Invertiti, viaggio nelle differenze

C’è una macchina del tempo che dal 1963 a oggi attraversa tre ventenni sanando gli opposti o addirittura unendoli, come fosse un miracolo, in un’unica linea retta.
Il viaggio che ne scaturisce è quello nell’universo mai troppo esplorato delle differenze.
La linea maestra la dà Pier Paolo Pasolini, che col suo documentario “Comizi d’amore” ci guida attraverso le contraddizioni di quello che una volta si chiamava sentire comune e che oggi identifichiamo come mainstream. Per diffidarne, per scardinare le oziose certezze della condivisione cieca, per affrontare le sterili perversioni del “desiderio mimetico” che spinge una pecora a seguire il gregge senza capire bene il perché.

Questo podcast è liberamente ispirato all’opera “Invertiti”, scritta con Fabio Lannino per la Fondazione Taormina Arte (altre info qui). È un viaggio che parte dall’Italia del boom economico e arriva a quella della cretinocrazia imperante, e che attraversa le “dittature culturali” dove in fondo ogni cosa non ha solo il suo prezzo, ma soprattutto il suo sconto.

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Invertiti, viaggio nelle differenze
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Peggiorare, per fortuna

Piccolo ripasso (della serie il web utile). Le sensazioni gustative pure, basate sui cinque sapori fondamentali (acido, amaro, dolce, salato, umami), segnalano la digeribilità e il valore nutritivo o tossico degli alimenti. Fin dalla nascita il neonato umano mostra di gradire alcuni sapori e di essere disgustato da altri. Il sapore dolce, che indica la presenza di carboidrati apportatori di calorie, è piacevole per tutti i mammiferi, incluso l’uomo, con l’eccezione dei carnivori (in tal senso io sono equiparato a un tossicodipendente). Il sapore salato, spiegano gli scienziati, può risultare sgradevole nella primissima infanzia, ma con la crescita “esso viene ricercato, specialmente se vi è carenza di sodio, elemento essenziale per la vita”. L’aumento della preferenza per cibi salati, che si verifica quando il bilancio del sodio è negativo, non è osservabile nel neonato poiché richiede un periodo di maturazione, indipendente da un apprendimento specifico.

La repulsione per cibi fortemente acidi è un’ovvia difesa contro il potere corrosivo che gli acidi possono esercitare sui tessuti biologici, e parlo a nome della grande famiglia dei followers dell’ernia iatale. A dire il vero suscitano un’avversione innata anche varie sostanze di sapore amaro, probabilmente a causa della loro scarsa digeribilità o tossicità. Molti veleni vegetali hanno un sapore amaro, Agatha Christie docet, ed è verosimile che “fra i progenitori prevalentemente frugivori (cioè che si nutrivano di frutta o semi) dell’uomo moderno sia avvenuta una selezione naturale a favore degli individui geneticamente predisposti a evitare cibi amari”. La reazione riflessa e innata di rigetto nel confronto di sapori amari consiste “nell’apertura della bocca, nella protrusione della lingua e nell’espulsione del contenuto della cavità orale, o anche nel vomito”. La notizia meravigliosa è che questa reazione, che è già osservabile nel neonato umano, nell’adulto può essere inibita nel caso di sapori amari come quelli del caffè, della birra, degli aperitivi, di alcuni deliziosi superalcolici e dei cioccolati amari, che con l’esperienza possono diventare gradevoli. Molto gradevoli.

Tutto questo ripassino per ribadire che non solo siamo ciò che siamo stati, ma che per fortuna possiamo migliorare: peggiorando.

L’anfetamina dei giornali

C’è un tema molto importante che riguarda l’innovazione nel mondo dell’editoria e nello specifico il rapporto tra lettore e contenuti online. Lo ha tirato fuori il direttore di Repubblica Maurizio Molinari in un’intervista su Prima Comunicazione che ha causato uno sciopero dei giornalisti del quotidiano.  
Dice Molinari parlando della riorganizzazione del lavoro che dovrebbe scattare già all’inizio del 2023:

“E’ prevista una continua indicizzazione dei contenuti, per intervenire rapidamente e costruire un’offerta informativa in linea con le preferenze dei lettori. Il nostro obiettivo è di intervenire in tempo reale, più volte al giorno, utilizzando i dati che raccogliamo sui nostri siti, sulle app, sui motori di ricerca e sui social. Se usi bene in tempo reale il seo, il giornale diventa responsive, dinamico”.

L’apparato digitale, insomma, monitora l’interesse dei lettori e propone contenuti in base alle loro scelte. È un metodo tipico del marketing digitale e soprattutto degli algoritmi dei social network.
In Italia già, ad esempio, il Corriere della Sera offre ai suoi abbonati una sezione chiamata “Le tue notizie” introdotta da questa frase:

“Ti diamo il benvenuto nella nuova sezione del Corriere che mostra le news che incontrano i tuoi interessi. Più navighi, più l’intelligenza artificiale di Corriere imparerà quali sono i temi più rilevanti, per proporre le notizie più affini a te”.

Riassumendo, i giornali online tendono ad assecondare il lettore nelle sue scelte: se quello chiede più cronaca nera gli si dà più cronaca nera, se chiede più tette gli si danno più tette, se chiede più politica estera gli si dà più politica estera. E non solo, l’indicizzazione dei contenuti è talmente raffinata che persino le categorie di cui sopra possono essere ulteriormente scremate: cronaca nera della provincia di Palermo, Bagheria esclusa; tette piccole e non medie né grandi; politica estera con risvolti rosa e sudamericani.
A parte la banalità degli esempi, c’è qualcosa che non vi torna?
Pensateci.
Sì, proprio quella cosa lì.

L’omologazione.

In questo modo avremo offerte giornalistiche sempre più omologate e omologanti con la nostra bolla di interessi, sapremo sempre di più di ciò che già in qualche modo conosciamo, e sempre più difficilmente ci imbatteremo in novità.
Molte aziende editoriali – penso al New Yorker negli Usa ma anche al Post in Italia – attuano procedure diverse, opposte direi. Scavano nelle pieghe di ciò che probabilmente non si sa, cercano di stupire il lettore, gli regalano punti di vista inaspettati, gli raccontano storie di mondi a lui lontani, e non solo geograficamente.
In poche parole: cercano di demolire le echo rooms dei social network e di bucare le bolle informative nelle quali si sono andati a cacciare.
Il giornale responsive, cioè a misura del lettore, non è la soluzione alla crisi mondiale dell’editoria, ma al contrario la sua droga. Un’anfetamina che fa finta di combattere la malattia del sistema bombardandolo con gli stessi virus che lo fiaccano. E illudendolo con nuovi sintomi, confusi e sparsi.
Lunga vita ai giornali in cui il seo non scalza le scelte di un caposervizio di esperienza, l’estro di un titolista, il coraggio di un direttore.

Per chi suona Eddie Van Halen?

Per chi sta suonando ora Eddie Van Halen? Domanda oziosa. Eppure me lo chiedevo stasera mentre rientravo a casa ascoltando, a volume adeguato, “Main Street”, una delle canzoni meno memorabili dei Van Halen. Probabilmente è una cosa che succede sempre più di frequente con l’età che avanza, o è questione di influssi astrali, oppure ancora è semplicemente indole trasversale. Ma a me capita sempre più spesso di interrogarmi su ciò che potrebbe accadere là dove non sappiamo se davvero qualcosa accada. Prevalentemente roba di defunti quindi.

Giuro, non penso quasi mai alla morte. Ma ai morti sì. Del resto come faremmo senza i morti? O meglio, senza la gioia di quel che ci hanno lasciato.

Io a Oscar Wilde farei passare egoisticamente altre mille pene dell’inferno pur di avere un secondo De Profundis. O affonderei dieci Endurance per avere ancora il brivido di impersonare il capitano Shackleton che conta i suoi uomini dopo due anni di tribolazioni inaudite e scoprire che sono tutti vivi, grazie a me. O riascolterei mille volte la tragica avventura di Walter Bonatti sul K2 per ribadire che non si muore mai invano se in ballo c’è la più importante delle nostre missioni, quella di dimostrare che non si vive invano appunto.
Insomma chiedendomi che minchia sta facendo Eddie Van Halen adesso, lì nell’alto dei cieli con adeguata amplificazione I suppose, mi sono ricordato da dove originava questa domanda.
Dalla mia complicata visione dell’aldilà.

Premesso che non sono ancora – almeno lo spero – in età di rendiconti affrettati, è giusto che dichiari la mia provenienza incolpevole: sono cresciuto dai preti.
È un capitolo complesso della mia infanzia perché mi sono trovato, per scelte ovviamente non mie, a essere convogliato in una scuola di gesuiti nella quale stavo malissimo e dalla quale sono venuto fuori a tentoni. Dopo è stato tutto più semplice, ma durante è stato un casino.
In ogni caso – poi magari ne parliamo un’altra volta – in tutti quegli anni di scuola cattolica-bene-imbalsamata ci fu un solo avvenimento che mi colpì positivamente. Anzi che mi stravolse.

Era un pomeriggio di inverno, nel 1977.

Il mio insegnante di religione si chiamava Giovanni Pintacuda, ed era il fratello ignoto di Ennio un prete che di lì a un decennio sarebbe diventato un pilastro della società civile antimafia e della cosiddetta Primavera di Palermo.
Io a scuola non andavo bene. Facevo il chitarrista rock, scrivevo canzoni al limite dell’orribile, avevo ottimi voti nei temi d’italiano nonostante certi professori che 45 anni dopo hanno il coraggio di seguirmi sui social (probabilmente perché oggi come ieri non capiscono un cazzo di quello che scrivo), organizzavo cose teatrali, inseguivo le femmine, non mi drogavo e galleggiavo in quella realtà che mi era stata imposta (in buona fede) dalla mia borghesissima famiglia borghese.
In quel pomeriggio padre Giovanni Pintacuda mi aveva convocato per parlarmi. Io mi ero presentato, capelli lunghi e maglione alla coscia, annoiato a dovere: immaginavo la solita ramanzina. Tra l’altro mia madre aveva scoperto proprio pochi giorni prima che avevo marinato la scuola, falsificando le giustificazioni, tipo per due settimane di seguito… Quindi immaginate il clima.
Nel viale alberato dell’Istituto Gonzaga di Palermo padre Giovanni Pintacuda mi venne incontro e mi prese sottobraccio.
Lui era piccolo di statura e io, che non ero un gigante, lo sovrastavo di almeno una decina di centimetri di pura adolescenza post puberale.
Facemmo due passi e lui dal nulla disse: “Gery, parliamo di donne”.
Poteva dirmi qualunque cosa, tipo che cazzo combini, o che cosa ci fai qui, o fai finta di niente e parliamo in playback.
Invece disse proprio quella frase.
“Gery, parliamo di donne”. Un prete colto e un adolescente pulcioso.
Fu un flash. Una sventola. Un pugno e un abbraccio.
Una svolta.
Nessuno mi aveva mai parlato così. Anzi, nessuno mi aveva mai svegliato così.
Quel pomeriggio padre Giovanni mi porse il primo dei mattoncini di Lego coi quali edificare il mio castello. Mi insegnò a guardare dritto per capire cosa sta ai lati e cosa mettere al fuoco anche se non sta al centro, mi diede la prima lezione di vista periferica insomma. Come Messi.
Ci raccontammo cose che rimarranno sempre tra noi e che del resto non sarebbero interessanti per nessuno.
Però ci fu un concetto che allora presi sottogamba e che invece col tempo imparai ad apprezzare sino addirittura a farne un mantra (invecchiando ci rincoglioniamo di cose note, un tempo sottovalutate, fingendo stupore tipo scimmie primordiali davanti al Meteorite): la vita non è come il cinema, tra il primo e il secondo tempo quello che conta è l’intervallo.

Ecco, nell’intervallo io mi sono chiesto cosa accade quando la proiezione è finita.
Per chi lavorano gli artisti a sala chiusa.
Che pubblico ha il privilegio di godersi uno spettacolo che non va più in scena.
E da lì ho trovato la risposta alla domanda di stasera: per chi sta suonando ora Eddie Van Halen?
Magari l’avete trovata anche voi. Anche se non avete avuto il privilegio di aver conosciuto padre Giovanni Pintacuda.              

Vedi alla voce massimalismo

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

L’esperienza ci ha insegnato che in Sicilia le quattro parole più incaute sono: questa volta è diverso. E non c’è nulla di gattopardesco giacché la teoria dell’immobilismo funzionale a se stesso ha una sua grottesca, e interessante, radice nella più multiforme delle espressioni sociali di questa terra: l’antimafia.

L’altro giorno, in occasione del trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio, il neo sindaco di Palermo Roberto Lagalla è stato contestato dal movimento delle Agende Rosse.
Fatto salvo il diritto di dissentire civilmente da chiunque e in qualunque situazione il dissenso abbia un ruolo costruttivo, quest’episodio è sintomatico di un massimalismo che è nel dna dell’antimafia militante. E in “antimafia militante” non si deve leggere un’accezione negativa, ma al contrario si deve inquadrare un’attività di passione, impegno tangibile, missione civile.
Il massimalismo dicevamo, cioè quella sorta di estremismo ostentato che non prevede soluzioni intermedie, non vede risultati parziali. Nero o bianco, dentro o fuori, con me o contro di me.
Vi ricorda qualcuno?

Agli albori dell’antimafia così come la conosciamo oggi, quella degli eroi e delle stelle cadenti, degli slogan e delle intuizioni geniali, dei lenzuoli ai balconi e sui corpi dei morti ammazzati, il massimalismo è stato l’elettrochoc nel cervello in panne della società siciliana indolente e marcia della sua stessa noia. Ha figliato partiti politici e carriere fulminanti, grandi traditori e ammirevoli chiodi dritti. Ma, nel generoso abbraccio che protegge da minacce e tentazioni, ha peccato per senso di prospettiva. Perché il massimalismo ha questo di sbagliato: considera la strategia come qualcosa che inquina la purezza di un ragionamento.
Contestare Lagalla alla sua prima uscita importante nell’agone della cosiddetta società civile (o di quel che ne resta) è lecito, lo ripetiamo, ma può non essere giusto.

Diciamole come stanno, le cose.

Questo sindaco ha accettato incautamente l’appoggio (o l’investitura) di Cuffaro e Dell’Utri, ma, alla luce di tutto, dire che è stato eletto grazie ai voti della mafia è una forzatura. Perché è comunque un sindaco che sta lì, democraticamente, coi voti dei palermitani, la stragrande maggioranza dei quali persone oneste. Non ha ancora avuto modo di farsi giudicare, almeno sul fronte dell’impegno contro Cosa nostra. Una cosa però la sappiamo: non è con i manifesti tipo “la mafia è una montagna di merda” che si riscuotono patenti di legalità, la storia infima di inganni infimi ce lo ha insegnato. È vero, resta quel peccato originale, il fattore DC – Dell’Utri Cuffaro – condizionerà ancora a lungo l’attività di questo sindaco: il fattore DC è stato un errore politico e sarà interessante vedere se e come Lagalla riuscirà a uscire dall’impasse. Però adesso lo si lasci fare qualcosa di visibile, reale, prima di umiliarlo a freddo. E soprattutto se si è intransigenti lo si deve essere sempre, e non a corrente alternata.
Lo stesso movimento che contesta Lagalla non ha avuto nulla da dire, ad esempio, su un magistrato come Nino Di Matteo che, meno di un mese fa, l’avvocato della famiglia Borsellino Fabio Trizzino ha accusato di aver pervicacemente difeso il depistaggio della strage di via D’Amelio tramite la gestione del falso pentito Scarantino. Non uno slogan, non un corteo sullo specifico. Al contrario, dalle Agende Rosse solidarietà sempre e comunque – che ci sta perché comunque Di Matteo non è che viva spensierato a Disneyland –  e addirittura una proposta di cittadinanza onoraria, lassù al Nord.
Il massimalismo è una scelta poco conveniente, perché a forza di spingere sull’acceleratore ci si dimentica dell’utilità dei freni. È lecito contestare chiunque, dicevamo, ma è lecito anche chiedere una lettura uniforme dei fatti. Se uno posa l’agenda rossa e va ad abbracciare Massimo Ciancimino a favore di telecamera poi qualche domanda se la pone. E se si interroga trova qualche soluzione intermedia, senza estremismi, accettando le critiche e magari ricordando che è proprio la mancanza di prudenza che ha depotenziato l’antimafia.

Colleghi e guardati

Ho lavorato per oltre vent’anni al Giornale di Sicilia e me ne sono andato nel 2007, quando ho capito che non avevo più nulla da dire/fare in quel quotidiano. Ho lasciato in quella redazione, oltre a mille ricordi, molti amici e colleghi, compagni di avventure dentro e fuori i locali dell’azienda. Col tempo, alcune di quelle persone hanno maturato nei miei confronti un astio e un risentimento che ritengo ingiustificati. È vero, posso risultare colpevolmente poco simpatico per motivi che vanno dalle opinioni politiche alla scelta del vino (tipo: odio il Grillo). E poi sono insofferente a quei luoghi comuni che avvelenano la nostra socialità reale, quella analogica, e per di più sono da sempre mezzo vegetariano in un momento in cui i vegetariani si mangiano una bella fetta di carne… ops!. Tornando al Gds è anche vero che mi è capitato di criticare le scelte di una direzione ultratrentennale, di mettere in luce passi editoriali sbagliati, ma anche di solidarizzare con la redazione in momenti difficili e di salutare con gioia il nuovo corso. Qui trovate un bel po’ di materiale.

Nel tempo questi colleghi non hanno perso occasione di trattarmi con sufficienza (è un loro diritto, ma io ci sono rimasto male…), hanno detto schifezze di me (mai di persona, manco a dirlo), e soprattutto hanno boicottato alcune mie iniziative professionali sulle pagine della cronaca (iniziative che invece avevano paginate sui giornali nazionali, quindi qualcosa probabilmente valevano), come se tacere di un evento che può interessare ai lettori fosse uno sgarbo a me e non a chi quel giornale ancora coraggiosamente lo compra.
Non vi nascondo che la cosa mi ha addolorato perché credo di aver sempre anteposto il rispetto per il mestiere e per il diritto al lavoro alle normali critiche che si possono rivolgere a una testata giornalistica come a chiunque altro, che sia cronista o salumiere, magistrato o meccanico.

In Sicko di Michael Moore, documentario tosto sul sistema sanitario statunitense, il regista alla fine racconta la storia del suo principale detrattore, finito in difficoltà proprio per problemi di salute, che si vede recapitare una somma in denaro da un anonimo.
Nell’ottobre del 2020 qualcuno organizzò una colletta per supportare il comitato di redazione del Giornale di Sicilia in una difficilissima vertenza contro la nuova proprietà. Anche lì ci fu una donazione fatta da un tale, da uno che pareva non entrarci nulla, proprio per aiutare i suoi detrattori. Che ovviamente non ringraziarono mai. Ma questo, al netto della buona creanza, non conta.

Conta invece il motivo per cui oggi scrivo queste righe.
Perché ho ritrovato una lettera del dicembre 2003 scritta dal tenutario di questo blog all’allora condirettore del Giornale di Sicilia che aveva contestato l’eccessivo spazio (manco 60 righe) dato a un’iniziativa pubblica di Rifondazione Comunista contro una Commissione regionale antimafia sonnecchiante. Si parlava – udite udite – di Totò Cuffaro, allora presidente della Regione indagato per fatti di mafia e di Antonio Borzacchelli, uno che aveva un vissuto abbastanza complesso.
Insomma mi ero preso una cazziata dalla direzione per qualcosa che aveva a che fare con l’aria che si respirava e che ci avrebbe intossicato negli anni a venire (ma allora nessuno lo sapeva, c’erano solo una coscienza e un’etica professionale a guidarci, e sono cose che non vengono distribuite come i buoni pasto). Mentre io, in modo semplice e senza fare rivoluzioni, volevo respirare normalmente: insomma non volevo vivere intubato. Altro che eroismo, era roba di alveoli… Ognuno sceglie l’aria che si merita, in fondo.
Di lì a poco svuotai i cassetti e me ne andai per sempre: abbandonando un posto fisso e tuffandomi nel mare aperto dell’incertezza (non sono ricco di famiglia né avevo gli assi nella manica di molti miei colleghi, molto più lungimiranti di me, che venivano foraggiati da fior fiore di imprenditori molti dei quali, quelli più generosi, in odor di mafia). In più me ne sono sempre fregato di strumentalizzare accadimenti e convergenze astrali che sono stati la fortuna di chi era al posto giusto nel momento giusto a prescindere dal merito e dalla capacità professionale (su questo potrei scrivere un’enciclopedia e non è escluso che lo faccia quando troverò il tempo). Fregandomene li ho visti sfilare sulla passerella, onorati, riveriti, premiati, incensati. Parlo dei giornalisti, mica degli imprenditori. I giornalisti quando si mettono di impegno non sono secondi a nessuno per grottesco arrivismo, credetemi. Ma io, ormai, per incoscienza (e per culo) avevo preso nuove vie, avevo imparato a sbagliare da solo e mi inebriavo di una nuova vita da addentare con incosciente passione.
Comunque il preambolo è durato troppo.
Volevo dirvi che di questa lettera mi ero dimenticato per 19 anni, sino a oggi quando nel mettere ordine tra i miei files è venuta fuori.
Eccola.

Gli eventi degli ultimi tempi mi hanno indotto ad alcune riflessioni che ritengo importanti sul mio ruolo al Giornale di Sicilia.
Sabato 13 dicembre mi hai contestato verbalmente l’eccessivo spazio che, a tuo parere, abbiamo concesso alle polemiche sulla commissione antimafia regionale. Ne ho preso atto, nel rispetto dei ruoli, ma è mio diritto dissentire profondamente.
Ritenevo che la questione non fosse una roba che interessa “quattro o cinque persone”, alla luce dello spinoso caso Borzacchelli e dell’ancor più difficile caso Cuffaro. Ora, in una Regione in cui il presidente è indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e in cui gli inestricabili circuiti del potere (politico, amministrativo, giudiziario) sono comunque chiamati dentro, non è per me facile muovermi senza regole chiare ed inequivoche.
Il ruolo e i passi della politica in quest’ambito (antimafia e dintorni) sono cruciali, si può registrarli o ignorarli. Farne trenta o cinquanta righe è un falso problema. L’iniziativa di Rifondazione comunista era, a mio parere, meritoria di attenzione: ho dato lo spazio che serviva per offrire al lettore cifre, dati, accuse, repliche, argomentazioni su un organismo al centro di forti polemiche in questi ultimi giorni (vedi Borzacchelli-Cuffaro). Si poteva registrarla o ignorarla.
Al di là di questo caso, la gestione delle notizie è, per quanto mi riguarda, ormai solo un mero esercizio di contabilità. Basterebbe una segretaria, perché sprecare denaro con un vice-caporedattore?
Il mio spazio di manovra è stato ridotto sempre più.
Ogni giorno il Giornale di Sicilia pubblica stralci, ampi e assolutamente sovradimensionati, di interviste ad assessori e politici (di schiacciante maggioranza polista) a Rgs. Ebbene, la maggior parte di questi titoli sono al futuro: “Faremo questo…”, “Ci impegneremo…”, “Risolveremo…”.
Questo, a mio parere, è il bla-bla politico. E sancisce, sempre più, un distacco, volontario e asservito, da ciò che non è allineato col governo regionale\provinciale\comunale.
Se così non fosse, vorrei capire come mai sabato scorso mi hai rimproverato di non esser stato informato preventivamente sulle 58 righe che riguardavano l’iniziativa di Rifondazione comunista (ampia replica compresa). Ogni giorno infatti l’intero giornale è intasato di “aperture” dove Cuffaro, i suoi assessori, Cammarata e compagnia bella dichiarano e promettono a più non posso. Eppure non credo che i colleghi dirigenti ti chiamino per informarti step by step sullo stato delle cose. Almeno io non lo faccio. La maggioranza di centrodestra dichiara, noi stampiamo. In automatico. E nulla mi è stato contestato, perché evidentemente piace così.
Mi è chiaro che la linea politica di un giornale la traccia il direttore, ma a questo punto ho bisogno di certezze.
Il fatto che la commissione regionale antimafia abbia fatto soltanto 13 sedute utili in due anni in una terra che non è Disneyland è una stupidaggine?
C’è stata una conferenza stampa, c’erano decine e decine di agenzie. Dovevamo ignorare l’avvenimento?
E potevamo farlo alla luce della nostra verifica sulla produttività dell’Ars?
C’è un caso giudiziario, l’ultima inchiesta su mafia e politica imbastita dalla Procura di Palermo, che rischia di esplodere con una potenza mica male. Lo dico molto chiaramente: il pericolo è che se scoppia una caldaia in quei palazzi, qualche mattonella viene giù anche da noi.
Il nostro cronista (…) vive in un clima di forte sovraesposizione. (…) è depositario di molti retroscena dell’inchiesta, ha letto verbali, ha proposto articoli e se li è visti bocciati o pesantemente emendati. Non entro nel merito della legittimità degli interventi voluti dal caporedattore centrale in persona di cui ho rispetto professionale.(…)

Update. Per un mio errore avevo sbagliato a digitare l’anno della lettera. La data corretta è dicembre 2003.

La realtà è noiosa?

La realtà è diventata (più) noiosa? O siamo noi che siamo diventati più resistenti allo stupore?
Il tema è meno personale di quanto possa sembrare giacché la percezione della realtà non è soltanto qualcosa da relegare nell’angolo più remoto dei cazzi nostri, ma riguarda tutto il sistema sociale sul quale si basa la parte migliore della nostra vita: quello della relazione con altro e altri.

Esempio. Se io considero la realtà più noiosa – che è già una risposta alle prime due domande poiché la realtà di suo non è divertente o meno, ma sono io che le attribuisco un punteggio in termini di mio stupore – di conseguenza sono meno interessato a essa. Quindi: mi estraneo, vado meno al teatro, leggo meno libri, mi consolo coi social network, bevo di più, mi ingozzo di cibo spazzatura, fumo cento sigarette, indurisco il mio cuore, produco meno, mi drogo, ipotizzo stragi condominiali, divento terrapiattista (in ordine di gravità).
Mentre se reagisco alla resistenza che ho sviluppato allo stupore posso imparare a guardare  le cose con occhio diverso. Senza paura di ammettere che ho cambiato idea, senza l’ansia di dover indossare un abito nuovo. 

Per lungo tempo ho fatto lavori pressoché anonimi: molto ghostwriting (qui una cosa carina in proposito), molta cucina nei giornali. Ruoli che sembrano secondari ma che invece nascondono una fondamentale verità: ci sono mestieri in cui se non ti si vede/nota vuol dire che il lavoro è fatto bene. Non è stato facile, per uno con la mia autostima grottescamente strabordante, convivere con questo compromesso. Ma quello passava il convento e quello dovevo fare per campare. Tutto sommato era un bel mestiere e probabilmente era giusto così.
Ecco, allora ero nel limbo della “realtà noiosa”. Scrivevo per altri e col nome di altri, pensavo a come tirar su un reddito che mi consentisse una vita dignitosa (obiettivo sempre raggiunto perché oltretutto ho culo) e fumavo il fumabile.
Poi cominciai a capire che il problema non era della realtà, ma mio. E cominciai a cambiare le carte e il gioco. Nuotai controcorrente e, non essendo un campione, rischiai di andare a fondo un paio di volte, abbandonai compagni di viaggio che non meritavano la mia compagnia e finalmente scelsi in modo radicale.

Oggi sono un collezionista di errori, alcuni dei quali imperdonabili (ve ne ho parlato più volte). Ma ho imparato che, come sappiamo e come facciamo finta di non sapere, quando il mondo sembra avercela con te, sei tu il problema. E che non c’è vergogna a correggere il tiro senza per forza dare la colpa all’altro.
Ora non vi voglio mandare il messaggio di amore e fratellanza universale perché ci sono momenti in cui le budella si aggrovigliano e vorresti mandare a fare in culo l’universo mondo: ecco quelli sono momenti catartici, ma sono un’eccezione.
Invece voglio sommessamente suggerirvi che quando la realtà vi appare meravigliosa è molto probabile che siate fortunati, ma c’è anche una minima possibilità che vi siate addormentati sul divano.
E lì è sul risveglio che si gioca la partita della vostra storia.
Stupitevi almeno di voi stessi, che è un buon modo di ricominciare. Poi andate a dormire a letto, come dio comanda.           

Tempo sprecato

È tempo sprecato quando

Ti fai raccontare un film anziché vederlo
Ridi per battute seriali
Credi di essere utile per risolvere questioni inutili
Credi di essere inutile per risolvere questioni utili
Trascuri la prima impressione
Ti fidi del consiglio dello chef
Dai facendo finta che non ti interessa essere ricambiato
Voti a sinistra per fede
Immagini di poter mantenere più di quanto hai promesso
Confidi nell’amicizia da polpastrello
Quel polpastrello ti prude e tu non scrivi
Bevi vino al di sotto dei dieci euro
Credi che il dolore riempia un vuoto
Credi che un vuoto sia nato per essere riempito
Usi l’amicizia come surrogato dell’amore
Pretendi dall’amore la duttilità dell’amicizia
Ascolti la nuova musica italiana aspettandoti che sia nuova e italiana
Ti dimentichi che esistono ancora in vita Pat Metheny e Gino Vannelli
Cestini un libro per sentito dire
Pensi che un passo indietro sia una sconfitta
E che un passo avanti sia un progresso (anche davanti al baratro)
Preghi al momento del bisogno
Inganni la cronaca con l’invenzione
Dai più attenzione alle vecchie foto che allo specchio
Ti fidi troppo dello specchio
Usi i tuoi problemi come passepartout
Cedi al fascino delle cose facili
Pensi ai tuoi guai come ai guai dell’universo mondo
Ti guardi indietro e ridacchi per le sventure dei tuoi nemici
Non fuggi quando dovresti farlo senza ritegno.

Tu chiamale se vuoi elezioni

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

A Palermo dici elezione e leggi confusione. Nella corsa alla poltrona di sindaco – che poi di fatto è solo una sedia tutt’altro che comoda – si leggono in filigrana vizi e contraddizioni di questa città. Una città dove pianificare è il refuso del panettiere e dove sarebbe saggio uniformarsi al vecchio detto: meno promesse, meno delusioni.
Diciamo subito che finora la politica non ha prodotto un bel nulla, a parte i “campi larghi”, i “pressing”, i “veti incrociati”, le “sfide interne”. Tutte frasi dalle quali, come in un gioco della “Settimana enigmistica”, possono scaturire infinite possibilità. L’esercizio più divertente è quello di “dimenticare Orlando” senza dimenticarlo, magari cercando di estorcergli qualcosa che sta a metà tra il testamento e l’investitura. Ma è nei candidati fai da te che la questione rischia di diventare appassionante, almeno al confronto con le strategie sbadiglianti dei partiti. Dalla sovranista no-pass che ha messo il Covid in una narrazione molto personale, al tale che immagina di costruire mega parcheggi sotterranei e sopraelevati (a conferma che il vero problema di Palermo resta il traffico), dal sopravvissuto della società civile che si muove come il soldato giapponese emerso dalla giungla trent’anni dopo la fine della Seconda guerra, all’ex direttrice di carceri che spiega come il modello Ucciardone si adatti  questa città (con ampia libertà di metafora).
La materia è talmente rarefatta che ci si può scherzare su e al contempo parlarne seriamente senza che nessuno noti la differenza. Al momento l’unica indicazione seria arriva da un comico come Corrado Guzzanti: “Se i partiti non rappresentano più gli elettori, cambiamoli questi benedetti elettori.”

San Valentino, voltare pagina

“Io non voglio qualcuno che mi ripeta in continuazione che ci sarà sempre
e non mi lascerà o tradirà mai. Mi basta qualcuno
che ogni volta che mi mandi a fanculo venga sempre a riprendermi.”
Charles Bukowski

San Valentino, almeno nella mia esperienza, è uno spunto per varie cose. Per ricordare e il suo contrario, per celebrare e il suo contrario, per crescere e il suo contrario.
Alla mia età, avendo attraversato diverse latitudini affettive, vi confesso che le ho provate tutte. Dalla festicciola a casa con gli amici (anche loro innamorati come da copione), al festino alcolico per dimenticare; dal brodo di giuggiole per una frase vergata su un libro che pare stare lì apposta per te, al cambio di stato di un pizzino d’amore, da foglio a coriandoli; dallo slancio di memoria del come eravamo alla prua diretta verso il come sarò.

Chissà qual è la formula più vantaggiosa per arricchire un sentimento, quando uno ce l’ha, e magari capitalizzarlo. Forse, come ha ironizzato qualche anno fa Gianluca Nicoletti, in questo giorno cruciale l’unica cosa buona che una coppia di innamorati dovrebbe fare è portarsi un single sfigato a cena (occhio, ho detto single sfigato e non solo single o solo sfigato). O forse vale una strategia di segno opposto: trattare il sentimento con l’ordinarietà delle cose umane, dato che non è vero che l’amore ci avvicina a dio, semmai ci costringe più spesso a chiedergli una mano. Una volta raccontai in un romanzo la storia di un cuore bonsai al quale venivano tagliate le radici in modo che non potesse crescere troppo: era una polluzione nichilista. Un’altra volta mi è stata suggerita la favola di una persona che resiste strenuamente ai cambiamenti del ph del cuore: una cosa a metà tra “Viaggio allucinante” e “Alice nel paese delle meraviglie”.

Di certo San Valentino si porta appresso il paradosso di un vestito che era bello quando era nuovo, ma che magari è ancora lì nell’armadio perché non ci si decide a buttarlo definitivamente, o perché ce ne siamo dimenticati. Lo guardiamo e immaginiamo il giorno che perderemo quei chili che ci impediscono di indossarlo di nuovo, magari passeggiando con la persona che abbiamo deluso, o che ci ha deluso, o che abbiamo costretto a fuggire, o chissà.
Lo spirito di sopravvivenza, e anche una buona dose di incosciente saggezza, ci ricordano che chi si mette a dieta per un vestito non lo fa per se stesso, bensì per il vestito. E la dieta in generale è deprimente più di una festa senza festeggiamenti.