Vannacci nostri

Una frase chiave. “Le leggi imbrigliano le azioni, non le opinioni o le idee, questo succede nelle tirannie… Ho espresso dei pareri che rimangono nel perimetro del legittimo, di ciò che la nostra legge ci consente”.
La legittimazione del Vannacci pensiero emanata dal Vannacci eurodeputato nel nome del Vannacci generale che è anche il Vannacci scrittore è l’esca della tagliola.
Perché attira con argomenti semplici e apparentemente innocui nella melma del “si può dire tutto purché non sia reato” e del conseguente “sono fatto così, dico quel che penso” (una delle frasi che normalmente mi fanno fuggire appena la ascolto).
Il Vannacci che è in noi è molto in noi.
Basta andare a scorrere le frasi cruciali del suo Mein Kampf in salsa spezzina per ritrovarci semi primigeni di una malapianta che vede il generale come frutto guasto.
Il concetto di normalità innanzitutto.
Il pensiero del FariVannacci si richiama ai “valori comuni” che albergano solo nella sua aia mentale giacché in natura, come in biologia e nella scienza in generale (che ha il difetto di essere universale al contrario della parola di un ducetto che si alza col piede sbagliato) non esistono. La confusione tra normalità “condivisa dalla stragrande maggioranza” e legge di natura per il generale è strabordante: tipo, io ho gruppo sanguigno di tipo 0, il più diffuso, quindi sono normale; la mia amica che è di tipo AB, molto meno diffuso, è anormale.
È su queste basi fragili che si costruisce il pensiero forte di un’Italia gretta e soprattutto ignorante. Un’Italia inopinatamente presente: a noi!    

E poi c’è l’immancabile machismo – del resto siamo sempre nel partito che puntò il suo primo slogan strategico su “la Lega ce l’ha duro” – per cui il super militare della Folgore che ha conquistato e sbaragliato a più non posso è il miglior testimonial del cazzo duro usato come testa di ariete per sfondare le barricate del nemico (testa e cazzo qui si affiancano per spontanea attrazione, nda). Solo che il FariVannacci fa finta di non sapere che la quasi totalità dei suoi trofei stanno lì perché a sporcarsi le mani di sangue e piombo, sul campo di battaglia, c’erano molte donne e molti non-machi, insomma molti anormali. Coraggiosi militari che magari non hanno il coraggio che serve per la guerra più crudele, quella contro il pregiudizio dei FariVannacci che infestano il pianeta.

In più, le disquisizioni da taverna sulla famiglia tradizionale per cui “se la famiglia esiste da millenni sotto la forma tradizionale un motivo ci sarà” sottendono un’allarmante forma di ignoranza: basterebbe studiare un po’ di storia per ricordarsi che sulla famiglia tradizionale non si è costruita un’opera d’arte che sia tale. Da millenni, romanzi, epiche, lirica, pittura, scultura, musica narrano ciò che non è “normale”, non è ordinario, non è tradizione blindata.
L’arte esiste proprio perché non siamo tutti Vannacci, per fortuna.

Infine la porzione più difficile e pericolosa di questo ragionamento.
A parte la ridicolaggine di certe nostalgie fasciste e il corredo di nefandezze a cui si ricorre (vedi Salvini, che riesce nell’impossibile cioè perdere a Pontida) pur di filtrare qualcosa di utile dalla merda, il Vannacci che è tra noi ha un effetto collaterale sul pensiero ordinario.
Il suo fascismo sorridente e la sua carezzevole cialtronaggine ci inducono per reazione a cedere a una falsa universalità che mette aggressori e vittime sullo stesso piano.
Non è così. E non deve mai essere così.
Le vittime sono vittime e i carnefici sono carnefici. In ogni conflitto, dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, da New York allo Zen.
La responsabilità è un muscolo, e va allenata.
Il Vannacci che è tra noi è un’ingessatura che pare che sani. E invece storpia.

Peana per Cuffaro (e ce ne vuole)

Prima incantava: come un pifferaio magico, decine di migliaia di adepti lo seguivano guadando assessorati, scavalcando segreterie, rimbalzando da un favore all’altro.
Poi cadeva: come un eroe storto, l’arena ammutoliva confidando in una rapida espiazione o chissà in una resurrezione.
Poi si rialzava: come un apostolo di se stesso ritrovava coi giusti tempi (teatrali) vigore e ostentata saggezza.
Sulla parabola di Salvatore Totò Cuffaro si è pronunciato l’universo mondo, dai detrattori delusi, perché un altro che assorbe i colpi come lui devono ancora inventarlo, agli adoratori ringalluzziti, perché un altro che fa miracoli come lui devono ancora crearlo.
Ora però mettiamo da parte il florilegio di scuse che si tira fuori ogni volta che c’è da affrontare una questione delicata (da “ho tanti amici gay” a “la mia libertà finisce dove inizia la tua”) e liquidiamo in nove parole l’antologia di frasi di circostanza sul Cuffaro uno e due: è stato un pessimo amministratore e un ottimo carcerato.

Siamo alla fase tre. Quella più difficile, in cui tra due contendenti è più difficile distinguere la scarsezza dell’uno o l’abilità dell’altro.
Di certo c’è che Cuffaro, con il suo bagaglio scomodo di errori e di reticenze, ha saputo ricreare un ambito politico classico nel fallout di un’Italia esplosa per una bomba di qualunquismo ignorante senza precedenti, senza ideologie che vadano oltre una storia di Instagram.
Di certo c’è anche che il succedaneo della politica che avrebbe dovuto sterilizzarlo non è mai stato in grado di dire apertamente una cosa semplice: e cioè che si può fare a meno di un bagaglio di voti, firme, simpatizzanti, correi, adoranti che in qualche modo a lui fa capo, e a nessun altro.

Cuffaro è un caso unico in Italia e non solo. Si potrebbe fare un paragone col Sudamerica, ma lì è difficile che un condannato si faccia tutta la galera, senza favori, per poi cominciare a risalire la china dal livello meno dieci: lì lo sconto comincia prima dell’arresto e generalmente costa qualche morto.
Nell’anno di grazia 2024 Cuffaro è difficile da raccontare senza incorrere nella furia livellatrice della cretinocrazia, frutto dell’impegno nefasto di Grillo e dei Cinque stelle (culturalmente distruttivi come dieci Berlusconi, che di suo era ben messo), e riarrangiata con notevoli variazioni cromatiche dalla destra di governo e dalla Lega di antigoverno.
Perché lui, Cuffaro Salvatore detto Totò, è più furbo di loro. Conosce la politica meglio di tutti ‘sti peones e sa che, Vannacci o no, antifascismo blaterato o no, Lucchini o no, quello che conta alla fine della discussione è il conto presentato dall’oste.

Quello che i giornali fanno fatica a raccontare è innanzitutto il fallimento della loro narrazione, che deve necessariamente avere i buoni da un lato e i cattivi dall’altro, anche quando i ruoli si invertono: perché nulla in Italia, soprattutto in Sicilia, è più reale dell’indefinito. Quindi raccontare di un Cuffaro che, nonostante tutto (lui per primo), si appresta a ridiventare ago della bilancia, senza correre il rischio di essere accusati di essere come minimo mafiosi è opera assai difficile. E chi se l’accollerebbe mai?
In realtà, senza atti di eroismo, tutta questa vicenda può essere inquadrata da un punto di vista molto laterale, in linea però coi limiti e la grandezza dei nuovi sistemi di relazione.
Cuffaro sta dimostrando il trionfo dell’analogico in tutte le sue forme più efficaci. Proprio per i suoi crimini, reali e definiti, ha avuto l’occasione di dimostrare una cosa antica: che l’impunità non conviene se si ha un piano a lunga scadenza.
Infatti oggi detrattori e non, traditori e non, inquisitori e non, hanno l’imbarazzo (tutto social e distintivo) di voler chiedere, ma al contempo di non poter chiedere, un appoggio a Cuffaro. Che ha i suoi uomini, i suoi tasselli, le sue carte: tutte analogiche, tutte reali, tutte di carne e sangue.
Pensate al povero Michele Santoro che cerca firme per la sua lista alle Europee e si ritrova a essere appoggiato proprio da quel Cuffaro che aveva ridicolizzato (lasciando che si ridicolizzasse da solo).
Questione di errori. Sapere sbagliare è un’arte simile al saper rimediare.

Approfondimento. Un podcast su Libero Grassi e sul fuoco amico contro Giovanni Falcone nel giorno in cui Salvatore Cuffaro finì in diretta a reti unificate Rai- Mediaset.