Vita analogica, ogni tanto

Non sono un tifoso sfegatato della carta. Leggo, dopo un anno di regolare allenamento, anche su supporti tecnologici ad alto rischio incazzatura (provate a mettervi d’accordo con un tablet particolarmente sensibile allo sfioramento, quando voltate pagina senza la risolutezza che serve). Però in questo periodo mi è capitato di vivere in una dimensione molto analogica, senza connessioni che non siano di reale vicinanza: si parla perché si è seduti accanto, si gusta il silenzio poiché le parole non sono infinite, ci si guarda in faccia per capirsi. Continua a leggere Vita analogica, ogni tanto

Autodistruzione

Un’amica ha vissuto un periodo molto difficile, con un allontanamento forzato dalla sua vita quotidiana. Si è trovata in un mondo parallelo, quasi estraneo, a gestire un’esistenza quanto più normale possibile. Un’operazione quasi impossibile. Se lei, come chiunque di noi, avesse voluto scegliere la via più facile si sarebbe incanalata con serena rassegnazione sul binario che portava al deragliamento. Non c’è nulla di più utile che consolarsi con le cose inutili e dannose quando il tempo volge al brutto, tu sei a piedi senza un ombrello e non c’è un tetto nel raggio di 500 chilometri. Ci si illude di mettere al sicuro l’anima sacrificando il corpo. L’autodistruzione nasce spesso come insano spunto di salvataggio: ed è una delle peggiori menzogne che alcuni di noi si sono raccontati almeno una volta nella vita.
Invece la mia amica ha scelto la via più difficile, fregandosene dell’anima e curandosi del corpo. Ha smesso di fumare, ha macinato chilometri di corsa, ha mangiato di meno, è dimagrita e ha preso aria, sole.
L’ho rivista l’altra sera che pareva tornata da una vacanza. Invece era appena riemersa da un mare di difficoltà.

Senza D’Avanzo

Senza Giuseppe D’Avanzo la nostra repubblica, quella che non si sfoglia ma nella quale viviamo e ci disperiamo, ha un guardiano in meno. E’ facile immaginare la gioia tra i delinquenti in giacca e cravatta che erano da sempre i nemici di D’Avanzo. Non so come, ma facciamo in modo da guastare la festa a tutti quelli che in questo momento gioiscono per la scomparsa del migliore giornalista d’inchiesta italiano.

La lezione norvegese

Questo bel pezzo di Adriano Sofri e soprattutto il ricordo di una recente vacanza mi forniscono una lente diversa con la quale osservare la tragedia di Oslo.
Nel paese dove tutto era regolare, modesto, composto, anche l’esplosione di un petardo avrebbe portato scompiglio. Figuriamoci le bombe. Né, al momento, si può contestare alle forze dell’ordine norvegesi la sottovalutazione di alcunché. In quelle lande persino gli estremismi hanno un contegno.
Uno dei maggiori scandali con cui il Paese aveva avuto a che fare era stato, nel 2004, il furto dell’Urlo di Munch: i norvegesi credevano che per tenere al sicuro un capolavoro di quel livello (e di quel valore) bastassero una finestra socchiusa e un paio di inservienti che, girando per il museo, ogni tanto gettassero un’occhiata sulla tela. Quando i ladri umiliarono  il Paese intero – perché l’Urlo è venerato da tutta la Norvegia – non accadde nulla di eclatante. Bastò la vergogna dinanzi al mondo. Perché Oslo è la capitale di un paese candidamente orgoglioso. Un paese in cui i poliziotti, che girano per le strade disarmati, adesso si preoccupano di dover impugnare le pistole. Il che sarebbe per loro, agenti rispettati per ciò che rappresentano e non per il potere di intimidazione di un’arma, un’umiliazione.
Credo che dovremo prestare molta attenzione a questo 11 settembre scandinavo.
La grandezza di una civiltà non si misura soltanto col metro americano, cioè con la capacità di reazione agli eventi e con le conseguenti trasformazioni sociali. C’è un altro metodo di riscatto che punta invece all’immutabilità dei tempi e dei modi di vivere. Reagire senza cambiare perché ai cambiamenti imposti col terrore si risponde con una calma quasi gandhiana, senza ovviamente lasciarsi pestare i calli. Probabilmente sarà questa la lezione norvegese al mondo delle guerre sante, delle bombe intelligenti e delle missioni di pace armate.

Tardoni digitali

C’è un che di schizofrenico nei rapporti imposti da Facebook ai suoi accoliti. Se una persona, che nella vita è tua amica, ti chiede l’amicizia, tu non hai problemi ad accettarla: il passo è telematicamente formale, poi magari la sera vi vedete a cena. Se invece quella persona non ti è amica o ti è sconosciuta, che fai? Se accettassi l’amicizia potresti essere accusato di ipocrisia, mentre al contrario ti si potrebbe tacciare di maleducazione. In ogni caso la coerenza della vita reale – io manifesto amicizia solo a persone che mi sono realmente amiche – va a farsi benedire.
Mi hanno raccontato di faide internettiane per un’amicizia negata o per un ammiccamento di troppo in bacheca.
Sarà.
Io quasi quasi rimpiango i tempi dello struscio e degli abbordaggi per strada.
“Ci conosciamo?”.
“No”.
“E allora?”.
“Proviamo a conoscerci”.
L’incontro in versione analogica ha sempre un certo fascino in più rispetto a quello digitale, soprattutto per i tardivi (tardoni?) digitali.

Ancora sulle scie chimiche

Qualche tempo fa ragionammo sull’irragionevolezza della teoria sulle scie chimiche. Questo video aggiunge qualche tassello al puzzle.

Mentre Borsellino moriva


Quando ammazzarono Paolo Borsellino io ero in ferie, a Levanzo. Mentre il tritolo lacerava il giudice e gli agenti della scorta, io dormivo.
La mattina ero andato a pescare con i miei cugini per poi rivendere il pesce al ristorante presso il quale avremmo cenato la sera stessa: consumando e pagando più del doppio il pesce che noi stessi avevamo fornito.
Avevo già un telefono cellulare, un Mitsubishi, che incastravo sul bordo di una finestra socchiusa, nella stanza in cui vivevo per quelle settimane di leggendaria spensieratezza. La linea era sempre disturbata e la posizione millimetrica dell’apparecchio era determinante per ricevere una telefonata oppure niente.
Quel pomeriggio quando mi risvegliai mi accorsi che un colpo di vento aveva fatto cadere il cellulare per terra. Non appena lo ricomposi e lo riaccesi, l’apparecchio squillò con tutti gli arretrati di notizie che mi ero perso. Mio fratello fu il primo a dirmi cosa era successo. Poi un collega del giornale. Poi un altro collega di una tv. Accesi il televisore, Canale 5, e vidi un giovanissimo Salvo Sottile, irriconoscibile – che pure avevo visto crescere accanto a me – che biascicava frasi di circostanza davanti al nulla di una strage assurda.
La sera non andai a mangiare al ristorante al quale avevamo consegnato una cernia di quattro chili e optai per una frittata che mi offrì Nitto Mineo, il padrone dell’albergo in cui mi trovavo.
Parlò solo lui, tavolo per due. Mi raccontò delle tonnare, del mare, e di quando uno squalo lo aveva mancato per un paio di centimetri. Poi quasi si scusò per quella narrazione lontana dal fumo oleoso di via D’Amelio.
Io lo ringraziai e, dopo una generosa dose di Fernet, andai a letto.
Ci misi un paio di ore prima di addormentarmi. Poi cedetti alla stanchezza.
Tutto questo mi sembra che sia accaduto ieri. Invece sono passati 19 anni.
Ero giovane, ora non lo sono più.
Si invecchia in un attimo, giusto il tempo di fermarsi a ricordare.

Live o no?

Aderisco a quella corrente di pensiero che non reputa i brani musicali dal vivo più emozionanti di quelli suonati in studio.
Quando ascolto un cd live può accadere che mi annoi se non trovo importanti variazioni: un assolo più lungo, un arrangiamento diverso, eccetera.
Detto questo, ci sono canzoni che dal vivo rendono ancora di più degli “originali” in studio.
Me ne vengono in mente alcune, fresche di ascolto.
Georgy Porgy dei Toto dal vivo è deliziosa. Così come è tosta The Jack degli AC/DC.
Altri esempi (ma l’elenco sarebbe lunghissimo).
Get Up Stand Up di Bob Marley.
Smoke on the water dei Deep Purple.
Hotel California degli Eagles (la versione tratta da Hell Freezes Over, non quella di Live).
Sun Goddess degli Earth Wind and Fire.
Brother to brother di Gino Vannelli.
Al contrario ci sono artisti che dal vivo mi sembra che perdano effetto (ovviamente siamo nel campo delle opinioni quindi mandatemi pure a quel paese se vi pesto i calli musicali).
Ad esempio i Dire Straits  live di Sultans of swing mi sembrano mosci. Così come nei Police di Don’t stand so close to me mi pare che manchi qualcosa. Inascoltabile la Shock the monkey di Peter Gabriel in Plays Live. Stesso discorso per la Steve Miller Band (Jet Airliner).

L’oro di Eli

 

Tutti quanti viviamo momenti brutti. E, se ci fate caso, nei periodi di difficoltà è come se qualcuno ci avesse messo in tasca un’invisibile calamita che attira i guai e le seccature più ferrose. C’è chi la chiama sfiga, e chi invoca la legge di Murphy.
Poi c’è la solita eccezione che ti fa girare i bottoni. Per la povera Elisabetta Canalis mollata davanti agli occhi del mondo da George Clooney non esiste la calamita, la sfiga ha una consonante di troppo e Murphy potrebbe essere una marca di vestiti sportivi. Prima, quando stava con George, per una sfilata di moda prendeva 10 mila euro, ora ne prende 50 mila. Per un’intervista televisiva bastano 40 mila euro. Per la partecipazione a un cinepanettone 300 mila. Una foto con un nuovo partner vale fino a 200 mila euro. E uno scatto di nuovo con Clooney fino a 500 mila.

Esiste una calamita che attira l’oro?

L’esperimento

Ho trascorso un periodo relativamente lungo in una località di mare nella quale ho portato anche i miei strumenti professionali: un computer e un iPad. E in questo periodo ho provato a gestire la mia vita in modo diverso dal solito: lavorare quando si è in continua tentazione vacanziera è una costante prova di resistenza.
La notizia è che credo di avercela fatta.
Il nostro sistema di relazioni, di convenzioni, di schemi rigidi, prevede il riposo come alternativa netta al lavoro. In realtà – e questo è stato l’esperimento che ho condotto su me stesso – si può diluire il dovere nel piacere a patto di rinunciare a un po’ di quest’ultimo. Al posto di una settimana di completo relax, se ne possono fare tre di parziale relax.
Badate, è una scelta che non è priva di controindicazioni. Ci sarà sempre un momento in cui invidierete gli altri, i vacanzieri veri, quelli che hanno optato per la linea tradizionale, e questo rischierà di pesare sul vostro rendimento. Non dovrete cedere alle tentazioni di allungare gli spazi di riposo a discapito dei momenti dedicati ai committenti. La missione è essere diversi pur garantendo ai vostri datori di lavoro il normale rendimento.
Alla fine della giornata non sarete proprio riposatissimi come tutti gli altri, ma di certo sarete più felici di quelli che hanno esaurito la vacanza prima di voi e che vi mandano sms di nostalgia dall’ufficio.