Ho seguito ieri Piazzapulita con l’intervista a Pietro Grasso non tanto perché mi interessavano le ragioni del neo presidente del Senato (sono sempre stato convinto della sua buona fede e della correttezza del suo operato) quanto perché volevo comparare due metodi giornalistici molto in voga: il formiglismo e il travaglismo.
Corrado Formigli è scattante e nodoso quanto Marco Travaglio è rilassato e appuntito. Il primo saltella, interrompe, desume e ammicca nervosamente. Il secondo si spalma sulla sua tesi, sorride acido, gioca di appostamento. Formigli inoltre dà l’impressione – l’impressione, ripeto – di non capire proprio tutto quello che dice, ma del resto il giornalismo è anche l’arte di raccontare ciò di cui non si sa niente. Travaglio invece non si cura affatto di sapere tutto quello che c’è da sapere su un evento o su un personaggio: lui ha il suo presupposto, il suo punto di partenza vero o falso che sia e nulla lo sposterà dai suoi binari. Qui va ribadito che l’ho spesso apprezzato per i suoi articoli e i suoi interventi televisivi. Però ciò non vuol dire che abbia il mio incondizionato assenso. Ad esempio non mi è piaciuto il suo sottrarsi al confronto con Grasso. Ma probabilmente sul faccia a faccia Travaglio non è ferrato, come ha dimostrato la figura rimediata (da lui e da Michele Santoro) nell’ormai tristemente nota puntata di Servizio Pubblico con Silvio Berlusconi.
Riassumendo.
Formiglismo, ovvero il botta e risposta con poche botte.
Travaglismo, ovvero il botta e risposta senza risposte.
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L’informazione politica di Barbara D’Urso
Il nuovo corso dei pomeriggi televisivi di Barbara D’Urso prevede uno spazio di approfondimento politico. Funziona così. La conduttrice mette insieme vari personaggi politici – il livello medio alto è Daniela Santanchè – di vari partiti e di varia estrazione (c’è il deputato, il consigliere comunale, il sindaco di un piccolo paese, eccetera). Poi dà la parola al pubblico, che è stato selezionato ed allevato come si fa coi leoni del circo, e si scatena la rabbia cieca. Il numero tipico è quello di un signore, che sino a qualche ora prima era un tranquillo pensionato, con la bava alla bocca che sbraita: “Siete tutti ladriii!”. Non c’è mai un’argomentazione, non c’è mai il tentativo di scalfire la corteccia del qualunquismo, qui e in tutte le opere della D’Urso. Nel siparietto popolar-politico va in onda un finto pluralismo di posizione che illude e deteriora gli spazi di libero pensiero. Perché la casalinga distratta che mescola la polenta mentre guarda “Pomeriggio 5” magari si convince che la spending review raccontata con l’effetto flou di Barbara D’Urso è un’invenzione degli anarchici e che il motto della modernità è “si stava meglio quando c’era lui”. Il pubblico in studio grida e suda, i politici in studio gridano e sudano per solidarietà, la conduttrice rasserena i finti animi con una finta equidistanza che è più irritante degli antichi pipponi di Emilio Fede. Il risultato è un can can di populismo mirabilmente in linea con la beatificazione accordata da Berlusconi che ha posizionato la D’Urso nell’olimpo del (suo tipo di) giornalismo.
La nuova informazione politica del regime di plexiglass arcoriano non passa più dai tg addomesticati, ma filtra subdola attraverso programmi di alleggerimento cogliendo di sorpresa i telespettatori più ingenui, più distratti, più deboli. Probabilmente dovremo rivedere il nostro concetto di fascia protetta.
Vento di nulla
Negli ultimi giorni c’è una recrudescenza di apparizioni di Flavia Vento in tv. Nello specifico la colpa è di Cristina Parodi, ma non è questo il punto.
E’ fondamentale, almeno per me, capire perché Flavia Vento ha spazio in televisione.
Sono ben conscio che nella ricerca di una risposta il ragionamento potrebbe arenarsi contro la tipica frase: perché ci sono altre come e peggio di lei. Ma questo non basta e non dà la misura del fenomeno.
Al di là dei paragoni, infatti, credo che il caso di Flavia Vento sia emblematico in questo Paese, dal momento che la signora in questione non ha alcun merito artistico, non dice cose interessanti, non eccelle in alcun campo, non ha un ruolo, non ha una estetica da primato, non svolge attività degne di pubblico interesse, non ha una cultura da mostrare.
E allora perché la si invita in tv?
Semplice. Perché è l’immagine rassicurante del qualunquismo che livella verso il basso discussioni che devono rimanere basse per esigenze di audience. La Vento sa tutto di nulla quindi è l’ospite ideale di qualunque programma in cui si debba discettare del sesso degli angeli. E non solo: discute con passione, si accapiglia, combatte coraggiosamente. Solo che il suo furore è pagato dall’incoscienza.
Flavia Vento è l’acrobata senza talento e senza rete che strappa applausi agli illusi catodici. Ogni sua apparizione in tv ha il fascino cruento della morte in diretta. Solo che – a ben vedere – lei sta benissimo nella sua beata ignoranza e i morti sono quelli col telecomando in mano.
P.S.
Ho volutamente tralasciato l’aspetto “politico” della vicenda perché il fatto che Flavia Vento stia tentando di fondare un suo partito, o movimento, va valutato con attenzione. Ad esempio, dedicarvi un post scriptum è già troppo, ma non farlo sarebbe stato un peccato di ottimismo.
Fermate Barbara D’Urso
A Pomeriggio cinque questo pomeriggio si è celebrato l’ennesimo rito tribale della cronaca gestita come uno spettacolo circense, con Barbara D’Urso e nientepopodimenoche Alessandra Mussolini a dibattere, tra urla e pianti, con la madre del bambino conteso.
Il problema, al contrario di quel che si possa pensare, non è il contenuto ma il contenitore.
L’emergenza umanitaria della televisione italiana dei nostri tempi è infatti la fascia pomeridiana, durante la quale programmi di intrattenimento diventano spazi di informazione gestiti con una profondità di vedute da avanspettacolo.
Lasciare nelle mani di Barbara D’Urso – ma anche di Mara Venier – la libertà di porgere notizie, approfondirle senza alcun controllo di testata, è un atto che toglie legittimità alle redazioni e attendibilità alla rete. Eppure tutto si spiega con un’atroce regola moderna: la televisione urlata è quella che ha più fortuna, lo scoprì vent’anni fa Maurizio Costanzo con Vittorio Sgarbi.
Ho già scritto cosa penso di quella che un tempo era la tv dei ragazzi e non ho ancora un’età che giustifichi rimpianti a 360 gradi. Però ritengo che Barbara D’Urso et similia non possano raccontare l’Italia che cambia, ma al massimo recensire il guardaroba di una starlette o blaterare degli amorazzi di una gieffina.
Prima possibile una contraerea della ragione dovrà entrare in azione: prima che la tv del finto dolore ci imponga finte esistenze con finti sentimenti e finte soddisfazioni.
Una tv come si deve
Non è vero che la tv è tutta spazzatura o fuffa. Ho scoperto – purtroppo da poco, lo confesso – che il National Geographic Channel fa programmi di altissima qualità. Non i soliti documentari. In questo periodo, ad esempio, consiglio di non perdervi i documentari sul centenario del naufragio del Titanic: sono (mi si perdoni il velato ossimoro) mini-kolossal dell’intrattenimento garbato, spettacoli da centellinare per la perfezione dei dettagli. Tra la volgarità ostentata dei reality e quella subliminale dei soliti raccomandati che si improvvisano geni della tv, quella del National Geographic Channel è una televisione da manuale: racconta con dovizia di particolari, diverte senza effetti speciali, addirittura informa. E c’è chi la guarda, pensate un po’.
Cicogna, vola altrove
L’altra sera, sempre per via della terribile influenza, ho visto per la prima volta “Wild Oltrenatura”, su Italia 1. Il programma è una via di mezzo tra una raccolta di video truculenti, con leoni che azzannano guardiani di zoo e squali che staccano gambe a bagnanti incaute, e un’ostentazione di finte prove di ardimento della conduttrice Fiammetta Cicogna.
Il risultato è osceno. I filmati choc sono in tutta evidenza paccottiglia raccattata nei circuiti televisivi internazionali (soprattutto americani, dove questo genere va ignobilmente forte) e basterebbero da soli per far crollare il programma. Il peggio arriva con gli interventi della conduttrice che lasciano allibiti: c’è una finta missione da compiere, con finti pericoli, con una finta eroina (la Cicogna), con una finta regia che presuppone finti telespettatori.
Dalle battute pronunciate esattamente come in una recita scolastica, alle situazioni inverosimili il programma è un crescendo di insulsaggini come raramente mi era capitato di vedere.
L’altra sera questa tale Fiammetta Cicogna doveva scendere da un’imprecisata vetta delle Dolomiti e, tutto in un respiro, ha urlato alla camera, è saltata dall’elicottero, ha sorriso, si è fatta calare con la corda da un dirupo di un paio di metri, ha finto di cadere, ha sbuffato, ha porto i vestiti a un tale che si faceva il bagno nudo nel ghiaccio, ha sorriso, ha costruito una slitta in un minuto e mezzo, ha urlato alla camera, ha ricavato una canna da pesca da un ramo e una piuma d’uccello, ha mangiato legno macerato nell’acqua, ha dormito all’addiaccio, non ha fatto colazione, ha sorriso, ha pescato una trota, ha perso l’acciarino, ha urlato alla camera, ha mangiato la trota cruda (compreso l’occhio), ha sbuffato, ha sfidato un lago ghiacciato con voce tremante, ha digerito la trota, è arrivata a destinazione, ha sorriso, il tutto senza mai scombinarsi i capelli.
Insomma l’unica prova estrema di questo programma è quella richiesta allo spettatore, che deve cercare di non lanciare il telecomando contro il televisore.
E poi altro che Oltrenatura.
Contronatura, signori, contronatura.
La piaga, il dito e il pregiudizio
“Io ho il diabete. Non mi offendo se qualcuno mi dice che sono malato, è la realtà. Bene, per quale motivo gli omosessuali si offendono se qualcuno, correttamente, parla di patologia?”.
Il criminologo e psichiatra Francesco Bruno prende il suo pregiudizio, ne fa una piaga e ci ficca dentro il dito pur di creare un caso.
Bruno è infatti un personaggio che vive di ospitate televisive, commenti salottieri, baggianate catodiche. Non è un polemista, ma un frutto di polemiche. Dove c’è una chiacchiera perduta, lì c’è lui appeso all’ultima sillaba prima della pausa pubblicitaria. Dove si discute di sangue e sesso, di prove e provini, lì c’è lui, strabordante di saccenza. Che siano crimini o frittelle, Bruno ha sempre una rincorsa pronta pur di spiccare il salto oltre l’asta della logica comune. E immancabilmente usa lo stesso metodo: prende un (pre)giudizio, ne fa una piaga e ci ficca dentro il dito.
Quel che ne scaturisce non è dolore, ma imbarazzo. Per lui, per le sue tesi paradossali, per un presenzialismo che sa di starlette inceronata. Ma questo Francesco Bruno non lo sa.
Il quiz contro l’insonnia
Tra le pochissime cose che guardo in tv ci sono i quiz del tardo pomeriggio. Quest’anno mi era piaciuto “Avanti un altro”, molto più de “L’eredità” (a parte il gioco finale). Attendevo con curiosità il nuovo programma di Gerry Scotti, “The money drop”, e dopo le prime puntate mi devo ritenere insoddisfatto.
Il quiz è un contenitore di tempi morti, riempiti da replay insopportabili che riproducono la finta felicità dei concorrenti. E i concorrenti sono la parte più debole dell’intero format. Si chiede loro non tanto di rispondere alle domande, ma di essere interpreti, di recitare, di dare al gioco il ritmo che non c’è. E poi gli stacchetti in ritardo e i farraginosi movimenti di camera non aiutano il povero conduttore a tenere sveglio il pubblico che rischia di appisolarsi prima di cena.
Insomma il programma è lento e noioso, almeno in questa versione (è molto probabile, oltre che auspicabile, un aggiustamento in corsa).
E’ vero, dopo il quiz di Bonolis era difficile trovarne uno altrettanto scoppiettante, ma al momento Gerry Scotti e compagni è come se non fossero nemmeno scesi in campo.
Il web? Come la tv
Un tempo per legittimare una notizia o qualcosa di simile si usava la frase: “L’ha detto la tv”. Oggi si usa: “L’ho letto su internet”.
E il fatto di leggere qualcosa sul web piuttosto che vederlo in televisione dà implicitamente plausibilità alla notizia. Ma è davvero così? Cioè la rete garantisce una fruizione (non circolazione, badate bene) di notizie realmente libera?
Chi conosce bene certi meccanismi ci spiega che le cose stanno molto diversamente da come la maggior parte di noi possa immaginare.
Sul web siamo tutti tracciati e tracciabili. Ogni nostro movimento è seguito, decrittato, registrato. L’insieme dei nostri clic forma un enorme archivio che serve a studiare i flussi, i gusti, le tendenze. E’ un patrimonio di immenso valore economico di cui pochi hanno contezza.
Quando facciamo una qualsiasi ricerca, la rete ci offre un risultato che attinge da quell’archivio. Quindi ci fornisce ciò che suppone possa interessarci, non ciò che realmente ci interessa.
Quando sentiamo parlare di privacy sforziamoci di capire che si parla di libertà. La riservatezza dei dati infatti non riguarda solo gli illeggibili moduli che ad ogni contratto – dalla bolletta elettrica alla banca, dalla tessera del supermercato all’azienda di telefonia – ci tocca firmare. Coinvolge invece una parte importante della nostra vita sociale, quella che ha a che fare con il diritto di scelta, con la promessa che nessuno deciderà per te se non lo chiedi.
Insomma quando digitiamo qualcosa su un motore di ricerca è saggio tener conto che il suggerimento non è mai disinteressato. Come in tv insomma.
Automaticamente
Il mio amico Massimo, dal confine tra Francia e Svizzera, mi scrive: “In Italia il canone Rai è evaso dal 26.9% degli Italiani. Ma lo sapete che in Francia non si può acquistare un televisore senza che ciò comporti automaticamente la registrazione al Tresor Public di modo che automaticamente (di nuovo!) sulla tassa patrimoniale (anche sulla prima casa) si aggiunga il contributo audiovisuel?”.
Certo, non conosco la qualità dei programmi francesi. Però l’idea di un automatismo che non consenta furbizie e che, automaticamente, registri posizioni contributive non mi dispiace.
Detto questo, va ricordato che in Italia il meccanismo è simile, solo che i risultati sono disastrosi su tutti i fronti.
Nel 1954 si pagavano 12.550 lire e la tv era il futuro. Nel 1994 si pagavano 156.000 lire e la tv era già stata sbranata dai partiti. Nel 2011 abbiamo pagato 110,50 euro e la tv pubblica è morta e sepolta.
Ecco, prima di tutto, quando si chiedono soldi bisognerebbe pensare al prodotto, la cui qualità dovrebbe valere la cifra che viene richiesta. Altrimenti dovrebbe essere lecito da parte del consumatore pretendere un rimborso. Ieri, ad esempio, sono stato al cinema…