La lezione norvegese

Questo bel pezzo di Adriano Sofri e soprattutto il ricordo di una recente vacanza mi forniscono una lente diversa con la quale osservare la tragedia di Oslo.
Nel paese dove tutto era regolare, modesto, composto, anche l’esplosione di un petardo avrebbe portato scompiglio. Figuriamoci le bombe. Né, al momento, si può contestare alle forze dell’ordine norvegesi la sottovalutazione di alcunché. In quelle lande persino gli estremismi hanno un contegno.
Uno dei maggiori scandali con cui il Paese aveva avuto a che fare era stato, nel 2004, il furto dell’Urlo di Munch: i norvegesi credevano che per tenere al sicuro un capolavoro di quel livello (e di quel valore) bastassero una finestra socchiusa e un paio di inservienti che, girando per il museo, ogni tanto gettassero un’occhiata sulla tela. Quando i ladri umiliarono  il Paese intero – perché l’Urlo è venerato da tutta la Norvegia – non accadde nulla di eclatante. Bastò la vergogna dinanzi al mondo. Perché Oslo è la capitale di un paese candidamente orgoglioso. Un paese in cui i poliziotti, che girano per le strade disarmati, adesso si preoccupano di dover impugnare le pistole. Il che sarebbe per loro, agenti rispettati per ciò che rappresentano e non per il potere di intimidazione di un’arma, un’umiliazione.
Credo che dovremo prestare molta attenzione a questo 11 settembre scandinavo.
La grandezza di una civiltà non si misura soltanto col metro americano, cioè con la capacità di reazione agli eventi e con le conseguenti trasformazioni sociali. C’è un altro metodo di riscatto che punta invece all’immutabilità dei tempi e dei modi di vivere. Reagire senza cambiare perché ai cambiamenti imposti col terrore si risponde con una calma quasi gandhiana, senza ovviamente lasciarsi pestare i calli. Probabilmente sarà questa la lezione norvegese al mondo delle guerre sante, delle bombe intelligenti e delle missioni di pace armate.

Frammento di 11 settembre

Io, come tutti voi, ricordo cosa facevo l’11 settembre 2001 intorno alle 15.
Stavo rientrando al giornale, in ritardo. Una mia amica mi chiamò al cellulare. Mi chiese cosa stava accadendo in America perché, lo disse quasi scherzando, “lo sai che tra quattro giorni io e mio marito dobbiamo partire per New York…”.
Risposi: “Guarda, sono appena arrivato. Dammi il tempo di raggiungere la mia scrivania”.
Attraversai la redazione e non mi accorsi che era semideserta nonostante l’orario. Tutti i miei colleghi, i fattorini, i grafici, i fotografi, erano coagulati davanti alle tv.
Ricordo di aver catturato involontariamente l’immagine di un aereo che sfondava un grattacielo. Il mio cervello in quegli istanti la registrò come se fosse il fotogramma di un film.
Qualche istante dopo credetti di capire. Ma per capire veramente avrei dovuto aspettare molti anni.

L’uomo che truffò Osama bin Laden

Sapevate che la difesa aerea degli Stati Uniti, anche volendo, non avrebbe potuto far nulla per evitare i morti dell’11 settembre 2001?
Sapevate che di Al-Quaeda, ufficialmente fondata e operante dal 1988, i servizi segreti americani non seppero nulla fino al 1996, nonostante gli attentati contro basi e cittadini statunitensi in mezzo mondo?
Sapevate che la rivelazione arrivò da un “pentito” che aveva truffato Osama bin Laden?

Ieri mi sono imbattuto in questo e-book e non l’ho mollato sino alla fine. Se avete tempo e voglia, dateci un’occhiata.

Scie chimiche e scie comiche

Foto di Paolo Beccari
Foto di Paolo Beccari

Ieri mattina ho partecipato a un dibattito radiofonico su scie chimiche e altri presunti complotti ai danni dell’umanità.  Il mio contributo alla trasmissione era puramente giornalistico, ma più che portare fatti (non sono un esperto di complotti) difendevo La Notizia come entità ormai sconosciuta.
Gran parte degli argomenti branditi dai “complottisti” sono basati su notizie non verificate, non pesate e coltivate in modo estensivo. Cioè, uno spara una fesseria che è talmente bella da non poter essere relegata in un ruolo di fesseria. Un altro la riprende, un altro fa lo stesso e così via. La fesseria a ogni passaggio si arricchisce di nuovi elementi, diciamo di microfesserie, che con uno strano meccanismo finiscono per legittimare ulteriormente la testimonianza di partenza (che, non dimentichiamolo, è una fesseria). Né più né meno una catena di Sant’Antonio di una innocente superficialità, una catena che non ha una fine: il “complottista” perfetto, infatti, non prevede una soluzione per i misteri che crede di voler svelare. Perché constatare che le cose spesso capitano per caso e che, addirittura, hanno un inizio e una fine, comporta un procedimento mentale in cui bisogna arrendersi all’evidenza. E l’evidenza è nemica del “complottista”.
Qualcuno dovrebbe spiegare a queste persone che il colpo di scena viene a noia in un copione costruito solo coi colpi di scena. Ma che ci volete fare? L’uomo sulla luna, l’11 settembre, la morte di Michael Jackson sono eventi troppo complessi per non essere stati architettati da un Grande Vecchio che sta a metà tra Fantomas e Totò Diabolicus.
Risate, applausi, sipario.

Scemenze presidenziali

Anche Obama ha i suoi bug.

La cenere di New York e quella di Kabul

Che gioco è quello in cui, alla fine, tutti perdono? E’ la domanda – banale quanto volete – che mi ronza in testa da qualche anno, dopo la strage dell’11 settembre 2001. Da allora, ad ogni anniversario, le due parti fanno, a modo loro, bilanci trionfali. Da un lato il progressivo annientamento degli “Stati canaglia”, dall’altro una continua pressione (anche psicologica e mediatica) su Bush e il suo “popolo di infedeli”.
Ci sono ancora molti dubbi su ciò che accadde la mattina di sei anni fa nei cieli d’America, i più sorvegliati al mondo. Non riesco ad avere un’idea precisa degli scenari, perché mi sono ingozzato di ogni tipo di documento, articolo, video, fanzine, pizzino sull’argomento. Posso solo riferire ciò che la pelle trasmette, perché a quella devo limitarmi: sotto c’è la carne, e in questa storia la carne brucia tra le macerie.
Il popolo Usa ha dimostrato una coesione degna della sua tradizione (non antica, peraltro). Nei momenti difficili, tutti col Presidente, sempre. Poi gli si faranno le pulci.
Le bombe intelligenti perdono punti nella scala del QI anche se a lanciarle è un premio nobel. Figuriamoci se le tira un coglione.
La guerra preventiva è un segno di onnipotenza che genera orfani preventivi, fame preventiva, vendette preventive.
Alcuni giornali, all’indomani delle stragi, scrissero: “Siamo tutti americani”. Dalle mie parti, per cultura, siamo più arabi che americani. Non lesiniamo aiuti e solidarietà, non abbiamo pulsioni da kamikaze. E soprattutto se vogliamo fare il pieno di benzina, ci affianchiamo con l’auto e paghiamo, non occupiamo militarmente tutto il quartiere per prenderci il distributore.
L’11 settembre è una buona occasione per riflettere sulle vittime senza colore. A Manatthan come a Kabul, la cenere è grigia.