Contro il fascismo del dolore

Tutti quanti, prima o poi, ci dobbiamo confrontare col senso di mancanza. Ed è un errore gravissimo ritenere che la propria voragine, quella dalla quale crediamo di non poter riemergere, sia più profonda di quelle degli altri. Soffriamo tutti, ognuno in modo diverso per cose diverse e al contempo con lo stesso diritto. Abbiamo vertigini di dolore tutte nostre e non abbiamo il diritto di imporle. Soprattutto non dobbiamo mai sovrapporle a quelle degli altri.

Sono due anni che mio padre se n’è andato e so, per certo, che il senso di mancanza è qualcosa di non recensibile. Però so anche che il miglior modo per celebrare qualcuno che non c’è più – prima o poi è un’incombenza che tocca tutti – è non infliggere il proprio dolore al mondo.
Quindi per prudenza, almeno per un giorno, oggi nella mia giornata ordinaria non mi lamenterò dei casini personali, leggerò i giornali con un distacco artificiale, lavorerò senza curarmi dei problemi acuminati che possono stare dietro l’angolo, cucinerò cantando e brinderò a una felicità prossima ventura (c’è sempre qualcosa in agguato e chissà mai che non sia qualcosa di lieto, e che cazzo).

Scrivevo qualche giorno fa che bisogna avere il coraggio di cambiare le nostre preghiere laiche. Di celebrare i nostri morti (ammazzati o no) in un modo nuovo, di sterilizzare le ferite riducendo al minimo il rischio che si riaprano, anche involontariamente. E scrivevo a proposito dei morti di mafia: “Meno intitolazioni, più narrazioni. Meno stucchi, più informazione. Meno contrapposizioni, più testa bassa e pedalare”.
Ecco, credo che questo proposito valga non solo per i morti (illustri) di morte violenta.
Dobbiamo imparare a seppellire i nostri defunti. Raccontandoli più che rimpiangendoli. Diluendoli in una risata più che imponendoli a ogni cena, tra il primo e il secondo lasciati a metà. Lasciandoci guidare dalla loro stella anziché brancolare nel buio della loro assenza.
Io mio padre l’ho raccontato in mille modi (orgogliosamente e senza farne una bandiera), e altrettanti sono quelli che ho taciuto perché una vita fa romanzo solo se riassunta e scremata.  Oggi mi piace pensare che lui non stia lassù a vegliarmi, tipo santino, ma che se ne fotta di quel mondo terreno nel quale se l’è goduta, dando e ricevendo con divertita equanimità. E soprattutto che si sbracci per convincere tutti i suoi beati colleghi di sorte a farci desistere dal rimpianto social piagnucolante e diciamo anche un po’ ridicolo.
La dignità dei nostri cari, quando non ci sono più, è nelle nostre mani. Più ci mancano, più serve ritegno. Il ritegno è l’unica promessa di fedeltà che possiamo fare a una persona che non c’è più.

Odiare una persona orribile

Mi è capitato più volte di difendere un diritto ancestrale, che è quello di odiare. Odiare non significa progettare vendetta o istigare alla violenza: significa manifestare un disprezzo netto, sancire un confine, strappare un foglio sociale. Da una parte io, dall’altra la persona odiata.

Ecco, ho letto a fatica la storia di questa Alessia Pifferi, la pseudomamma che ha lasciato morire la figlia di sete e di fame perché voleva spassarsela. E, io che non sono padre e che non lascerò traccia del mio passaggio su questa terra, ho sublimato il mio odio in questa orribile persona.

Sono certo che Dio può proteggerci dalle tentazioni più schifose e dalle pulsioni più abiette: non a caso lui è il migliore e noi siamo comunque suoi figli indegni. Ma se avesse un momento di distrazione e al suo posto prendesse il comando, tipo per le ferie, un suo vice, gli chiederei di distrarsi un attimo. Gli chiederei di affidare il caso Alessia Pifferi – ripeto donna orribile e vergogna di un’umanità senza vergogna – alle truppe più crudeli delle Guardie dell’Inferno. Magari trascinandosi appresso, e facendogli mangiare più fango possibile, anche quegli ignobili fratelli Bianchi che hanno ammazzato a calci e pugni un ragazzino dolce e inerme.

Ragionateci su.

Il senso dei vivi per la morte

Ogni tanto mi capita di pensare alla morte. Talvolta basta un dolorino in zona inaspettata, altre volte constatare che i vivi con i quali ho condiviso la giovinezza cominciano a diminuire di numero. Eppure non ho manco 60 anni ma francamente non aspiro alla longevità: non mi piacciono i film troppo lunghi, così come non mi piacciono gli articoli troppo lunghi (non a caso la mia rubrica su Repubblica si chiama Trentarighe).

“A chiunque non sia nell’oscurità di una bara, ricordagli che ha abbastanza”: il monito asciutto del poeta Walt Whitman riassume in modo mirabile il senso della vita e quello del suo opposto. Perché dinanzi all’eterno dilemma di cosa fare tra la nascita e la morte non è ancora stata scalfita l’importanza di godersi l’intervallo.
È naturale aver paura della fine, qualunque essa sia. È naturale concedersi la più ampia vastità di pensieri, del resto la morte è l’unico ambito nel quale noi e gli altri (viventi o no) siamo uguali. Nella sua poesia “’A livella”, il grande Totò ironizza sul concetto di uguaglianza in un dialogo immaginario tra un netturbino e un marchese defunti e seppelliti l’uno accanto all’altro. Il nobile si lamenta perché la salma del netturbino è stata deposta accanto alla sua: troppa miseria vicino ai suoi blasonati resti mortali. Ma l’altro lo riporta alla realtà dei fatti, dato che indipendentemente da ciò che si era in vita, quando si arriva a fine corsa, si diventa uguali grazie proprio all’azione della morte che livella tutto e tutti. E lo esorta a non perdersi in simili pagliacciate che sono esclusivo appannaggio dei vivi: “Nuje simmo serie… appartenimmo a morte”.

Nel 2014 fece scalpore la morte del cantante Mango che se ne andò mentre si esibiva sul palcoscenico. Parlammo proprio su questo blog di “morte felice”, quella di un artista che lasciò il palco della vita mentre era ancora – fisicamente – sul palco di un teatro. Una sorta di ossimoro biologico, un azzardo del destino. Più prosaicamente l’unica fortuna che ci viene incontro quando moriamo è probabilmente legata al nostro ultimo sguardo. C’è chi vede l’asfalto (e qui molto modestamente posso discettare di un certo miracolo), chi la faccia stralunata di un medico, chi il ghigno di un killer, chi le lacrime di coloro che ci sopravvivono, c’è chi chiude gli occhi per non vedere e chi li sgrana per rubare l’ultimo filo di luce. Ma è sempre questione di fortuna. Quella sera Mango uscì di scena tra gli applausi e non importa se erano disperati. Andarsene così, quando si percorre quella impervia strada obbligata che è la vita, è un modo per lasciare lo spartito sempre aperto, per far suonare all’infinito la canzone più bella.
Nel caso di Mango scrissi che in fondo si è davvero fortunati quando ci si trova al cospetto della morte senza che ci sia stato il tempo di fare le presentazioni.

Pensare alla morte non significa necessariamente temerla. Ma muoversi per tempo, non farsi cogliere in fallo, per saggezza o se volete per scaramanzia. Qui un link che ha del divertente, perché si può sempre ridere di tutto: basta che ci sia sostanza di idee.
Qualche anno fa l’americana Heather McManamy morì di cancro, ma prima ebbe il tempo di scrivere una serie di lettere alla figlioletta di 4 anni. Gliene scrisse parecchie e diede incarico al marito di centellinarle per ogni importante traguardo della bambina. E così andò. La prima, pubblicata su Facebook, iniziava così: “Ho una buona e una cattiva notizia. Quella cattiva è che, a quanto pare, sono morta. Quella buona, se stai leggendo tutto ciò, è che tu, invece, non lo sei affatto (a meno che non ci sia il wi-fi nell’aldilà)”.
Ecco un modo originale per guardare al dopo con ironia. Ci penso spesso a Heather McManamy di cui non avrei mai saputo nulla se nulla le fosse accaduto.
Il suo insegnamento è per me definitivo: almeno fin quando siamo in gioco su questo mondo, non dobbiamo mai dimenticare che se non riusciamo a ridere di noi, è giusto che lo facciano gli altri.

P.S.
Ops, questo post è più lungo della media…

I social e la solitudine che uccide

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Dopo la tragedia di Palermo con una bambina di dieci anni morta per un tragico (e stupido) gioco su Tik Tok bisogna, a tutti i costi, resistere alla generalizzazione. Quella di dare tutta la colpa ai social network e alle generazioni che vi sono immerse. E occorre innanzitutto contestualizzare. Tik Tok altro non è che un gioco e come molti giochi può essere pericoloso. È stato costruito scientificamente in modo da dare dipendenza, come tutti i social, col meccanismo perverso dell’autogratificazione. A tutti noi fa piacere riscuotere conferme e ottenere soddisfazioni: e ciò è normale. Meno normale è aspettarsi una gratificazione ogni dieci secondi: la droga del refresh ruba il nostro tempo e lo consuma in un’innaturale attesa del like che verrà. Lo scollamento sociale che ne deriva è tutto lì, in quel desiderio che vuole essere appagato istantaneamente. Non conta cosa fai per ottenerlo, conta solo fare qualunque cosa per essere premiato. Le tentazioni maligne, le cattive amicizie, le strade malfamate sono sempre esistite. Solo che prima erano fughe da casa, oggi sono fughe dalla realtà. E però, va ricordato che viviamo in tempi assai strani, in cui le distanze fisiche si allungano come le ombre della solitudine e che proprio grazie ai social stiamo colmando qualche lacuna sociale. Il contesto pesa, nel bene e nel male. Se persino le parole possono essere oggetti contundenti, figuriamoci i serbatoi online di parole, di immagini, di emozioni artefatte… E allora spieghiamo le regole d’uso e soprattutto combattiamo la solitudine imposta da questi giochi che ci illudono di vivere circondati da amici e invece scavano fossati tra chi siamo e chi ci illudiamo di essere.       

Beh, si muore

Da Ballota a Luarca.

Talvolta capita di imbattersi in foto attaccate a un albero, o in mazzi di fiori depositati all’angolo di un sentiero. Sono le “vittime del Cammino”, quelle che giornalisticamente sono parte della cosiddetta “Spoon River” di Santiago. Si stima che negli ultimi trent’anni i morti siano stati intorno ai duecento. Nel 2017 due testate giornalistiche, La Voz De Galicia e FrancigenaNews, hanno fatto un po’ di statistiche e hanno constatato che si muore prevalentemente di infarto, ictus e, in questo periodo, di disastri causati dai colpi di calore (immagino l’ebollizione di pensieri di mio padre a tal proposito, ma questa è un’altra storia). Poi ci sono gli investimenti su strada, gli annegamenti e, pochissimi, gli omicidi. Famoso il caso di un maniaco omicida che modificava le indicazioni del Cammino a mo’ di trappola: lo arrestarono quattro anni fa ed è tragicamente una storia da film. Circa duecento morti quindi, in trent’anni. Il dato può impressionare se buttato lì, senza altri parametri.
E allora mettiamoli in campo, ‘sti altri numeri. 

Nel 2018, l’ufficio del Pellegrinaggio di Santiago di Compostela, secondo le stime ufficiali, ha accolto 327.378 pellegrini, la maggior parte sono donne: il 93,49 % sono arrivati a piedi, il 6,35 % in bicicletta, lo 0,10 a cavallo (il Galoppo di Compostela?), e lo 0,2 in carrozzina. Parliamo di pellegrini, cioè di persone che si registrano: da questi numeri è quindi esclusa quella parte di camminatori che, come me, marciano invisibilmente anarchici.

Quindi a fronte di una folla che si cimenta in un’impresa – parlo del Cammino del Nord o anche del Cammino Francese – qualcuno muore. È un mio problema, lo so, ma quello del rapporto con la morte è un tema per il quale non mi sento allineato col sentire comune (e non è un motivo di orgoglio). Secondo i miei parametri del dolore, la morte durante una missione, durante una gara, durante un’esperienza che ci vede concentrati è altra cosa rispetto al game over per il vaso che cade sulla testa dal terzo piano, al boccone che ci va di traverso (“assassinato dal pane e panelle”). È una morte contestualizzata, è l’addio al palcoscenico con l’orchestra che suona e non l’inghiottimento nel gorgo di un cesso del quale non abbiamo manco tirato noi la catenella. Mi è capitato più volte di polemizzare qui e altrove contro chi invocava, ad esempio, la sospensione di una maratona dopo la morte di un concorrente. Una bestemmia innanzitutto per la vittima che quella maratona voleva chiuderla col tempo migliore e che si sarebbe rivoltata nella tomba nell’apprendere di aver bruciato la gara a migliaia di persone che, come lei, si erano rotte il culo per un anno prima di cimentarsi in quella prova estrema. 

A tutto questo pensavo stamattina mentre, dopo Cadavedo, in cima a una salita mozzafiato ho trovato una foto attaccata a una ringhiera: “In loving memory of Kyriacos Zindilis”. Ero talmente stanco che ho fatto una foto indecente (concedersi la debolezza di essere palesemente deboli è una forza che sto sperimentando nel Cammino), ma l’ho fatta più per ricordarmi di non dimenticare che per altro.

Per i restanti chilometri roventi – oggi c’era un caldo tragicamente palermitano – mi è rimasto impresso il volto di quell’uomo sorridente. E mi sono immaginato i suoi ultimi frame. L’entusiasmo della partenza alla mattina, le chiacchiere, la stanchezza che arriva, il sudore tra la maglietta e lo zaino, la prova da superare, la felicità per la cima raggiunta, un doloretto ma chissà, il cielo, il sole in faccia come al mare, come in vacanza. E all’improvviso la concitazione attorno, degli altri che si chiedono cosa accade e lui che si compiace anzichè preoccuparsi: ve l’avevo detto che ce la facevo, è bellissimo, anche questo sole… poi non fa così caldo, tranquilli che ora si riparte, si ricomincia.

E lui tranquillo che ricomincia. Altrove, senza fatica.

(21 – continua)          

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

        

Il Martini delle emozioni

Seguo da ieri le dirette di Radio Capital in cui si parla di Vittorio Zucconi e si celebra con garbo la sua memoria. Sono sempre stato un suo appassionato lettore e, da vero maniaco della radio, un suo ascoltatore sfegatato. Il senso di mancanza, in generale, è una sensazione che ho sempre accarezzato con indecente interesse: perché – lo sappiamo – è nella malinconia dell’assenza che troviamo il senso di molte cose che normalmente tendono a sfuggirci. Insomma da ciò che non c’è (più) ricaviamo il significato di ciò che ci piacerebbe avere ma che non ci curiamo di avere.

Così, nel rimpiangere uno sconosciuto così familiare, ho riannodato molti fili: il tepore di serate familiari con la radio accesa e il vino nel bicchiere; i ritagli di un suo articolo degli anni Ottanta  appeso al muro della mia stanza; il viaggio in moto ai confini del mondo con i suoi podcast a diluire lingue, costumi e climi a me magicamente estranei; le discussioni al giornale sulle acrobazie di certi suoi attacchi; la vita oltre le parole scritte e viceversa.

C’è nella morte un mistero insondabile che non è biologico né religioso né filosofico, ma egoistico. Perché ci sono dipartite che riescono a darti quel disturbo sottile che è dolore, malinconia e gioia tutti insieme? Perché la fine di una vita altrui rimbalza nella tua che continua, magari per forza di inerzia, tra mille scossoni?

La verità è che probabilmente non c’è nulla di definitivo se ci si trova dinanzi a qualcuno che vi racconta o vi chiede di raccontargli una storia (cvd). Il divenire è principalmente un esercizio di libera e inebriante malinconia. E chi non lo capisce è un troll delle emozioni e come tale va tenuto a distanza con la canna.

Insomma il senso della vita applicato alla morte è il cocktail Martini delle consolazioni: forte e inebriante, ma attenzione ad abusarne.

In morte di un meraviglioso signor nessuno

L’articolo pubblicato su Repubblica.

Ci sono situazioni che sembrano lontanissime eppure sono vicine, vicende che possono solo essere frutto di immaginazione e invece accadono. Ci sono tragedie che sono film, tanto è drammatica la teatralità che le avvolge, e invece sono reali, investono qualcuno che conosciamo o che abbiamo appena incrociato per strada. Giuseppe Liotta era un medico che curava i bambini e lo faceva con la passione di chi non confonde il lavoro con la routine. Infatti, sabato scorso, aveva deciso di andare in ospedale nonostante la natura gli avesse scatenato contro tutte le sue forze, quasi a voler mettere alla prova il suo eroismo. Ma Giuseppe Liotta non era un eroe. Era un medico, un medico che curava i bambini. E il suo ospedale non era a un tiro di schioppo, ma a Corleone. Così non ci ha pensato su manco mezza volta quando è salito sulla sua auto ed è partito verso ciò che per noi può essere solo frutto di immaginazione e invece accade. Hanno ritrovato il suo cadavere cinque giorni dopo a dieci chilometri dalla sua auto, sepolto dal fiume di fango che lo ha strappato alla sua straordinaria ordinarietà: la famiglia, il lavoro, il senso del dovere.
C’è qualcosa di medioevale nella congerie di acqua, terra, pietra e lamiere che punisce l’incolpevole, sacrificandolo per un merito e non per una colpa. Un imperscrutabile disegno divino per chi crede in un dio, un’atroce ingiustizia per tutti gli altri.
Giuseppe Liotta se ne va nel fiore degli anni come un fiore reciso ancor prima di sbocciare. E non è retorica, ma crudo realismo. Quanti altri Giuseppe Liotta ci sono nel nostro mondo di sopravvissuti? In un’Italia che ha abolito il lavoro chi è disposto a rischiare per fare semplicemente il proprio dovere? E chi è che lo fa senza sventolare bandiere o farsi bandiera egli stesso?
Giuseppe Liotta, il dottore Giuseppe Liotta, era il simbolo migliore di una forza silenziosa che dà il meglio di sé dietro le quinte, che olia gli ingranaggi di una solidarietà perduta, che aiuta per vocazione senza ricevuta di ritorno. Un signor nessuno che diventa ai nostri occhi un gigante quando improvvisamente non c’è più: perché eravamo distratti, perché ci occupiamo sempre delle stesse cose e delle stesse persone, spesso inutili se non perniciose, mentre trascuriamo il buono che non fa romanzo, il bello che non fa scena, l’utile che non fa audience.
Avvertire la mancanza di uno sconosciuto e soffrirne è il rimorso che ci meritiamo.

Peppino Impastato, il Che Guevara di Sicilia

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Peppino Impastato può essere considerato l’eroe antimafia più trendy. Non si offendano parenti ed estimatori poiché è proprio questo suo essere icona perfetta, simbolo perenne e mai impolverato, una delle ragioni fondamentali della sua popolarità. E la popolarità fa bene al messaggio.
Impastato è nell’immagine collettiva, anche nel senso fisico di fotografia, un Che Guevara di Sicilia. La sua rivoluzione è stata scandita con le parole giuste (“La mafia è una montagna di merda” è di una semplicità geniale) e con i mezzi più moderni che l’epoca gli ha consentito (del resto la radio è stato il primo vero social network). È per questo che la sua rappresentazione iconografica è così agile. Su Facebook ci sono centinaia di gruppi ispirati a lui, dai circoli politici ai cineforum, dalle biblioteche alle gare sportive. Peppino Impastato è un brand antimafia inscalfibile, che raccoglie consensi a ogni latitudine. Ne approfittò qualche anno fa un’azienda di occhiali, la Glassing, che imbastì una pubblicità con la sua immagine (poi ritirata per le polemiche). In Sicilia sono pochi i comuni che non hanno una via, una piazza, un lungomare o un abbaino intitolato a lui. Nel 2009 un sindaco leghista (of course) di Ponteranica in provincia di Bergamo decise di rimuovere dalla biblioteca pubblica la targa che lo ricordava, “per onorare personalità locali”. Sei anni dopo un’altra amministrazione ci ripensò e gli intitolò un centro giovanile, a conferma che spesso non servono cento passi per raggiungere il cuore del problema, ma ne basta uno solo, giusto.
Oggi l’eredità di Peppino Impastato è di valore inestimabile perché coincide con la genuina perfezione della sua icona, che è messaggio e immagine, simbolo e sostanza.
Servono radici forti per usare bene le ali.

Annamaria

“Dietro ogni uomo di successo, ci sono una moglie fiera e una suocera sorpresa”.
Harry Truman

Se mai avessi avuto successo avrei avuto una moglie fiera e una suocera divertitissima. Perché Annamaria, mia suocera, era così: interessata, avida di storie, curiosa. Quindi divertente e divertita.
Mai stata una suocera suocera. Nel senso che mai nel corso dei naufragi della mia vita – almeno quelli che lei ha vissuto di ruolo, per gli altri la sua vividezza mentale le dava il tormento perché non sopportava che ci fossero cose di me di cui non si potesse discutere davanti a una tavola imbandita – si è mostrata col ditino alzato pronta a difendere tesi precostituite.
Annamaria era elegante e solitaria. Ma di un’eleganza d’animo ancor prima che esteriore, sebbene anche nella vecchiaia curasse attentamente il suo aspetto guardandosi bene dall’inciampare in quegli anacronismi estetici che fanno di tante vecchie grotteschi fenomeni da baraccone. Annamaria, a dispetto dell’età, non era vecchia. E mai lo sarebbe stata, nemmeno a 150 anni.
Era di un solitario maniacale: coltivava la sua indipendenza centellinando le sue sortite e camuffando da discrezione una sua innata pigrizia. Usciva poco perché le scocciava separarsi dal suo mondo fatto di romanzi, vissuti e letti. Perché Annamaria era, oltre a una divoratrice di storie (e lì riuscivo a convincerla a venire a cena da noi, massimo tre persone, buon vino che aveva scoperto in tarda età e pane fatto in casa) anche una gran raccontatrice.
Aveva i cassetti pieni di sogni e gli armadi privi di scheletri. Insomma sapeva bene dove stivare i sentimenti. Per questo mi piaceva. Perché leggeva più di me; perché riusciva a essere trasversale nella sua visione ottocentesca della vita; perché era una donna buona nonostante esercitasse senza esitazioni la facoltà del non perdono; perché non sapeva cucinare ma era una buona forchetta; perché era femmina nel gestire i segreti come rospi non sputati.
Ebbe una vita con risvolti incredibili e me ne narrò un bel pezzo. Negli anni ho preso un bel po’ di appunti per un libro o per una sceneggiatura e vi assicuro che ho in mano una storia bella, umana, divertente e malinconica. Come lei.
Solo che adesso non mi va più di raccontarla.
Fai buon viaggio Annamaria, in un’altra vita t’insegnerò a fare il pane in casa. E tu mi insegnerai a condividerlo con le persone che davvero valgono.

Addio al nostro alfabeto musicale

Ci si abitua alle assenze, non ci si abitua mai alle voragini. Perché un’assenza è metafisica, una voragine è fisica. Quella di Prince è una voragine per noi affamati di rock, per noi ex giovani sopravvissuti agli anni Settanta, per noi mediocri strimpellatori in cerca di un genio da imitare.
Prince era in grado di sconvolgere tutto l’universo musicale conosciuto. Toglieva eco ed effetti laddove una teoria di delay copriva le nefandezze di un cattivo esecutore, cambiava nome quando il suo era troppo famoso, riempiva di note il vuoto di mille esistenze che, come la sua, venivano dal nulla senza aspirare ad altro che non fosse poco più del nulla.
Ci ho pensato per qualche ora, come se dovessi elaborare un lutto personale. Ed effettivamente non di lutto personale si tratta, ma generazionale. Nell’epoca in cui una generazione ha perso pilastri come David Bowie, Maurice White e (per l’Italia) Pino Daniele, c’è poco da sperare: quando un artista passa dalle cronache alla storia è il momento di fermarsi e respirare. Come quando arrivi a cinquemila metri di altitudine e guardi quel che c’è sopra pensando a quel che hai sotto: null’altro da fare, solo tesaurizzare l’esperienza, che sia ossigeno, musica o nostalgia compressa non importa. Devi respirare e basta.
Respiro.
Ok.
Prince era l’alfabeto di chi aveva due orecchie collegate a un centro del desiderio. Poteva non piacere, perché certe sue performances erano davvero urenti. Ma non importava: a nessuno piace la consecutio temporum, ma tutti sanno a che serve. E Prince serviva. A sognare una pioggia viola senza chiedersi nulla sul colore pernicioso. A chiedersi quando le colombe piangono. A implorare un bacio come un’ossessione violenta.
Non so quanti vi racconteranno della vita spericolata del genio di Minneapolis, non immagino quanti saranno i link con la sua fama di simbolo (bi)sessuale, né mi interessano i dettagli di una morte misteriosa come la sua vita privata.
So soltanto che Prince l’ho inseguito per il mondo, che l’ho raggiunto in un remoto bosco della Danimarca: e lì l’ho trovato meravigliosamente snob (non eseguì neanche uno dei suoi cavalli di battaglia). Che l’ho apprezzato anche per le sue trovate più commerciali (perché lo stile non è acqua).
Che mi mancherà come il caffè la mattina, quando hai gli occhi ancora chiusi e ti rifugi in una certezza antica, un riff in la maggiore, una frase nota in una bocca impastata, una voce amabilmente stridula, la chitarra che urla, buongiorno mondo ma che cazzo di buongiorno ti meriti se è sempre lo stesso mondo di merda? Buongiorno lo stesso. E buonanotte Prince Roger Nelson, un nome paradossalmente lungo per uno che a un certo punto ha scelto di far passare l’apocalisse sul suo stesso elemento anagrafico, con un’ambiguità ostentata come la maschera di Pulcinella.
Buonanotte all’uomo che rinnegò se stesso per darsi una libertà maggiore, quella di superare i confini di una popolarità che rischiava di omologarlo anziché esaltarlo.
Buonanotte al macho di un metro e cinquantotto centimetri, sul quale nessuno ha mai avuto il coraggio di ironizzare.
Buonanotte e vaffanculo, maledizione
Chi ci darà il risveglio domani?