Questione di Fedez

Quella per cui “i musicisti facciano i musicisti e la politica faccia la politica” è una scusa lunga un secolo tirata fuori, come se fosse nuova, non appena un cantante osa pisciare fuori dal pitale dei temi consentiti. E non è censura – che quella almeno aveva una sua ragion di stato, non accettabile ma almeno chiara, esplicita nella sua granitica impenetrabilità – ma un pericoloso mix di grettezza, superficialità, incultura e arroganza.

Il cantante che spettina la realtà mette la sua arte al servizio della cronaca e, può piacere o meno, fa ciò che un pittore o uno scrittore fanno quando rielaborano il visibile o descrivono l’invisibile. Ripeto, può piacere o meno e per questo esistono sedi e modi appropriati per esprimere un giudizio (classifiche, indici di gradimento, eccetera), ma richiamare all’ordine un artista per un parere che quell’artista esprime proprio nelle sue vesti è un atto degno del mix di cui sopra.
Fedez fa esattamente Fedez, lo sai quando lo inviti. Se non ti piace non inviti, semplice.

Pensare di invitarlo solo per fargli fare ciò che gli riesce peggio, cioè cantare, è una follia.

La sua invettiva sulla legge Zan, su cui qui non mi dilungo (ne ho già brevemente discusso stamattina su Facebook), è semplicemente il frutto del suo lavoro di artista. Lui questo fa: sposa cause, le legge a modo suo, le cavalca, le fa entrare in un circuito mediatico che rispecchia in fondo la sua vena creativa. Non c’è da imbavagliarlo ma, se si vuole, lo si può recensire. Come si fa con tutti i cantanti.  

Un’obiezione, guardando al passato, potrebbe essere: sì, ma le grandi canzoni di protesta erano appunto canzoni, mentre questo Fedez declama. È vero, non siamo a We Shall Overcame, (l’inno del movimento per i diritti civili degli afroamericani e delle lotte sindacali, studentesche e pacifiste di mezzo mondo, dalla Spagna franchista al Sudafrica segregazionista), né a The Star – Spangled Banner suonata da Jimi Hendrix a Woodstock (quando il chitarrista inserì nel brano i suoni che richiamavano la guerra del Vietnam), ma ogni tempo ha i cantori che si merita e oggi la musica ha bisogno di nuovi mezzi, anche logici e verbali, attraverso cui essere veicolata.

Molto modestamente penso che un artista è tale in ogni sua visione della vita, non gli si può chiedere di guardare alle cose del mondo soltanto quando indossa l’abito di scena, altrimenti diventa un’altra cosa. Un ragioniere (con rispetto per i ragionieri). O un giullare della politica (con rispetto per i giullari e per la politica, a patto che stiano in banchi separati).

Gasparri, Twitter e la nudità democratica

Uno dei (pochi) vantaggi dei social network è quello che chiamo nudità democratica. Preso un essere umano dotato di dita e tastiera, gli si dà la possibilità di dire la sua su ogni questione, di interagire con ogni altro suo simile e di farlo (o poterlo fare) in qualsiasi ora e contesto. E soprattutto senza filtro.
Questo meccanismo innesca una reazione a catena che è tanto più dirompente quanto il solco tra i colloquianti è ampio. Tipo: due lumpen che si scazzano tra di loro dà noia persino al più onanista del social fighting. Stesso effetto tra due calciatori (spesso omologabili ai lumpen per ricchezza di argomentazioni e finezza verbale). Ma se mettete un parlamentare, tipo il vicepresidente del Senato Gasparri, e la fan di un rapper tipo Fedez, il gioco è fatto.
Il social denuda democraticamente il potente che altrimenti resterebbe coperto da una coltre di addetti stampa, portavoce, consiglieri e consigliori. Niente filtro e cazzi suoi.
Chi è causa del suo tweet pianga se stesso.