Noi siamo Giorgia

Chi è passato per una frana sentimentale più o meno pubblica, chi ha assaggiato la polvere della maldicenza compiaciuta, chi non si è dovuto accontentare del naufragio amoroso ma ha dovuto sorbirsi pure la schiuma della sguaiatezza sa.
Sa quanto ha dovuto masticare acido Giorgia Meloni per le incaute scempiaggini del compagno. Sa che ci sono momenti in cui uno vorrebbe farsi disarcionare da ogni responsabilità e darsi all’oblio di un cielo terso e basta. E invece nuvole, nuvoloni bui.
Nessuno è esente dalla stoltezza e dall’imperizia, proprie e altrui. Per questo, concetti come normale e tradizionale per i sentimenti e i frutti di essi sono fallaci quando vengono branditi come bandiera o manifesto politico.
Perché normali e tradizionali sono anche il tradimento, l’odio, l’arroganza, l’ingratitudine.
Al di là delle indecorose ironie social, spero che finalmente oggi ci sia una Giorgia in più che, soffrendo per un brutto colpo alle spalle, possa sentirsi più donna, più mamma, più tollerante. E che possa ammettere con se stessa che la famiglia migliore è quella che regge alla prova dei fatti. Non conta il tipo di ingredienti (colore, sesso, religione), ma la loro qualità.
Per quel che so l’amore più resistente è fatto di rispetto tra i protagonisti e di tolleranza degli astanti.

Sul diritto di faziosità

Moltissimi giornalisti – io sono tra questi – nella loro carriera hanno avuto a che fare con scelte editoriali contestabili, persino odiose. È nei poteri del direttore scegliere cosa scrivere, come scriverlo e se scriverlo, inutile girarci intorno.

Molto spesso la parola censura viene usata a sproposito dentro e fuori le redazioni, perché un giornale (e in generale una testata giornalistica) vive di scelte. E anche le scelte più impopolari, se guardate con altri occhi, possono essere viste come scelte di comodo o addirittura di saggezza. Insomma esistono manuali di giornalismo, ma non di prudenza. E per fortuna, perché il nostro mestiere è fatto ogni tanto di colpi di testa, di idee balzane, di piedi nella minestra.

Leggendo del caso Petrecca a Rainews viene a galla l’unica eccezione rispetto a tutto questo ragionamento. Che ha a che fare con la realtà dei fatti. Quando un direttore vuole cambiare la realtà dei fatti, siamo dinanzi non già a una censura bensì a una cazzata. Tagliare non serve a servire un padrone. Ragionare sī. 

Anziché sfrondare i servizi su La Russa, Facci e Roccella vari, un direttore iperfazioso o fortemente asservito ma abile avrebbe potuto arricchire il suo tg di contropareri, di editoriali, di dettagli. La notizia come un ingrediente della minestra, più ce n’è meglio è. Anche i palati più raffinati (o diffidenti) possono essere ammaliati da un piatto ricco, magari troppo ricco. È una visione cinica lo so. Ma è realistica e soprattutto pratica. Il giornalismo romantico ormai esiste solo nei film: e ringraziamo il cielo che esiste ancora il giornalismo e basta.
Insomma ragionare, anche in termini fastidiosamente obliqui, non ha controindicazioni. Bisogna solo avere la capacità di farlo. 

Gli spaventati del presepe

Non parliamo dei risultati elettorali. O meglio ne parliamo ma da un’altra angolazione. Cercando di spiegare come siamo arrivati a oggi. Niente politica, promesso. È una storia che mi è venuta in mente ieri, leggendo alcuni post su Facebook dove c’erano molte persone che si meravigliavano del fatto che tutta questa destra nelle loro timeline non l’avevano vista e che sospettavano che magari molti avessero votato di nascosto Meloni per poi far finta di nulla, fischiettando su Facebook.

È una storia che la dice lunga su quanto non sappiamo dei mezzi che usiamo, su quanto ci illudiamo di padroneggiare e su quanto dovremmo investire in conoscenza, studio e buona creanza, prima di meravigliarci per il poco di cui non c’è proprio nulla da meravigliarsi. Buon ascolto.

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Gery Palazzotto
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