglie, quindi non gli ho dato del detersivo).

Ci sono altre notizie che l’enzima messo in circolo dalla scomparsa di una persona gentile mi colpiscono, ma a questo punto temo di arenarmi in una secca di pregiudizi dai quali sarebbe difficile tirare fuori un ragionamento non contundente. Non si può essere allo stesso tempo a favore della democrazia e tolleranti a lungo. Vorrei urlare di cacciare questi signori dal posto in cui si trovano, di non votare nessuno che non pratichi la gentilezza, di rifiutare ogni contatto coi protervi di potere. Però poi mi fermo e mi arrendo all’ultima riga, quella che segue.

La verità (come l’amore) non dipende dal giudizio, ma dalla decisione di sospendere il giudizio.

La politica, l’informazione e la merda

Avvertenza per il lettore: questo articolo contiene alcune parolacce pur volendo stigmatizzare la volgarità disinvolta nella politica e nell’avanspettacolo a essa collegato.

Da un paio di giorni il candidato alla presidenza della Regione siciliana Cateno De Luca è il reuccio incontrastato del web per via di un attacco a un giornalista che, a suo dire, sarebbe strumento di un complotto ai suoi danni ordito da poteri forti. Cioè un complotto messo su da un giornale talmente potente che, va detto, si ritrova da anni con le pezze al culo e che non ha nemmeno saputo difendere adeguatamente le sue tesi (e il suo cronista) nello specifico: quattro righe oggi e pezzo ritirato dal web (vabbè, ognuno sa come farsi male senza chiedere l’aiuto da casa).
Per dire che questa storia ha De Luca al centro di un vortice di volgarità inaccettabili, ma ha anche un adeguato corredo di errori compiuti dalla stampa siciliana.

Se vi dico che c’è differenza tra la politica e la merda la cosa può apparire scontata. Messi da parte i luoghi comuni che addossano ai politici tutti i mali del mondo, persino quelli atmosferici, ci dobbiamo però arrendere dinanzi alla constatazione che, a conti fatti, a una buona parte della politica questa differenza conviene non marcarla.
Perché è il cliente che chiede il prodotto: e se il prodotto è di scarsa qualità (quindi costa poco) ma rende tantissimo nessuno ha voglia di cambiare. È l’uso che fa legge. Anzi gregge.

Abbiamo più volte affrontato nel corso degli anni questo tema e abbiamo anche sperato in un improvviso rinsavimento della classe politica, ma dai “5 Stelle” in poi questo appiattimento sul fondo del barile si è talmente mescolato alla melma del residuo da non distinguere più l’idea dal rutto, il progetto dall’incubo, la strada maestra da quella per l’inferno.
Cateno De Luca mostra con orgoglio le cicatrici del suo essersi fatto da solo a forza di spallate, colpi di teatro, ingiurie, graffi e sputi al potere. E in questa pantomima costruisce un personaggio che non le manda a dire, che spedisce affanculo chi non la pensa come lui, che dice quello che pensa (dire quello che si pensa è la cosa più facile del mondo, la vera prova di maturità è l’opposto, filtrare, progettare, ponderare, ma su Facebook non fa engagement). Basta poco per capire che questi non sono valori in politica. Non lo sono proprio per l’essenza della politica stessa e del rispetto delle istituzioni.
Il bello/brutto sarebbe che se mai De Luca fosse eletto dovrebbe comportarsi in modo opposto, affrontare una nemesi epocale. Rispettando chi non la pensa come lui. Filtrando le intemperanze personali per garantire quella cosa che si chiama democrazia. Garantendo personalmente per ogni minoranza: culturale, politica, sociale, geografica, economica. Governando per il Pipitone di turno insomma.
Perché sarebbe questo il suo compito più difficile e importante: ma forse dovevo scriverlo in maiuscolo per essere ben compreso.  
Sbraitare va bene e frutta sui social dove ci si trastulla con migliaia di adepti di cui alcuni pericolosamente fuori controllo. Tuttavia quando si deve decidere del destino di sei milioni di siciliani non basta un bicchierino di amaro e via andare: “Pipitone pezzo di merda; cesso di personaggio; ti cavo gli occhi; so con chi vai a cena, con chi fai le vacanze”.
Oggi c’è Pipitone, domani c’è qualcun altro che non gli piace.

La stampa siciliana gli ha apparecchiato la tavola. Lo dico da giornalista, da precario a quasi sessant’anni che non ha mai preso un cazzo di sussidio e mai vorrà prenderlo (non sono ricco di famiglia purtroppo), da professionista fuori da ogni giro di interesse più o meno trasversale.

Il Giornale di Sicilia, nello specifico, ha le sue colpe. Che si trascinano da quarant’anni in una serie incredibile di errori, di sottovalutazioni, di connivenze, di porcherie verticistiche mai espiate. È stato il giornale del garantismo peloso per eccellenza, della lettera della signora Patrizia contro Falcone che disturbava con la sua scorta, delle interviste in ginocchio, del potere oltraggioso sul controllo delle notizie, di Giovanni Pepi e della sua angusta visione del mondo elevata a sistema sociale. Ma – questo De Luca lo dimentica o non lo sa nemmeno – è stato anche il giornale di Mario Francese, di una redazione orgogliosa che pur di pubblicare le notizie le nascondeva al condirettore Pepi (proprio così!), di un manipolo di resistenti che oggi lavora con lo stipendio quasi dimezzato.
Il GdS è solo uno dei pilastri franati sui quali si è inscenato questo disastro. Il panorama desolante dei siti nati dalla bolla internettiana del 2010 (o giù di lì) andrebbe recensito non tanto con l’ottica del giornalismo, ma con quella del buon gusto. Tra marchette senza ritegno e sfilata di dilettanti allo sbaraglio, la differenza tra servizio e servizietto è pericolosamente vicina (e mi costa dirlo) alla visione deluchiana del giornalismo. Ma di questo, lo prometto, parleremo un’altra volta.     
Anche alla luce di tutto ciò Cateno De Luca ci ha messo anni a costruire un personaggio ad hoc per i social, con eccessi ben calibrati e ottima capacità di inventiva. Ha cantato, si è spogliato, ha urlato, ringhiato, blandito le folle affamate di urla, ringhi, violenza verbale.
Si è però distratto da un tema fondamentale, che probabilmente si confessa ma non ha il coraggio di affrontare, oggi a frana in corso.
Il suo elettorato.
Lo ha forgiato a sua misura e non è un bene: basta leggere i commenti sui social che il noto candidato brandisce come un fucile col colpo in canna. Sono tutti appesi alle sue parole, anzi alle sue minacce. È tutto un fiorire di incitamenti a fare la rivoluzione, a vendicare un popolo oppresso. Oppresso dal nulla di una violenza cieca senza la quale nulla, in quell’universo, può esistere.
Mi piacerebbe essere smentito, ma oggi come oggi il (dis)valore di uno come Cateno De Luca sta nell’aggressione, nell’offesa, nello storpiare il cognome dell’avversario (un’antica “tradizione” siciliana a partire da Totò Riina che additava “Caselle” e “Violanti” ai suoi followers ante litteram). Non è incapace di dibattere civilmente piuttosto, realisticamente, sa che non gli conviene. Perché senza la carne cruda del massacro verbale tra i denti è digiuno di argomenti.
E il suo desco purtroppo è affollato.      

P.S.
Ho seguito la diretta del suo comizio ieri a Mascali. Guardatela e provate a trovare un briciolo di programma. Niente. Solo offese e basta.