Il clic non vuole pensieri

L’immagine (finta) “All Eyes on Rafah” che gran parte di quello che un tempo si chiamava “popolo del web” e che oggi si chiama “popolo dei social” sta condividendo è il miglior appiglio per ragionare sulle forme di mobilitazione virtuale che partono in genere come protesta contro l’informazione ufficiale, finiscono per diventare fenomeno, e atterrano sull’informazione ufficiale come fenomeno, godendone appieno: cioè usufruendo con soddisfazione di quella visibilità sui giornali di cui volevano fare a meno.
Già la distinzione tra “popolo del web” e “popolo dei social” è cruciale giacché presuppone una sorta di requisito di passività crescente nel passaggio dal primo stadio (web) al secondo (social). Qui il discorso rischia di complicarsi e non è il caso: è acclarato che una parte importante dell’utenza social tende a ritenere che la verità stia nella sua bolla, la stessa bolla che la isola e la affama di realtà oggettiva. Ma questo è il fenomeno delle “echo chambers” che qui diamo per assodato (chi non lo conosce, esca dal social e si informi su giornali ed enciclopedie, anche online).

Andiamo alla parte della mobilitazione virtuale, che è quella più drammaticamente attuale dato il contesto nel quale ci troviamo con conflitti sempre più difficili da decrittare.
Le rivoluzioni che un tempo chiedevano lacrime e sangue, oggi possono sostanziarsi anche solo di mobilitazioni e presenze. Già dal secolo scorso molte importanti battaglie civili sono state condotte con il peso della militanza nonviolenta (penso, senza andare troppo lontano, ai Radicali di Marco Pannella che non finiremo mai di ringraziare per aver preso per i capelli un Paese calvo di cultura e dignità).

Esserci e contarsi, lottare e abbracciarsi, conoscere e imparare a conoscere.
Questo è il punto.

La modernissima protesta con 50 milioni di condivisioni di “All Eyes on Rafah” è in bilico, per la sua stessa essenza di protesta virtuale (creata per di più da un’intelligenza artificiale), tra la profondità di un convincimento e la superficialità di un clic distratto. La declinazione moderna del così fan tutti è un cancro della socialità virtuale, figlio di quello stesso procedimento folle che ha portato al trionfo (reale) dei negazionismi, alla crocifissione dei fatti conclamati, all’umiliazione del merito e della cultura.
So bene che tra i milioni di persone che spalmano sulle proprie timeline quest’immagine evocativa ma illusoria ce ne sono molti che conoscono ciò di cui si sta parlando e che hanno un’idea precisa di quello che vogliono. Ma so anche che non è con la coltura estensiva di un cliché che si combatte per un nobile ideale.
Protestare, manifestare per la democrazia e per la pace (concetti legati) è uno degli atti fisici più amalgamati con la purezza del pensiero. Farlo come si deve, significa avere ben chiara la differenza tra le storie, le storielle e la Storia.
La ripetitività cieca, che sloga il polpastrello e intorpidisce tutto il sistema che ci sta a monte, non rischia di togliere valore al messaggio, ma di depotenziarlo del tutto.

Viene in mente il famoso “ponte di libri” di Bufalino quando sul Corriere della Sera lo scrittore siciliano scrisse quel che pensava dell’ennesimo progetto di ponte sullo Stretto di Messina. Solo che qui, oggi, i tempi sono ancora più bui poiché la circolazione delle idee è molto più liquida e il prodotto è molto più torbido.

Ci vorrebbe un decreto, con prova d’esame obbligatoria: prima di condividere, il candidato dovrà conoscere, studiare, documentarsi.
Ma capisco che è un’idea banale e poco divertente.
Il clic non vuole pensieri.     

Chiamata senza risposta

Racconto un’impressione, il succo di mie esperienze, e magari chiedo il vostro parere però argomentato cioè non “giusto” o “sbagliato”, non “minchiate” o “sante parole”.
È una cosa che riscontro ormai da un paio di anni, diciamo dalla pandemia in poi.

Prima la short version. C’è un ritirarsi dai contatti umani, una ricerca spasmodica della scorciatoia: messaggi, mail, brevi rimbalzi di frasi. Occhio: parlo di contatti in generale, quindi in primo luogo di cose di lavoro, di relazioni istituzionali, molto meno di affari privati (lì, in fondo, siamo quel che ci meritiamo di essere e vaffanculo).

Poi la long version. Mi appare sempre più lontana la logica interazione tra uno che chiede con tutti i suoi punti interrogativi e uno che risponde con tutti i crismi. I telefoni si ingolfano di chiamate senza risposta, le mail si perdono in tread senza un esito. Prima, sino a poco tempo fa, c’era il gusto anche perverso del contraddittorio: nella mia vita (fortunata) ho avuto scontri epici nelle aziende in cui ho lavorato ed estenuanti botta e risposta con amici, colleghi, compagne, familiari. C’era il piacere della scintilla che, va ricordato, serve sempre per accendere: che sia polemica, idea, amore, sempre fuoco è.
Oggi, da un paio di anni (come sopra), non è più così.
Come se una regina della rassegnazione si fosse impadronita dei territori della nostra vita sociale, tutto scorre senza scorrere. Gli intoppi delle risposte mancate generano laghetti di indolenza, i feedback sono grottesche emoticons, il luogo comune non è più né luogo né comune.
Il nulla.
Discussioni che potevano accenderci (e magari farci incazzare in modo memorabile) si arenano in una faccina whatsapp che rimanda a un deprimente “avanti il prossimo”. Dittature della mediocrità mettono al timone capitani abili del loro navigare nel nulla senza tener conto che nel nulla non si naviga, ma nel migliore dei casi si annega.

È un tema che ci riguarda tutti, come cittadini di città senza un cuore fuori dall’account Instagram dei suoi amministratori, come professionisti di aziende che spesso ridacchiano della meritocrazia, come esseri sociali pigri e rassegnati, come intelligenze che esistono anche lontano da una chat.
Non sono mai stato un nostalgico e – va detto – campo anche grazie alla tecnologia. A dispetto delle recenti suggestioni su intelligenza artificiale e affini, gli sgambetti più fastidiosi li ho (avuti) dagli umani. Che restano ancora la fonte principale delle mie delusioni e della mia felicità.
Ecco, alla luce di tutto questo dovrei farvi una domanda, ma in fondo è inutile che ve la faccia. Perché se vi siete riconosciuti in queste righe, come me cercate risposte, altro che domande.
Però grazie di questo minuto e mezzo di attenzione: un’eternità di questi tempi.