La magistrata Cuffaro

C’è una ragazza che ha studiato, che ha fatto un mestiere difficile: superare esami, concorsi, vincere dottorati senza santi in Paradiso. E anzi nel suo personale Paradiso era più facile che le tagliasse la strada qualche demonio. Ha nuotato controcorrente e lo ha fatto come è giusto in silenzio, risparmiando il fiato. Neanche quando l’hanno fischiata a mezzo social lei si è distratta. Aveva qualcosa di infinitamente più importante da fare: studiare, macinare prove, risparmiare il fiato. La sua è stata una corsa a ostacoli poiché la vita è semplice per chi si dà per vinto e complicatissima per chi si dà sempre nuovi obiettivi.

Questa ragazza oggi ha un mestiere per il quale ha lottato più dei suoi coetanei. Il suo handicap era il più complicato da superare dato che aveva a che fare con gli affetti più intimi e col conflitto che questi, ogni tanto, possono generare con la ragione, col sentire comune, con gli  umanissimi momenti di sconforto. Solo chi ha provato le asperità della vita, quelle vere, sa che ci sono ultimi anche tra i primi, che ci può essere povertà anche nella ricchezza e solitudine nella folla. Siamo tutti molto bravi a distribuire patenti, un po’ meno a meritarle.
Oggi questa ragazza è magistrato.
Che sia la figlia di Totò Cuffaro, di un uomo che ha sbagliato gravemente, non la rende una professionista migliore. Ma rende migliore un contesto in cui caparbietà, impegno e spirito di sacrificio ogni tanto contano.

Tanto per essere chiari

Questo blog è, e sempre sarà, contro chi è contro la magistratura.

Tutto Grasso che cola

Conseguenze della discesa in campo nelle file del Pd del procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso.

Silvio Berlusconi propone un tecnico alla guida della procura nazionale antimafia, Marcello Dell’Utri.

Antonio Ingroia tira fuori le intercettazioni telefoniche in cui Grasso al telefono con mago Zurlì manifestava sospetto apprezzamento per “Quarantaquattro gatti” ai danni de “Il torero Camomillo”.

Pierluigi Bersani sente la vittoria in tasca, ma scopre con terrore che era una busta che gli aveva lasciato Filippo Penati.

Pier Ferdinando Casini si dichiara disponibile.

Totò Riina presenta domanda di aspettativa.

Mario Monti dichiara che l’unico grasso che conosce è quello alimentare e che a lui comunque non interessa in quanto segue una dieta rigorosissima, quella euromediterranea.

Antonio Di Pietro invita Grasso a cena a casa sua, ma l’incontro salta perché il neocandidato si perde tra 50 indirizzi diversi.

Pannella inizia uno sciopero della fame contro il cenone di capodanno.

Pier Ferdinando Casini ribadisce di essere disponibile.

Rosario Crocetta esprime apprezzamento e per augurare fortuna a Grasso celebra il rito sacrificale con l’ultimo addetto stampa a disposizione, sgozzandolo e bevendone il sangue.

Un paese di merda (per sua stessa ammissione)

Vado via da questo paese di merda.

Silvio Berlusconi al telefono con Valter Lavitola,
editore e direttore de L’Avanti! (inseguito da un’ordinanza
di custodia cautelare con l’accusa di estorsione al premier).

Allora qualcosa di umanamente fallace c’è in un personaggio che si reputa infallibile, incontestabile, onnipotente, un gradino sotto Dio. Sì, lo sfogo captato dalle intercettazioni ordinate dai magistrati ci consegna finalmente un leader più debole, biologicamente sincero, cioè scazzato e demoralizzato come qualunque altro essere umano soggetto alle leggi dell’uomo e della natura.
Tenendo alta la speranza che tramonti presto l’era dell’impunità, ancor prima di quella del berlusconismo, può essere incoraggiante sottolineare che lo sfogo del premier costituisce una svolta epocale.
Il paese che lui doveva salvare, lucidare, rendere più ricco e addirittura salubre (ricordate quando promise di debellare il cancro?) è in fondo, per usare parole sue, un paese di merda. E la fallacità ritrovata sta nel tacere e nel tacersi l’influenza nefasta del passaggio che questo stesso Paese ha subito nell’intestino del centrodestra. Diciotto anni di questa peristalsi politico-amministrativa hanno annullato ogni ragione oggettiva, ogni interesse pubblico e hanno fatto del tornaconto di pochissimi l’obiettivo di ogni azione.
Negli ultimi due decenni l’Italia è cambiata nei costumi, nei gusti, nella sensibilità. Si è resa impermeabile alla vergogna. Ha chiuso i confini nazionali del senso dello Stato. Ci ha fatto sentire sì unici e diversi, ma peggiori.
L’elenco delle fandonie che Berlusconi ha sciorinato, sin dal primo giorno della sua discesa in campo, ha portato la maggioranza degli italiani a dar credito a una politica del piffero: anzi del pifferaio. E oggi tutti quelli che lo hanno votato, difeso, sostenuto anche quando non c’era una sola ragione logica per farlo, a parte le illuminazioni della fede (e siamo al gradino sotto Dio), dovrebbero ammettere di aver consegnato a questo signore un Paese, e di averne ricavato – per sua stessa ammissione – un paese di merda.

L’attentato che non c’era

C’è una storia che non è nuova, ma che è passata quasi completamente sotto silenzio: ne parlo solo oggi perché proprio ieri un caro amico e collega me l’ha riportata alla mente.
Nel dicembre scorso Maurizio Belpietro scrisse un editoriale su Libero in cui rivelava che un killer della criminalità pugliese era pronto a uccidere Gianfranco Fini. Pur tra diversi distinguo, Belpietro dichiarava di fidarsi della fonte che gli aveva fatto la soffiata e aggiungeva che nel piano criminale era previsto che l’omicidio fosse attribuito in qualche modo ai berluscones. La notizia ebbe l’eco che meritava anche sugli altri giornali.
Un mese fa si è scoperto che tutta la vicenda era una bufala. La misteriosa fonte di Belpietro era un imprenditore di simpatie pidielline che aveva architettato il tutto per dimostrare la fallacità dei controlli sulle notizie e anche per strigliare quelli di Libero per il trattamento riservato al presidente della Camera.
In pochi ne hanno parlato. Sui giornali la notizia è stata relegata alle pagine interne e in tv non ne ho registrato traccia. Belpietro è ancora al suo posto, nessuno gli ha chiesto conto e ragione del suo errore (si spera in un sussulto d’orgoglio dell’ordine dei giornalisti). L’imprenditore ha raccontato candidamente il suo piano ai magistrati e rischia l’incriminazione per procurato allarme (insieme al giornalista).
Siamo un Paese in cui il primo che si sveglia con un’idea balzana, chiama il direttore di un quotidiano a tiratura nazionale e, senza passare attraverso nessun filtro, ottiene lo spazio che l’ideologia nella quale sguazza il giornale in questione gli assegna in modo acritico.
Ho un’agenda telefonica ben aggiornata, da domani comincio a fare qualche esperimento. Si accettano consigli.

Fede e famiglia

La moglie di Emilio Fede, Diana De Feo, ha parole di speranza per suo marito: “Mi dispiace per tutto, ma credo che si risolverà presto. Ho fiducia in lui e nella giustizia. Sono convinta che quando le intercettazioni verranno esaminate, non verrà fuori nulla di compromettente”.
Lui, il direttore del Tg4, le scrive: “Berlusconi qualche volta mi dice: ‘Diana è la parte migliore della famiglia’. Credo che abbia ragione. Continua a esserlo”.
L’ostentata buona fede della signora è talmente patinata da non poter essere messa in discussione da queste parti, sarebbe come incidere il burro con la fiamma ossidrica.
La pervicace ossessione di lui, Emilio Fede, è invece messa a nudo. Persino in un messaggio che – si intuisce – dovrebbe avere qualche attinenza con l’amore, il direttore non riesce a non farsi precedere dal simulacro del Capo.
Ci sarebbe da scrivere molto, molto altro se tutti questi virgolettati non fossero tratti dalla nuova bibbia dell’Italia che galleggia (e non solo sul mare), il settimanale Chi, e se la devota De Feo non fosse senatrice del Pdl.
Ha ragione Berlusconi a parlare di famiglia. Anzi, come si dice dalle mie parti, famigghia.

Cose turche

Sembra che le accuse contro questo signore non siano state vagliate tutte con rigore.
Senza voler usare la cipria dell’autocitazione, ricordo che il suo arresto suscitò in me qualche pensiero contraddittorio.

Silenzio, parla Dell’Utri

Marcello Dell'Utri

Il ministro Alfano ha detto qualche giorno fa che i magistrati devono pensare a lavorare ed evitare di perdere tempo in televisione. In linea di massima sono d’accordo. Ho notizie di un importante magistrato che si occupa più delle sue pubblicazioni su Micromega e delle sue apparizioni davanti alle telecamere che dei processi che deve imbastire. E questo non mi piace.
Però, come troppo spesso accade, le buone ragioni diventano cattive se il contesto le inquina. Perché Alfano fa quella dichiarazione? Perché deve scatenare un fuoco di copertura nei confronti del suo capo, uno che non perde occasione per spalare stallatico addosso alla magistratura.

Ieri pomeriggio, Raidue, trasmissione “Il fatto del giorno”, conduttrice Monica Setta (una nostra cliente).
In collegamento da Palermo c’è il senatore Marcello Dell’Utri, che – per onor di cronaca – ha subito una condanna in primo grado a 9 anni per concorso esterno in associazione di tipo mafioso e ha patteggiato una pena di due anni e tre mesi per frode fiscale.
Il fatto del giorno shakerato dalla conduttrice è la deposizione dei mafiosi Graviano al processo d’appello contro Dell’Utri.
La Setta celebra l’agonia della decenza giornalistica inginocchiandosi davanti al suo ospite e concedendogli un quarto d’ora (praticamente quasi la metà del programma) per propagandare la sua tesi. Senza mai accennare all’ipotesi accusatoria, come se Dell’Utri fosse lì per caso, spettatore illustrissimo e riverito.
Se Alfano non avesse tuonato contro i pm che utilizzano la tv in modo improprio mi sarei arreso davanti all’ennesimo atto di asservimento di una giornalista che non conosce la differenza che passa tra i fatti e le opinioni, la tessera professionale e quella di partito, l’attendibilità e la sfacciataggine.
Invece mi sono arrabbiato molto.
Perché a un imputato condannato in primo grado deve essere concesso quel che a un pm incensurato viene negato?

Patrizia, la Noemi maggiorenne

patrizia d'addario

C’è un dato incoraggiante nella vicenda della nuova Noemi: la femmina in questione è maggiorenne.
La storia la conoscete già: feste, festini, soldi, soldini, case, casini. Roba già vista.
Vi invito però a riflettere su un dettaglio del contorno. Ieri, quando il “Corriere della Sera” ha pubblicato la notizia, la maggioranza è andata all’attacco di Massimo D’Alema che domenica scorsa aveva profetizzato “scosse” per il premier Silvio Berlusconi. “Come faceva a sapere in anticipo dell’inchiesta?”, hanno tuonato Sandro Bondi, Ignazio La Russa e tale Denis Verdini (probabilmente il deputato in turno di guardia al Pdl, ieri mattina).  Eh sì, come faceva a sapere?
D’Alema dice di aver dato un semplice giudizio politico e di non aver anticipato nulla. Di sicuro, sapeva più di lui il ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto, pugliese, che di Puglia (la nuova inchiesta è della procura di Bari) parlava proprio nel suo comunicato di lunedì, quindi due giorni prima dello scoop del Corriere: leggete con attenzione.
Quindi, per capirci, Fitto, ministro di Berlusconi, era a conoscenza, prima degli altri, dell’indagine sul premier.
Domanda pleonastica.
Qualcuno farà notare questa imbarazzante coincidenza al primo onorevole del Pdl che capita a tiro di telecamera e microfono?

L’attacco finale

Non c’è peggior truffa di quella travestita da beneficenza.
Con il ddl sulle intercettazioni, il signor Berlusconi ha spacciato per regalo all’Italia, un provvedimento che in realtà è utile solo per blindare il suo caveau di menzogne.
Caduto l’ultimo diaframma tra interesse privato e interesse pubblico, questo pericolosissimo individuo finge di promuovere una campagna di privacy “degna di un paese civile”. Insomma, si aspetta pure che lo ringraziamo.
In realtà dovremmo prendere coscienza che mai un attacco di simile potenza era stato sferrato alla macchina giudiziaria italiana.
Se con lodi e decretini, Berlusconi e sodali avevano prima cercato di intorbidire le acque, adesso l’operazione è stata completata: le acque sono un inchiostro nero nel quale non c’è più bisogno di nascondersi, perché è stato vietato di indagare.
L’insofferenza nei confronti di un codice penale, che ha il tremendo difetto di rendere tutti uguali davanti a un giudice, ha dato i suoi frutti: ci sono leggi e leggi, ci sono persone e persone, perché minchia ci devono essere leggi che valgono per tutte le persone?
Ci sono persone speciali per le quali ci vogliono leggi speciali.
I mafiosi? I terroristi?
No, Berlusconi e compagni.