(Anti)Mafia, il coraggio che manca

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Per descrivere le cose di mafia trafughiamo e/o ricicliamo idee dei Grandi pur di mascherare la nostra indolenza. Lo facciamo usando spesso a sproposito un profluvio di aggettivi che accorciano i ragionamenti, vestendoli sgraziatamente: sciasciano per indicare posizioni e visioni asimmetriche rispetto al pensiero dominante; pirandelliano per accennare all’impossibilità di distinguere tra realtà, finzione e apparenza; gattopardiano per dire dell’adattabilità rispetto ai cambiamenti con l’obiettivo di mantenere intonsi i privilegi acquisiti. Mai che ci scappi il gesto barbaro di un’invenzione, di una lettura non viziata da quella che oggi possiamo definire come un’epidemia di distrazione sociale.
E poi, a guardare le nuove inchieste che attingono a piene mani dal passato del cosiddetto dossier “mafia e appalti”, c’è un vizio che intorbida le nostre sensazioni: il recentismo, cioè l’accumularsi di nuove informazioni che non valutano la prospettiva storica. Attenzione, non parlo della legittimità delle indagini ma dell’effetto che esse hanno sulla memoria collettiva giacché il recentismo in quest’ambito è lo strangolatore di essa.

Il dossier “mafia e appalti” è un evergreen in tal senso. È bene ricordare di cosa parliamo: un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Appare e scompare ogni tot di anni e si porta appresso una sorta di maledizione. Indentificato come una delle cause della vertiginosa accelerazione degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, rappresenta un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per stilare o per correggere, per indagare o per nascondere. A cominciare dai carabinieri che lo scrissero, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per via di una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente al termine di un lungo calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con i magistrati Gioacchino Natoli e Giuseppe Pignatone indagati dalla Procura di Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Indagini complicate, com’è complicato mettere le mani in un vaso di Pandora in cui si mescolano soldi, sangue e patti inconfessabili, ma afflitte nel sentire comune dal recentismo che, per dire, non tiene conto di cosa significava fare il poliziotto nelle contrade percorse da proiettili vaganti, di quanto pesavano la politica delle promesse e l’antimafia delle carriere. Soprattutto non tiene conto di cos’era quel palazzo di giustizia di Palermo con tutta un’allegoria di animali: corvi, talpe, colombe, falchi, serpi, coccodrilli (molte le lacrime). Un’Arca di Noè dove però alla fine non si salvò nessuno.

Ecco, quando siamo tentati di abbozzare giudizi a proposito del passato sull’onda di un’ urgenza del presente (un’inchiesta riesumata o una qualunque interessantissima scoperta di archeologia giudiziaria) sarebbe cosa buona e giusta arginare il recentismo. E contestualizzare.

Per dire, allora c’era la “società civile” coi suoi lenzuoli candidi, con le sue mobilitazioni spontanee che non hanno mai conosciuto la droga dei social, col suo essere ago preciso di bilance perlopiù altrui. Oggi non c’è più e nessuno l’ha uccisa, nessuno l’ha rapita. Si è estinta a causa di quel cataclisma sociale che ci ha portato a essere tutti (forzatamente) presenti pur non essendoci: partecipanti in contumacia, movimentisti da polpastrello. Anche l’humus sul quale era nata e cresciuta è cambiato. L’urgenza drammatica dell’aggressione mafiosa ha lasciato spazio ad altre urgenze: dai rifiuti dietro la porta all’odio dietro lo schermo. Le emergenze fanno il loro lavoro che è quello di sommare problemi a problemi senza sommergerli, e in tal modo ci ingannano: in fondo non cambia nulla a eccezione del nostro modo di reagire. La mafia non è mai finita, ma non è più tra i trend topic, anzi non lo è mai stata diciamo per mission aziendale. Come in ogni estinzione che si rispetti la specie scomparsa farà sentire la sua assenza dopo molto tempo. Per capire com’è andata col dinosauro della società civile e con gli altri fossili di mafia più o meno incravattata, bisognerà scavare ancora. Magari trovando il coraggio di farlo in terreni miracolosamente intonsi tipo quello del depistaggio delle indagini sulla strage di Via D’Amelio, unico caso al mondo in cui tutti i magistrati che portarono a decenni di deragliamenti giudiziari non sono mai stati puniti. E lì non c’è recentismo che tenga. Eterno è il peso di dolore sociale di uno sfacelo senza responsabili.

Mafia, il teatro delle evanescenze

L’articolo pubblicato su Il foglio.

Sentenze, libri, cortei, convegni, navi, musei, orazioni civili, ricordi, comparsate in tv, slogan sferraglianti, impegni solenni. E ancora “pentiti”, suggeritori, veggenti, traditori, impuniti troppo impuniti e colpevoli perfetti troppo perfetti. Nel labirinto di via D’Amelio ci si illude di intravedere l’uscita e invece ci si rende conto, anno dopo anno, di aver sbagliato addirittura l’entrata.
A trentadue anni, celebrati proprio ieri, dalla strage in cui morirono a Palermo il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina poche certezze lambiscono una cronaca nota, cristallizzata nel tempo.

Schematizzando.
Il depistaggio ci fu.
I finti “pentiti” hanno tutti nome e cognome.
I magistrati e i poliziotti che li hanno creati, gestiti e difesi sono stati tutti prosciolti e/o promossi o comunque se la sono fatta franca.
Gli unici colpevoli sono due morti: l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera e l’ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra.
A oggi il più grande depistaggio della storia della Repubblica italiana (definizione dei giudici di Caltanissetta) non ha un colpevole punito tra i viventi, ma solo (soliti) noti impuniti.

Ci sarebbe da armare rivoluzioni, da stendere catene umane. Eppure questa strage non interessa a nessuno. A parte qualche sporadico titolo di giornale, perlopiù nelle pagine interne o nei dorsi locali, quel boato riecheggia solo nelle orecchie dei pochi sopravvissuti e dei parenti delle vittime che ci ricordano che non c’è democrazia nel dolore, non c’è una livella delle ingiustizie.
La verità è che se fregano tutti. E non solo a Palermo che è la capitale mondiale dell’amnesia organizzata, ma nell’Italia intera di ogni governo, di ogni colore, di ogni riforma. 

Falcone e Borsellino. Nel binomio partorito dalla cronaca e ancor prima dalla crudeltà degli uomini (perché siamo anche ciò che non ci è stato permesso di essere) c’è tutto il sottotesto di un’antimafia di sussurri, di carriere, di protagonismi, di ingenuità, di coraggio, di forza interiore, di sangue acido, di lavoro silenzioso, di ostentazione, di modestia, di vita con le virgole che ognuno sa darsi.
È un teatro delle evanescenze in cui una scena si apre, un’altra si chiude e una si perde. Come si è persa non solo la ragione di dare un senso definitivo a quei boati, ma anche il tentativo di un racconto diverso oltre che dei caduti in questa lotta tremenda contro Cosa Nostra, dei loro seguaci, degli epigoni, dei parenti acquisiti (le vittime di mafia sono un territorio di grande saccheggio), degli orecchianti che sul ricordo hanno costruito business, politiche, show.
Eppure l’epopea era lì, davanti ai nostri occhi, pronta per essere narrata.

C’era Vincenzo Scarantino, il finto collaboratore di giustizia inventato da La Barbera e Tinebra che mandava in tilt la macchina giudiziaria per 16 anni, cioè fin quando non veniva smentito da Gaspare Spatuzza, un “pentito” assassino ma non farlocco. Eppure Scarantino, ragazzotto della Guadagna senza arte né parte, poteva essere stoppato subito. Cioè ben prima che le sue fandonie portassero a tre processi con altrettanti gradi di giudizio (centinaia e centinaia di udienze) su un presupposto falso. Lui non sapeva nulla della strage di via D’Amelio ed erano La Barbera e suoi a imbeccarlo affinché desse le risposte che il pool di Tinebra si aspettava. Nella storia del nefando traccheggio dal quale scaturisce il depistaggio c’è una data cruciale: 13 gennaio 1995. In quel periodo Scarantino stava accusando alla cieca, ma sempre sotto dettatura. Nei mesi precedenti era stato irritualmente sottratto alla cura del Servizio centrale di protezione dei pentiti e affidato a un’entità creata ad hoc: il “gruppo Falcone e Borsellino” di La Barbera. Già allora Scarantino era stato subito sbugiardato da altri collaboratori di giustizia come Totò Cancemi, Gioacchino La Barbera (soltanto omonimo del capo della squadra mobile) e Santo Di Matteo, padre del piccolo Giuseppe strangolato e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca per ritorsione contro il pentimento. Quindi il depistaggio poteva morire in culla già nel 1995. Ma quel 13 gennaio i pm di Caltanissetta fecero qualcosa di inspiegabile. Decisero di non depositare gli atti in cui il pentito farlocco risultava sbugiardato e di conseguenza nulla di quelle contraddizioni venne reso noto ai difensori degli imputati. Ergo, niente di tutto ciò che poteva disinnescare per tempo la bomba Scarantino entrò nel processo che si aprì il 4 ottobre 1994: il processo Borsellino, che allora era ancora il processo Borsellino e basta, e che pochi mesi dopo diventerà il Borsellino primo, per via di una strana sindrome tutta siciliana, quella della moltiplicazione dei processi. Qui comincia l’ottovolante delle udienze e bisogna aggrapparsi al calendario per non perdersi. Il Borsellino primo arriva a sentenza di primo grado il 26 gennaio 1996. Quello stesso anno, a ottobre, inizia il Borsellino bis. Ma nel frattempo inizia l’appello, cioè il secondo grado, del Borsellino primo e un processo nuovo nuovo, il Borsellino ter. Intanto arrivano anche la sentenza di appello del Borsellino primo e la prima sentenza del Borsellino ter. Mentre nel dicembre del 2000, c’è la sentenza di Cassazione del processo primigenio, il Borsellino primo. La Cassazione: uno pensa, finalmente un punto fermo. Macché, tutta la macchina giudiziaria per i primi tre processi è impantanata nelle fandonie costruite ad arte dal falso pentito.
La mitosi giudiziaria non si ferma. Sempre nel 2000 arrivano le sentenze di appello del Borsellino bis e del Borsellino ter. Tre anni dopo tocca alla Cassazione dire l’ultima parola su questi due processi. Ultima parola che non sarà l’ultima.
Infatti bisognerà attendere altri dieci anni per assistere all’inizio di un ennesimo processo, il Borsellino quater, nato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che, mentre ci aggrovigliavamo in primo bis ter e via numerando, aveva svelato il depistaggio e indicato i veri responsabili della strage: era lui che aveva rubato la 126 fatta esplodere in via D’Amelio e non Scarantino, con quel che ne consegue.
Solo il 20 aprile 2017, cioè 25 anni dopo la strage, si arriverà a una sentenza di primo grado che finalmente non è drogata. Sarà solo l’inizio, un nuovo inizio dopo nove false partenze (primo bis e ter per tre gradi di giudizio) e altrettanti finali fasulli. Nove processi, centinaia di udienze, nessuna verità.

Un labirinto di numeri.
Cento, centodieci, centoventuno.
Avrebbero potuto essere metri, chilometri. O chili, quintali, tonnellate. Avrebbero potuto essere peso o distanza. Invece cento, centodieci, centoventuno sono i “non ricordo” pronunciati da tre dei quattro poliziotti che testimoniarono al processo di Caltanissetta per il depistaggio che ha visto imputati l’ex dirigente Mario Bò, gli ex ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, tutti prescritti nel processo di Appello. La sentenza, come tutto in questa storia, offre una lettura bifronte e racconta che i poliziotti concorsero a depistare ma che comunque andavano rimandati a casa perché era passato troppo tempo, che guaio ci fu ma non ci possiamo fare niente. 
È così la vicenda della strage di via D’Amelio. Appena si mette a fuoco una soluzione spunta una lettura di senso opposto. Appena si tira un respiro, un nuovo cappio stringe il collo.

Nel dedalo giudiziario attraversato da verità vaganti spunta periodicamente il dossier “mafia e appalti”. Si tratta un voluminoso fascicolo scaturito, nei primi anni ’90, da un’informativa del Ros dei Carabinieri su un comitato di affari illegale composto da politici, imprenditori e mafiosi. Quel dossier, indicato tra le cause di un’accelerazione degli attentati a Falcone e Borsellino, sembra un’eterna fonte di guai per chi ci mette mano, che sia per esaminare o per cancellare, per indagare o per proteggere. A cominciare dai carabinieri che lo stilarono, il colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno, additati per anni come traditori dello Stato per una presunta trattativa con la mafia e assolti definitivamente dopo un estenuante calvario giudiziario. Sino ad arrivare ai giorni nostri con l’ex pm del pool antimafia di Palermo Gioacchino Natoli finito sott’inchiesta a Caltanissetta con l’accusa di aver insabbiato un filone di indagini per proteggere alcuni politici e imprenditori. Lui si è difeso dicendosi estraneo alla losca vicenda, e ha persino incassato la stima di Maria Falcone.

Gira la giostra, tra coraggiosi e traditori, tra nudi e puri e pataccari. Ed è molto difficile orientarsi senza prendere cantonate.
Il caso di Massimo Ciancimino è emblematico. In principio considerato attendibile dalla Procura di Palermo, ma non da quelle di Caltanissetta e Firenze, il figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo tentò di accreditarsi come collaboratore di giustizia. Fu così che, tra una decina di comparsate in tv e un libro autobiografico, la sua pulsione dichiaratoria strabordò sui grandi misteri. Si esibì su tutto, dalla morte di Calvi alla strage di Ustica, dagli eccidi del ’92 alla famosa Trattativa, il suo vero capolavoro, finito però, come abbiamo visto, con assoluzioni a raffica. Insomma quella che per un certo momento fu salutata come una messa cantata si rivelò, qualche procuratore dopo, cabaret.

Il labirinto non risparmia nessuno, neanche le figure dolenti che meriterebbero migliore sorte. Salvatore Borsellino, fratello del magistrato assassinato, ha intrapreso da anni una crociata sulla strada della verità, anzi di una sua verità. Questa missione solitaria lo ha messo in dura contrapposizione con Maria Falcone che non replica più alle sue argomentazioni: “Meglio ignorarlo”. Persino i suoi nipoti, i figli di Paolo – Lucia, Fiammetta e Manfredi – e il loro avvocato Fabio Trizzino sono finiti nelle sue invettive. La loro colpa? Aver criticato aspramente i magistrati, come ad esempio Nino Di Matteo, che invece lui difende a spada tratta. L’emblema della crociata è una foto del 2014: Salvatore Borsellino abbraccia Massimo Ciancimino in via D’Amelio in quella che Giuseppe Di Lello, ex membro del pool antimafia, definì “l’immagine più distruttiva dell’antimafia”.

Al netto delle indagini a colpo freddo, delle rivelazioni tardive e dei tentativi di filtraggio delle acque torbide in cui uomini delle istituzioni e uomini della mafia si mossero indisturbati, non si può non tenere conto che a quei tempi c’erano due procure che si davano battaglia, tenendosi in ostaggio a vicenda, mentre una guerra vera, terrorizzante, infuriava a Palermo e non solo: la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato. Su ogni cosa la procura di Palermo di Gian Carlo Caselli la pensava all’opposto di quella di Caltanissetta di Giovanni Tinebra. Sui “pentiti” cruciali soprattutto: Caltanissetta aveva uno Scarantino telecomandato, Palermo aveva una pattuglia di collaboratori di giustizia che lo smentivano. Perché Palermo non intervenne per tempo? C’erano patti da rispettare? C’era forse un filo di tensioni incrociate che imbarazzava i due uffici giudiziari?
La battaglia non si limitò al 1992, ma arrivò sino ai giorni nostri quando, ad esempio, nel processo sulla presunta trattativa Stato-Mafia, Palermo ipotizzò che la strage Borsellino potesse essere stata accelerata proprio da quella trattativa. Ma se così fosse stato, non avrebbe dovuto occuparsene la Procura di Caltanissetta che proprio su quella strage indagava?

Un labirinto. Un sistema di domande che ne figliano altre, un complicato intrico di persone e personaggi impossibili da recensire.
Come Bruno Contrada, alto esponente del Sisde, irritualmente chiamato a collaborare alle indagini sull’eccidio di via D’Amelio che dice, oggi, che se allora gli avessero affidato Scarantino avrebbe “scoperto subito che si trattava di un cialtrone”. Eppure lui stava lì e le dichiarazioni di Scarantino le conosceva, cosa ci voleva per smascherarlo, una presentazione ufficiale, una cena aziendale?
Come i “signori nessuno” estranei a Cosa Nostra che si materializzarono nei luoghi in cui si custodiva l’esplosivo delle stragi e che suscitarono perplessità persino tra i mafiosi.
Come i due colpevoli perfetti, perché deceduti. L’ex procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra che di mafia ammetteva serenamente di sapere poco e l’ex capo della Squadra Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, al soldo dei servizi segreti, che invece sapeva troppo e che si curava di sceneggiare la storia a modo suo: famosa la sua preveggenza sul tipo di auto usata per la strage Borsellino con cui anticipò di un giorno il risultato di una perizia tecnica.

La verità processuale, labirintica anch’essa, ci dice che il depistaggio c’è stato, ma non si sa bene perché. Il succo è che in una congerie di situazioni spesso grottesche si inventò un castello di falsità per trovare in fretta una soluzione qualunque e che il tutto fu agevolato dalla scarsa qualità professionale dei magistrati che ci lavorarono.
Poco importa se, al netto del mistero dell’agenda rossa scomparsa, nulla si è mai saputo di quali carte avesse con sé Borsellino il pomeriggio del 19 luglio 1992. E soprattutto non si sa ancora cosa gli inquirenti prelevarono quel giorno nel suo ufficio perché non fu mai prodotto un verbale di sequestro dei documenti. Di certo sappiamo che di quelle carte a Riina e compari non gliene fregava nulla.

Ascolta il podcast sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio

La foto è di Franco Lannino.

Il soffio sulla cenere – 2

La seconda e ultima parte del “Il soffio sulla cenere”, il podcast sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio di cui potete leggere qui, è dedicata a ruoli e personaggi e ai temi più delicati: pochi sanno davvero in cosa consiste quello che i giudici hanno descritto come il più grande depistaggio della storia repubblicana, pochi hanno idea di cosa c’era in ballo nella presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, pochi conoscono il ruolo delle “entità esterne” che hanno avuto un importante peso nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Qui la prima puntata.

Questo podcast è gratuito. Se vi è piaciuto avete un modo per ripagarmi: diffonderlo. Imparare a conoscere è un buon modo di essere (o diventare) cittadini consapevoli.

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Il soffio sulla cenere - 2
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Il soffio sulla cenere – 1

“Il soffio sulla cenere” è un podcast sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio in cui, il 19 luglio 1992, morirono il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

L’obiettivo è scavare negli aspetti più nascosti di questa vicenda complessa, a partire dal clima di distrazione collettiva che avvolse noi giornalisti in quegli anni. E ho cercato di farlo con un linguaggio semplice, per quanto possibile.

Il podcast è diviso in due parti. Nella prima, più breve, si affrontano gli elementi base della storia: dal falso pentito Scarantino alla responsabilità di chi consentì il deragliamento delle indagini. Nella seconda si entra nel merito, si spiegano ruoli e personaggi, si affrontano i temi caldi: pochi sanno davvero in cosa consiste quello che i giudici hanno descritto come il più grande depistaggio della storia repubblicana, pochi hanno idea di cosa c’entra il processo sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, pochi conoscono sanno delle “entità esterne” che hanno avuto un importante peso nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

Io ho provato a riassumere e a spiegare senza dare nulla per scontato. Nel 2017 iniziai a farlo col compianto Ennio Fantastichini e la regia di Giorgio Barberio Corsetti, in un grande teatro d’opera, il Teatro Massimo di Palermo: e lo scorso anno ho chiuso la mia tetralogia dedicata alle stragi del 1992.

Oggi mi piace usare un altro mezzo, più tecnologico, più popolare, e con un linguaggio nuovo, cercando di non cadere negli stereotipi delle cronache giudiziarie. In questo cammino, per nulla semplice, mi hanno aiutato l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, i giornalisti Salvatore Cusimano e Raffaella Fanelli, e Giorgio Mulè attuale vicepresidente della Camera qui in veste di ex cronista di nera. Li ringrazio di cuore. Ringrazio anche Gabriella Guarnera che, come sempre presta la sua voce.

Qui la seconda puntata.

Questo podcast è gratuito. Se vi è piaciuto avete un modo per ripagarmi: diffonderlo. Imparare a conoscere è un buon modo di essere (o diventare) cittadini consapevoli.

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Podcast che verranno

È sempre un lavoro difficile quello di rendere facilmente comprensibili le cose complicate. Io ci ho provato con un podcast sull’incredibile depistaggio delle indagini sulla strage del 1992 di via D’Amelio, in cui morirono Paolo Borsellino e gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Grazie alle testimonianze, tra gli altri, dell’avvocato Fabio Trizzino, dei giornalisti Salvatore Cusimano, Raffaella Fanelli, e del vicepresidente della Camera Giorgio Mulè (che parla da giornalista), ho cercato di raccontare una storia che pochi conoscono davvero. Una storia di impuniti e di cialtroni, di pochi coraggiosi e di molti distratti. Una storia in cui dopo 32 anni non c’è la parola fine.

Prossimamente.

Musica: Mapamusic

Colpi di spugna e colpi di teatro

Le sentenze, anche quelle della Suprema Corte, si devono rispettare ma si possono criticare”. La frase, con sicurezza lapidaria, la scrive il magistrato Nino Di Matteo nel suo ultimo libro che ha un titolo spoiler, “Il colpo di spugna. Trattativa Stato-mafia: il processo che non si doveva fare”. Se mai si cercassero frasi dipinte su un personaggio, o in questo caso sull’autore (che comunque è anche personaggio), che meglio ne rispecchiano le caratteristiche, di migliori e più calzanti non se potrebbero trovare.
Quindi le sentenze si possono criticare, persino quelle della Cassazione, ce lo dice Di Matteo, tutto a posto. Postilla: magari sono criticabili solo quando non rispecchiano le nostre aspettative fermo restando la nostra facoltà, negli altri casi, di impugnare la spada in difesa della magistratura e soprattutto del suo verbo fatto sentenza.

Nino Di Matteo è un coraggioso magistrato da anni nel mirino delle cosche mafiose. Ma nei suoi confronti si è sviluppato un paradosso tutto italiano. Quello del dibattito abortito per timore reverenziale. I pochi che si azzardano a criticarlo o a cercare di porre domande sul suo umano operato – sul resto vige l’impalpabilità di una sorta di divinità – vengono marchiati a fuoco che manco i vitelli di Yellowstone (la serie): solo che lì è senso di proprietà, qui è senso di infamia.
Insomma Di Matteo può dire quello che vuole perché è coraggioso (che è vero) e sotto scorta (che è vero). E chi osa non essere d’accordo con lui non è uno che dissente normalmente come accade col restante della popolazione mondiale (che è vero), ma uno che delegittima.
Ci ha provato più volte, in un’aula di giustizia, l’avvocato della famiglia Borsellino, Fabio Trizzino, a cercare di mettere in fila le responsabilità di Di Matteo nella gestione del pentito farlocco Scarantino. Il magistrato, insieme con tutti i suoi colleghi di allora, non è stato ritenuto responsabile dell’indecente depistaggio della strage di via D’Amelio. Anzi, lui e tutti gli altri, hanno riscosso promozioni e si sono mossi agevolmente nel sotto vuoto spinto del clima di distrazione collettiva che ha caratterizzato le indagini sull’eccidio e sulla sistematica deviazione dell’inchiesta.

Disse Trizzino: “Il Pm Di Matteo nel 2009 fece una dichiarazione sul collaboratore di giustizia Spatuzza (colui il quale svelo l’impostura di Scarantino, nda) senza alcuna competenza. L’elemento incredibile è che Di Matteo, quell’anno, da pm di Palermo, non aveva alcuna competenza per entrare nei processi Borsellino uno e Borsellino bis, a meno che non temesse qualcosa che potesse compromettere la sua carriera professionale. Bisogna avere il coraggio di dirle queste cose”.

Purtroppo il coraggio non basta. Perché ancora oggi, a distanza di 32 anni dalle stragi, pare che a nessuno importi nulla di quelle menzogne. Menzogne di Stato.
Il cortocircuito non è solo giudiziario, ma mediatico e sociale. La stessa libertà con cui un magistrato critica una sentenza di Cassazione non ha la stessa eco dell’indignazione dei cittadini che reputano scandaloso che nessun magistrato – anzi nessuno in assoluto – abbia mai pagato per lo scempio della verità sulla strage di via D’Amelio. Avete mai visto una manifestazione, un flash mob per stigmatizzare espressamente quel che combinarono la procura di Tinebra e i poliziotti di La Barbera?

Il massimalismo antimafia di cui l’antimafia sta morendo per asfissia ci ha insegnato che, ad esempio, lo stesso movimento delle “Agende Rosse” che ha contestato pubblicamente il sindaco di Palermo Roberto Lagalla per l’appoggio di Cuffaro e Dell’Utri nel corso della campagna elettorale, non ha avuto nulla da dire sulle accuse di Trizzino a Di Matteo. Anche qui non uno slogan, non un corteo sullo specifico: eppure l’agenda rossa da cui prende il nome quel gruppo di cittadini (sul cui impegno tanto di cappello) è proprio al centro del cratere lasciato dal depistaggio in cui i magistrati della procura di Caltanissetta hanno brillato quantomeno per inadeguatezza.
Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland, oddio sindrome da timore reverenziale in agguato –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti.
Se uno manifesta per la scomparsa dell’Agenda Rossa di Paolo Borsellino e poi si dimentica di chi per anni si è fatto intortare di minchiate dal “pentito” meno attendibile dell’universo mondo, qualche problema c’è.
E dobbiamo smetterla di considerare che il problema è chi dice che c’è un problema.

Non ci fu niente

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Quindi questo depistaggio non fu manco roba di quattro amici al bar. Ed è un peccato che l’ex questore La Barbera e l’ex procuratore Tinebra siano morti senza veder riconosciuta la storica importanza del loro operato con adeguata medaglia di innocenza. L’ennesima innocenza in quella che credevamo fosse una nefanda macchinazione e che invece, stando alla giustizia italiana, è solo un’illusione ottica. Forse, di questo passo, potremmo scoprire che manco i morti erano morti e che il giudice Borsellino e gli agenti della sua scorta non sono stati dilaniati da un’autobomba, ma semplicemente inghiottiti da un buco spazio temporale di Stranger Things. Lo stesso buco che ha risucchiato, annullandole, le responsabilità dei magistrati coinvolti in questo gioco di prestigio – dove dal cilindro si tirano fuori pentiti come conigli – salvando però le loro carriere.

Alla fine scoprimmo che nessuno depistò o se lo fece fu a fin di bene: per porgerci una verità semplice, comoda, prêt-à-porter. Lo stesso Scarantino andrebbe ringraziato per lo spirito di sacrificio con cui ha interpretato il ruolo del provetto pentito: una via di mezzo tra un pupo di Mimmo Cuticchio e l’”Allegro chirurgo” che dove lo tocchi suona. Insomma tutti i protagonisti del depistaggio della strage di via D’Amelio, presenti o assenti, prescritti o coscritti, con distintivo o senza, vanno omaggiati per lo spettacolo avvincente e per la passione con cui continuano a recitare anche a show terminato. Purtroppo i morti non possono applaudire, ma restano i parenti delle vittime a sbracciarsi per loro. A brancolare in una vicenda di cui non gliene frega niente a nessuno, nel mainstream che elargisce successi di critica e di pubblico a chi nega la realtà e che stronca chi la afferma.
Non ci fu niente.

Via D’Amelio e la verità monca

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

È una sgradevole sensazione quella che ci prende quando ascoltiamo parole appassionate come quelle del pm Luciani che al processo di Caltanissetta tiene la sua requisitoria contro i poliziotti accusati del depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio. È sgradevole non solo perché l’idea, la sola idea che uomini delle forze dell’ordine abbiano tramato per deviare l’inchiesta sulla morte di loro colleghi è urente come una coltellata in un corpo già ferito. Ma anche perché ci ricorda che quella che si sta ricostruendo con un ritardo inammissibile, proprio nel trentennale quell’eccidio, è una verità monca. Chiediamocelo senza infingimenti, come del resto fa da anni Fiammetta Borsellino: è mai possibile che il più grande depistaggio d’Italia sia stato orchestrato da quattro poliziotti senza che nessun magistrato si sia accorto di nulla? O meglio: è mai possibile che chi doveva controllare la regolarità delle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia non lo abbia fatto e oggi se la passi liscia, senza manco una ramanzina?

Il sistema che ha mandato in tilt le indagini sulla strage Borsellino per 16 anni e che ha condizionato trent’anni di processi non può dipendere esclusivamente dalla libera iniziativa di un manipolo di uomini dello Stato: ce lo dice la logica. La realtà processuale che certifica implicitamente un “liberi tutti” per quei magistrati che potevano fermare in tempo le mefitiche panzane di Scarantino non può bastare per sanare la sete di verità dei familiari delle vittime e di tutti gli italiani che hanno a cuore la certezza del diritto: ce lo dice la buona creanza.
Via D’Amelio ci insegna che un megafono non parla da solo. C’è sempre una voce dietro. E finora ci hanno voluto far credere che a parlare siano stati solo i fantasmi.

Una buona antimafia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Abituati come siamo a guardare la politica con diffidenza, rischiamo di perderci qualche passaggio quando invece il Palazzo lavora di buona lena e con attenzione. Allora è bene fermarsi e dare atto che c’è una politica che non è solo, per dirla con Berlinguer, una macchina di potere e clientela. La Commissione regionale antimafia guidata da Claudio Fava è un esempio di come si può vigilare sulle cose nostre senza lasciarsi trascinare dalla corrente del momento, di come si può indagare su temi di cronaca scottante senza farsi tentare da sterili effettismi. Così è stato per l’esame del caso Montante e sulle sue diramazioni complicate, per gli interrogativi sull’attentato Antoci e su certe incongruenze non da poco, per la recente disamina del doppio (o triplo) tentativo di depistaggio delle indagini sulla strage Borsellino. La Commissione ha, ad esempio, trattato un noto giornalista anti-boss come un normale testimone e non ha esitato a evidenziare alcune contraddizioni nel suo operato, rischiando la scomunica dell’antimafia adorante. Ha lavorato, insomma. Magari avrà sbagliato in molte o alcune conclusioni, ma si è data una direzione. È bene ribadirlo: qui non si giudicano i risultati che possono essere oggetto di valutazioni discordanti, si giudica un metodo. In particolare una discreta indipendenza dal mainstream, perché prima di affondare un coltello nella crosta delle cose bisogna assicurarsi che non sia stato usato per altro, insomma che sia pulito. Questa Commissione ha tentato di tenere a distanza il pregiudizio, di non conoscere intoccabili, di saper coniugare rigor di legge e curiosità. Ci ha rivelato che il compito della politica non è solo dare risposte, ma saper fare domande.

Borsellino e la storia senza storia

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Non si può chiedere alla magistratura di (ri)scrivere la storia: del resto quando si è pensato che la vera storia d’Italia dovesse essere narrata nei verbali di polizia il risultato è sempre stato pessimo. Ma la vicenda del depistaggio delle indagini sulla strage di via d’Amelio impone una piccola eccezione. Ai giudici che, nel dedalo di competenze incrociate e di indagini infinite, hanno dipinto un quadro in cui gli unici colpevoli sarebbero quattro poliziotti mai sgamati da nessuno e sopravvalutati da tutti, andrebbe chiesta una parvenza di idea su cosa è realmente accaduto all’indomani dell’eccidio in cui morirono Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta. Insomma da anni agogniamo una ricostruzione plausibile – laddove il termine “plausibile” certifica la nostra impotenza dinanzi a una congerie imbarazzante di menzogne e mistificazioni – e non verità insulse e smozzicate. E da anni sbattiamo contro un muro narrativamente illogico: perché se fosse un film nessuno sceneggiatore si rischierebbe a firmare una trama che parte tragica e infischiandosene del plot finisce esilarante. Qui non ridiamo solo per rispetto ai morti e alle loro famiglie, ma che un’intera Procura sia rimasta all’oscuro di uno dei più gravi depistaggi dell’Italia repubblicana e che non servano ulteriori indagini per scoprire ciò che è rimasto tragicamente nascosto, strappa un sorriso amaro. Quindi serve una storia, magari una qualunque, per trovare un senso a questa beffa. Una storia in cui chi sbaglia paga e non viene premiato, in cui chi è distratto è punito e non promosso, in cui chi è tenuto a controllare e non lo fa non se la cavi con un’alzata di spalle. Una storia che almeno abbia rispetto di chi la ascolta.