Silvio e l’ars Amanda

Maurizio Belpietro mette nero su bianco quel che ieri nemmeno Angelino Alfano aveva il coraggio di dire. E cioé che esiste un filo logico che unisce le sorti del premier con quelle della nota ragazzina americana. I giochi a sfondo sessuale, direte voi. No, il fatto di essere finiti davanti ai giudici. E allora perché non “Silvio come Rudy Guede”?

Un Angelino caduto dal cielo

Angelino Alfano, neo segretario del Pdl, s’impegna a fare del suo partito “un partito degli onesti”. Il che implicitamente significa che qualcosa da quelle parti ci deve pur essere di storto se i magistrati pizzicano ogni tanto qualche ladruncolo o qualche mafiosetto con cariche più o meno importanti nel partito. Il richiamo, in sede di dichiarazioni programmatiche, all’onestà come elemento innovativo fa il paio con la famosa costruzione del partito dell’amore che il principale di Angelino, don Silvio, abbozzò qualche anno fa, facendo ridere mezzo mondo.
I valori – certi valori universali –  non si distribuiscono come volantini, non si sventolano come bandiere. Si assorbono, si professano. Anche perché una volta costruito il partito dell’amore, dell’onestà, della sincerità, della devozione alla beata vergine, bisognerà prendersi la responsabilità di inquadrare in modo inoppugnabile il nemico politico e biblico: chessò, un partito dell’odio, della deliquenza, della bugia,  dell’ateismo e dell’alito cattivo…
Al primo che organizza un referendum sul ripristino del comune senso del ridicolo io prometto fedeltà eterna e appoggio incondizionato.

Le sculacciate di Bossi

Berlusconi 1: “Non mi ricandido, dopo di me il candidato premier sarà Angelino Alfano”.

12 aprile

 
Berlusconi 2: “Tremonti può essere il prossimo candidato premier”.

4 maggio

Eletti dagli italiani

La giustificazione che, dalle parti della maggioranza, viene ripetuta in modo ossessivo appena qualcuno solleva il dubbio sulla liceità delle azioni del premier e dei suoi sodali è: “Sono stati eletti dagli italiani”. Come se il fatto di essere in carica dopo un voto democratico non escludesse la possibilità di commettere reati o di adottare comportamenti poco consoni al ruolo che si ricopre.
Una persona “eletta dagli italiani” non è migliore degli italiani, non sta al di sopra delle leggi che riguardano gli italiani. Non rappresenta nemmeno gli italiani, ma qualche italiano: ad esempio, io che non voterei mai per Dell’Utri non ripongo alcuna speranza nella sua azione politica, al contrario ho votato in modo che qualcuno possa contrastarla.
Discorso opposto per il buon gusto e l’educazione che, sì, devono accomunare tutti i deputati e senatori: la correttezza dovrebbe essere il principio fondamentale. Soprattutto per i membri del governo.
Avete visto il ministro della Giustizia lanciare la sua tessera della Camera contro i banchi dell’Idv? Avete sentito il ministro della Difesa mandare a quel paese il presidente della Camera? Che colore hanno questi gesti? Non sono né rossi, né neri, né azzurri. Sono di una tinta opaca e indefinita come la mediocrità. Perché forse, più che buttarla in politica, è il momento di arrenderci all’evidenza. Siamo governati da gente da poco. Molti di questi signori, se non fossero stati imbarcati nell’Arca della politica, sarebbero oscuri venditori, traffichini, impiegati assenteisti, pataccari da autogrill, professionisti pregiudicati. Anche se “sono stati eletti dagli italiani” li dobbiamo giustificare quando mettono i piedi nel piatto?

Prescrizione nana

La nuova “prescrizione breve” è stata disegnata per imputati che abbiano oltre 65 anni, senza capelli, ricchi, alti meno di un metro e settantuno (tacchi inclusi), discretamente puttanieri. Il guardasigilli Alfano assicura che il provvedimento è leggero e non avrà gli effetti devastanti che qualcuno intravede. Ha ragione: servirà a un solo abitante su oltre sessanta milioni.
La legge è uguale per tutti. Gli altri.

Aspettando il 6 aprile

Dal 6 aprile scopriremo se un manipolo di giudici vuol far passare il gossip attraverso il setaccio della storia o viceversa. O se, più semplicemente, vuole incastrare un malfattore. Bisognerà aspettare quindi.
Quel che è certo è invece che l’attualità (che è la madre della storia) ci costringe a scrivere capitoli di una farsa con protagonisti grotteschi che non meriterebbero neanche il ruolo di comparse, se solo il merito valesse nel giudizio finale.
Renzo Bossi assediato dai cronisti che lo interrogano sui destini della nazione.
Nicole Minetti intervistata dalla prima televisione al mondo, la Cnn, che la qualifica come l’igienista dentale di S.B. e nulla di più. Per fortuna.
Signore e signorine del Pdl chiamate a raccolta per testimoniare in tv, tutte imbellettate, l’onestà virile e intellettuale del premier.
Maurizio Gasparri che invoca il processo breve e maledice il giudizio immediato, perché c’è brevità e brevità.
L’inopinato ministro Angelino Alfano che ha confuso il suo ruolo di Guardasigilli con quello di guardiacaccia o peggio di guardia del castello.
Che pena!

Certezza del diritto

Il ministro Alfano ha un iPhone.

Ciancimino, Alfano e la Palermo che non vuol vedere


Quanto dista il tutto dal suo contrario? C’è un sistema di sicurezza che ci garantisce, anche a futura memoria, dalle frequentazioni sbagliate?
Queste domande possono sembrare criptiche e soprattutto slegate l’una dall’altra. In realtà così non è, almeno per il caso che andiamo a esaminare.

Massimo Ciancimino sta fornendo ai giudici la sua versione sui rapporti tra il padre, ex sindaco di Palermo condannato per mafia, e pezzi dello Stato. Sta riportando frasi e documenti del genitore che proverebbero rapporti (di dipendenza? di causalità? di connivenza?) tra i vertici di Cosa Nostra e quelli di Forza Italia.
Il ministro della Giustizia Angelino Alfano bolla come scempiaggini le parole di Ciancimino e sciorina tutti i provvedimenti del governo, presente e passato, contro i boss. Insomma offre l’assist al premier che descrive il figlio dell’ex sindaco mafioso come un “ciarlatano”.
Questa è la spremuta della cronaca. Un concentrato estremo di quello che tutti dicono, scrivono, leggono.
Ma c’è dell’altro su cui sarebbe bene riflettere.
Massimo Ciancimino e Angelino Alfano sono, o sono stati, distanti fisicamente meno di quanto si possa pensare e sono la dimostrazione di come il tutto e il suo contrario possano sfiorarsi. Di come le frequentazioni, pur rimanendo nella sfera delle responsabilità personali, non hanno un certificato di garanzia universalmente valido.
Sono entrambi addendi della borghesia siciliana, anzi palermitana (pur essendo Alfano agrigentino), con qualche amico in comune. I due hanno frequentato gli stessi ambienti e condiviso i salotti di concittadini illustri (magari senza incrociarsi). Ciò non prova nulla, né costituisce appiglio per nessuna speculazione giudiziaria. Anche perché le persone che si frappongono tra l’uno e l’altro sono, per usare un termine trito ma comprensibile a tutti, perbene. Gente onesta, comunque.
Ve la porgo in positivo, per essere chiaro. Ciancimino e Alfano pur battendosi da opposte barricate, incarnano unitariamente un principio calpestato negli anni della emergenza mafiosa: quello secondo il quale non può esistere il reato di conoscenza; quello per cui i ruoli del divenire non combaciano matematicamente con i flash del passato.
Conosco Massimo Ciancimino – siamo stati compagni di classe molti anni fa – conosco anche i suoi fratelli e sua sorella e, pur restando fermo nelle mie posizioni antimafia, sono interessato senza pregiudizi alle sue deposizioni. Anche se mi sono fatto un’idea.
Non conosco Angelino Alfano – è più giovane di me – conosco i suoi atti, la politica dello schieramento di cui fa parte e, pur tra mille perplessità, sono ansioso (con qualche preoccupazione) di vedere dove porterà la sua azione di governo. Anche se mi sono fatto un’idea.
Conosco i palermitani, conosco una certa superficialità nel rinnegare frettolosamente passi di cui magari c’è da spiegare qualcosa, e una certa facilità nel condannare chi ammette di poter spiegare senza esitazioni.  L’allergia al giunco che si rialza, che sia Ciancimino o un imprenditore probo, nella città che sbuffava per le sirene di Falcone e che vota a destra quasi di nascosto è un dramma antico. Qui il migliore giudizio è purtroppo sommario perché il tempo per quello ponderato è intollerabilmente lungo: le voci corrono, le dicerie si inseguono e per i fatti c’è troppo da aspettare.
Ciancimino e Alfano potrebbero essere un paradigma di nemici vicini, navi nella stessa bottiglia, come nella vita può accadere. Invece nessuno ci pensa o si sogna di raccontarli così.
Molto più comodo collocarli lontani: l’uno nella Palermo dei veleni, magari somministrati da pm stregoni; l’altro nella Roma gagliarda, periferia di Arcore, capitale di Berluscolandia.
Una finta distanza. Un’occasione sprecata per misurare con precisione quanti passi ci sono tra il tutto e il suo contrario

Silenzio, parla Dell’Utri

Marcello Dell'Utri

Il ministro Alfano ha detto qualche giorno fa che i magistrati devono pensare a lavorare ed evitare di perdere tempo in televisione. In linea di massima sono d’accordo. Ho notizie di un importante magistrato che si occupa più delle sue pubblicazioni su Micromega e delle sue apparizioni davanti alle telecamere che dei processi che deve imbastire. E questo non mi piace.
Però, come troppo spesso accade, le buone ragioni diventano cattive se il contesto le inquina. Perché Alfano fa quella dichiarazione? Perché deve scatenare un fuoco di copertura nei confronti del suo capo, uno che non perde occasione per spalare stallatico addosso alla magistratura.

Ieri pomeriggio, Raidue, trasmissione “Il fatto del giorno”, conduttrice Monica Setta (una nostra cliente).
In collegamento da Palermo c’è il senatore Marcello Dell’Utri, che – per onor di cronaca – ha subito una condanna in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione di tipo mafioso e ha patteggiato una pena di due anni e tre mesi per frode fiscale.
Il fatto del giorno shakerato dalla conduttrice è la deposizione dei mafiosi Graviano al processo d’appello contro Dell’Utri.
La Setta celebra l’agonia della decenza giornalistica inginocchiandosi davanti al suo ospite e concedendogli un quarto d’ora (praticamente quasi la metà del programma) per propagandare la sua tesi. Senza mai accennare all’ipotesi accusatoria, come se Dell’Utri fosse lì per caso, spettatore illustrissimo e riverito.
Se Alfano non avesse tuonato contro i pm che utilizzano la tv in modo improprio mi sarei arreso davanti all’ennesimo atto di asservimento di una giornalista che non conosce la differenza che passa tra i fatti e le opinioni, la tessera professionale e quella di partito, l’attendibilità e la sfacciataggine.
Invece mi sono arrabbiato molto.
Perché a un imputato condannato in primo grado deve essere concesso quel che a un pm incensurato viene negato?

I conigli che vogliono uccidere Berlusconi

uccidiamo berlusconi

C’è un nutrito gruppo su Facebook che si intitola “Uccidiamo Berlusconi”. Dodicimila dementi ruggiscono più o meno anonimamente minacce di morte contro il premier con la stessa disinvoltura con la quale aderiscono al gruppo che si propone di adottare una ragazza svedese di vent’anni, o a quello che vagheggia di mandare Emilio Fede sul satellite anche fisicamente, o a quello che si cimenta nel test “quanto sei arrapato?”.
Sono molto critico nei confronti di Facebook e in tal senso ho già dato.
Però nel caso di Berlusconi voglio spendere qualche parola in più.
Qualcuno dovrebbe spiegare a queste persone che le adunate virtuali hanno un valore direttamente proporzionale a quello degli argomenti apportati. Se infatti qualcosa di male non si può dire nei confronti di internet, quel qualcosa riguarda proprio il rapporto tra contenuti e vettori: i primi assumono peso specifico solo se i secondi sono attendibili, certificati (cioè con nome, cognome, indirizzo eccetera).
“Uccidiamo Berlusconi” è l’immagine vacua e superficiale di un elettorato che blatera qualcosa e semina l’esatto contrario. Quante di quelle persone andranno a votare alle prossime elezioni (l’unica occasione per sopprimere politicamente il Cavaliere)? Quante di quelle persone sarebbero disposte a scendere in piazza per manifestare a viso aperto un dissenso civile e non anonimo? Quante di quelle persone considerano la politica un atto disgiunto dal clic spensierato del mouse, tra una chat e un sms?
“Uccidiamo Berlusconi” purtroppo fa bene a Berlusconi perché santifica le storture, rafforza il virus che sta uccidendo questo Paese, annacqua il dissenso, quello vero.
Mi appello a chi ha un account (o come diavolo si chiama) su Facebook: fate in modo che un nuovo  gruppo si proponga con successo per abolire l’iniziativa di cui sopra, senza che ci arrivi prima un Alfano o uno sgherro ministeriale travestito da sommo censore.
La riuscita di quest’operazione sarebbe l’ideale smentita di un mio convincimento: su Facebook il tempo non si perde, si dilapida.