Le fatiche di Salvini

Nelle ultime ventiquattro ore il ministro delle Infrastrutture e dei trasporti Matteo Salvini ha twittato sulla morte della moglie di Lino Banfi (“una preghiera”), sul sindaco leghista di Cinisello Balsamo che ha sgomberato un edificio occupato da un collettivo (“bene”), su Mario Giordano che replica a Fedez (“applausi”), sul collega Valditara che ha attaccato una preside per la sua lettera antifascista (“avanti tutta”), sulla Fornero – una sua ossessione – che vuole tassare i ricchi (“marziana o marxiana?” ), su una ragazzina iraniana picchiata perché non indossava correttamente il velo (“vergogna”), sulla sentenza per la tragedia di Rigopiano (“vergogna”).

Poi si è preso una pausa dal lavoro.

Le cose vanno sempre peggio?

L’altro giorno una persona che ha lavorato con me in vari progetti artistici mi ha chiesto: non hai anche tu la sensazione che le cose vadano sempre peggio?
E io, che lo pensavo da tempo, ho risposto ovviamente di sì.
Ora, sono sicuro che se faccio questa domanda a ciascuno di voi otterrò una maggioranza di risposte positive. Ma prima serve un’altra domanda: esiste un’oggettività, una sorta di livello attendibile, che certifichi che effettivamente le cose vanno peggio?
E soprattutto l’errore può avere un sua visione romantica?
Ognuno risponda valutando i cazzi suoi. Romanticamente, of course.

Qui tutti gli altri podcast.

Gery Palazzotto
Gery Palazzotto
Le cose vanno sempre peggio?
Loading
/

Armiamoci

Ci si abitua a tutto, tranne che alla cialtronaggine. Con Berlusconi ci siamo allenati abbastanza, soprattutto da queste parti, come se nel nostro destino fosse previsto un Salvini arrogante e menzognero. Comunque sia, dobbiamo andare avanti in quest’epoca di passi indietro: un sindaco che si sbraccia per l’accoglienza condannato come se fosse un mafioso (e forse più); una funzionaria di polizia che s’inventa pasionaria al di sopra delle regole; un fustigatore a mezzo social di presunti vizi e grottesche virtù che s’impiglia nei vizi e si sniffa le virtù.

La questione Salvini è importante da decrittare perché spesso la comunicazione istantanea dei social e la rapidità di reazione del web tendono a tritare contenuti e contenitori, codici e trucchi.

Oggi Salvini, dopo la condanna di Mimmo Lucano, ha fatto due tweet in cui maldestramente usa un espediente logico-comunicativo noto come strawman argument (ne abbiamo parlato undici anni fa, pensate un po’). In cosa consiste? Semplice: quando l’argomentazione dell’interlocutore è difficilmente attaccabile se ne fa una copia truccata e si incanala la discussione su quel binario morto. In modo che alla fine si svii il flusso polemico ai piedi dell’argomento spaventapasseri e ci si dimentichi del vero problema.

Con Morisi, imbarazzante esempio di come predicare bene e razzolare malissimo, Salvini è comunque perdente. Quindi ecco lo spaventapasseri: Mimmo Lucano, il condannato in primo grado per il quale non vale il garantismo peloso di Lega e correi. E gli argomenti che servono a sviare l’attenzione dall’inequivocabile (Morisi, droga, prostituzione, immigrati, eccetera): invece di dare la caccia agli omosessuali pensino ai criminali (tipo Lucano, eh!); il paladino dei radical chic guadagnava illecitamente sugli immigrati e invece tutti impegnati a fare i guardoni in casa altrui.

È chiaro anche a un bambino che l’accostamento tra gli ambiti è arduo, e anche da farabutti. Solo menti mal strutturate o peggio in malafede possono recepire un messaggio così storto. È come dire: mentre un poliziotto guarda le mie mani insanguinate, nessuno si occupa della fame nel mondo. E anzi il paragone è ben più calzante rispetto a quello proposto dal figlio/padre/padrone della Bestia.

Sapere, conoscere, informarsi è il nuovo porto d’armi contro le aggressioni di una criminalità del pensiero. Che spaccia idee violente, promette la riscossa dei lestofanti e non si cura della realtà.

Armarsi di cultura è un buon modo per (tentare di) resistere. Lo so, è noioso, ma ogni forma di resistenza ha i suoi punti deboli…

Si fa presto a dire Ponte

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Più della scomparsa delle mezze stagioni, oltre la differenza tra caldo secco e caldo umido, meglio della constatazione che una volta ci si divertiva con poco, la discussione sul Ponte sullo Stretto ormai surclassa tutte le discussioni riempitivo. Solo che quando la recrudescenza dei luoghi comuni filtra dalle chiacchiere da ascensore al dibattito politico, bisogna stare molto attenti. Soprattutto se si parla di un’opera che è già costata più di trecento milioni di euro pur non essendo mai stata realizzata. Un record insomma. L’altro giorno il governatore Musumeci ha ribadito che il Ponte si farà perché “questa telenovela deve finire”: cioè con inconsapevole senso dell’humor ha usato una telenovela per scacciarne un’altra. Ma fa niente, quel che conta davvero è trovare un riempitivo che vada bene con qualunque contesto politico quando la discussione langue. E il Ponte è la pietra angolare di tutte le battute da bar travestite da dichiarazioni programmatiche. Quando la politica era un’altra cosa, cioè almeno avanspettacolo puro, Berlusconi arrivò a presagire la posa della prima pietra: era il 2002 e credevamo di averne viste abbastanza. Ma si sa, l’ottimismo è la migliore dote degli ingenui. Così oggi derubrichiamo a barzelletta la capriola logica del Movimento 5 stelle che, nel giro di pochi anni, sono riusciti a far transitare l’opera dalla categoria “presa per il culo” a quella “simbolo della ripartenza”. E poi il dibattito sul nome. Salvini vorrebbe chiamarlo Ponte Draghi, Musumeci lancia la suggestione del Ponte Ulisse. Un buon compromesso, in onore della storia che ammanta quest’opera che non c’è, sarebbe chiamarlo Ponte delle Chiacchiere. A campata unica tra un luogo comune e l’altro. 

Odio per odio

A mia memoria è una delle vicende più difficili da digerire, elaborare, sulla quale cercare di raggranellare i pensieri senza perdere il filo. Perché quella della Sea Watch e della sua capitana Carola Rackete è purtroppo una storia perfetta di odio elargito come se fosse oro, di disfattismo un tanto al chilo e di confusione istituzionale ben orchestrata.

Il braccio di ferro tra un ministro razzista, rappresentante di un’Italia infelice e feroce, e una ragazza fragile negli anni e nel ruolo (proviamo noi tutti a capire cosa significa avere una simile responsabilità, davanti ai denti aguzzi del mondo) è il simbolo di una realtà grottesca in cui tutte le bilance sono state truccate: quelle della giustizia, dei valori, della politica.

La capitana, sfiancata da diciassette giorni di attesa in mare, mica all’hotel delle terme, ha ceduto al più umano degli errori: sbagliare mentendo a se stessa, credendo cioè di avere ragione. E ha consegnato la partita ai suoi avversari, che hanno vinto a tavolino. Da lì, il finale tragicamente scontato: il fiume dell’odio si ingrossa, travolge tutto e tutti, basta ascoltare le parole di quei quattro delinquenti di Lampedusa che hanno vomitato sul comandante Rackete (che qualche coglione maschilista chiama Carola, come se fosse sua sorella) lo schifo dello schifo. Il rischio è che restino solo queste impronte sulla sabbia di un deserto di umanità che ci procurerà vergogna eterna, e spariscano i segni dell’altruismo di chi salva disperati in mare, il coraggio di chi addenta i propri trent’anni e va a lavorare dove nessuno vuole andare, il bel gesto di Sinistra Italiana, Pd e Radicali che, sfidando la derisione di questo Paese di merda, hanno difeso un principio universale salendo e restando sulla Sea Watch (facendo realmente qualcosa di sinistra).

Se resteranno solo i tweet del ministro razzista e le urla dei quattro derelitti sgrammaticati di Lampedusa (un’isola che non li merita) la storia dovrà essere raccontata in un altro modo. C’era una volta la terra della civiltà che, rapinata dei suoi valori e turlupinata dai signori dell’ignoranza, credette di diventare culla di un nuovo diritto e invece morì nella solitudine dell’odio.      

In difesa della parolaccia in politica

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Gianfranco Miccichè nella sua scoppiettante gestione delle antipatie ha riportato sulle pagine dei giornali un’antica pratica della politica, quella del turpiloquio. Già vent’anni fa Umberto Eco, in una sua celebre “Bustina di Minerva” aveva rivendicato “il diritto di usare la parola stronzo in certe occasioni in cui occorre esprimere il massimo sdegno”. Guarda caso, la stessa parolaccia usata dal presidente dell’Ars contro il suo bersaglio preferito, il ministro dell’Interno Salvini. Oggi molto è cambiato, soprattutto nella gestione dei messaggi pubblici. I social network hanno tracciato la nuova via: non importa cosa dici, ma come lo dici; non serve il concetto, ma la confezione giusta.

La prudenza di un tempo, quando il turpiloquio usato con acume poteva regalare effetti esilaranti con risultati efficaci, è stata sepolta sotto l’esigenza di colpire e affondare il prima possibile. Nell’èra della rabbia cieca la parolaccia è un mezzo arcaico per farsi largo nelle sabbie mobili della ragion perduta. È per questo che, se ci si muove senza i paraocchi del neo-bigottismo, il turpiloquio può essere visto come una sorta di antidoto contro il nullismo della menzogna, contro il mondo parallelo degli imbroglioni tutti clic e claque.

Lo “stronzo” al nemico politico non è certo un esempio di eleganza, ma ci costringe ad ammettere che c’è volgarità e volgarità. Negli ultimi dieci anni le nostre capacità espressive, il potere combinatorio della sintassi, il fascino della metafora, la carica creativa e non violenta della nostra aggressività sono state piallate da una nuova forma di linguaggio che punta a verità bastarde. Internet è il luogo dove non ci sono livelli, ma un amalgama che avvolge e corrompe senza apparente possibilità di scampo. La volgarità di una battuta analogica – cioè pronunciata da un essere senziente e consapevole, non da un bot o dal fake di qualcuno –  ha almeno il vantaggio di suonare come uno schiocco di dita davanti agli incantatori del web. Poiché in un onesto rapporto causa-effetto mette di fronte i contendenti tarandone la sensibilità, l’aderenza alla realtà. Ecco la differenza tra tipi di volgarità. C’è quella che impatta e quella che si traveste e si insinua. La prima era celebrata da Churchill senza troppe metafore: “Chi parla male di me alle mie spalle viene contemplato dal mio culo”. La seconda è un allarme sociale poiché ha a che fare col culto della menzogna. E lì non basta il più sonoro dei vaffanculo. 

Se Salvini si frega da solo

La rincorsa a spernacchiare Salvini con dirette web in cui ci si finge selfisti ma ci si rivela belve azzannanti ci spiega tutto dei social. Il limite tra sostanza da militante ed evanescenza da esibizionista è labilissimo: i social sono affamati di nuovi eroi, da incoronare nel nome di uno sberleffo al potente. Solo che nel caso di Salvini il fenomeno è più tragicamente interessante. E’ stato infatti lui il primo a usare Facebook e Twitter in modo contundente, scagliandosi, da ministro e vicepremier, contro privati cittadini, deridendoli o addirittura, come nel caso di Saviano, esponendoli a ritorsioni.
Morale purtroppo doppia: è grottesco vedere ragazzini celebrati come fenomeni solo perché hanno avvicinato con l’inganno il Potente e lo hanno accoltellato fugacemente a tradimento; è plausibile che questo meccanismo il Potente se lo meriti dato che quella miccia l’ha accesa lui (con l’aggravante di fare il forte coi deboli).

La divisa che divide

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica.

Qualcosa da dire sull’agente che l’altro giorno a Partinico ha firmato, mentre era in divisa, l’appello per la Lega di Salvini. Lasciamo da parte la liceità dell’atto – ci sono accertamenti amministrativi in corso – e ragioniamo su ciò che quel gesto tramanda. Certo, secondo il leghista Igor Gelarda, si tratta di affetto per il ministro: praticamente una via di mezzo tra l’ostentazione di una fede politica e il “com’è umano lei” di Fantozzi. Ma secondo la restante parte del mondo, quella che vede in un poliziotto un simbolo di unità e uguaglianza, si tratta di un atto imbarazzante o addirittura irritante. Non sono più tempi in cui ci si può consentire di confondere un atto di fedeltà al capo con uno alla patria. Se un poliziotto firma con ostentazione il sostegno a un partito, la restante parte del mondo (sempre quella lì) ha il diritto di dubitare della sua imparzialità. Perché esistono mestieri in cui è fondamentale identificarsi con l’istituzione che essi rappresentano e non con le persone fisiche che li svolgono. È una questione di credibilità.

Prima il cassonetto

Cerco di essere chiaro. La decisione di Orlando di sospendere l’applicazione del decreto sicurezza sugli stranieri è un’espressione di alta civiltà che mira ad arginare una svolta razzista da molti cittadini inopinatamente invocata. E non valgono argomentazioni superficiali tipo “vabbè è una legge regolarmente approvata eccetera” giacché in passato anche (altre) leggi razziali furono “regolarmente approvate” e finì come finì. Non mi dilungo sui principi di incostituzionalità ventilati (tipo la discriminazione per chi ha il permesso di soggiorno in scadenza) ma sottolineo l’esilarante parallelismo tra munnizza e migranti, come se un’emergenza fosse in concorrenza con l’altra. Prima dell’accoglienza ci sono i cassonetti, strepitano i cripto-razzisti da cultura social. Non è così che funziona il mondo. Il mondo con la sua congerie di sentimenti è multitasking: è bianco e nero, è destrorso e mancino, è cultura tra le macerie e ignoranza da salotto, è ricchezza di argomenti e povertà di idee. Tutto contemporaneamente. Brandire lo slogan “prima il cassonetto” come conseguenza logica del “prima gli italiani” significa aver abboccato alla becera fandonia secondo la quale trenta morti di fame, al gelo di una deriva in pieno Mediterraneo invernale e incazzato, sono una minaccia per la sicurezza nazionale. Mentre la vera minaccia l’abbiamo tra noi, come un cavallo di Troia. Ed è la nostra violenta ignoranza.

Nuova malvagità democratica

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Ha viaggiato dal Regno Unito alla Norvegia, dagli Usa alla Russia e al Libano. Ha incontrato, tra gli altri, un uomo che minaccia di uccidere gli immigrati, una ragazza che ce l’ha a morte con Lady Gaga, un sostenitore di Trump che vorrebbe Hillary Clinton in cella e una russa secondo la quale c’è un piano dei gay per conquistare il mondo. Kyrre Lien, giornalista che vive a Oslo, ha indagato per tre anni sull’odio in rete. Coi risultati della sua inchiesta ci ha fatto un documentario intitolato “The internet warriors” cercando di discutere con “persone che passavano ore e ore a scrivere commenti online” una delle quali, una sorta di recordman, ne aveva postati più di mezzo milione. Da questa esperienza Lien ha tratto due profili di haters: “Quelli che odiano perché sono disoccupati e hanno tanto tempo a disposizione o perché hanno un livello culturale molto basso, e quelli che in qualche modo si sentono trascurati”.
Sin qui tutto straordinariamente normale, come normale è la trazione cardanica delle frustrazioni nell’anno di grazia 2018 e straordinario è il boost di carburazione dei social network.

Continua a leggere Nuova malvagità democratica