Nel nome del padre, o del padrino

L’articolo pubblicato sul Foglio.

Don Marcello Cozzi si presenta come prete, lucano, impegnato da decenni sul versante del disagio sociale, nell’educazione alla legalità e alla giustizia, nel contrasto alle mafie e nell’accompagnamento ai pentiti di mafia e ai testimoni di giustizia. Racconta che dal 2004 è stato contattato da più di cento mafiosi e che con almeno cinquanta di loro continua a sentirsi, scriversi e vedersi. Talvolta l’accompagnamento sfocia in un libro. L’ultimo raccoglie le memorie di Giovanni Brusca che con malcelata modestia afferma: “Sono stato ritualmente affiliato all’età di 19 anni, credo di essere stato uno dei più giovani nella storia di Cosa Nostra…”. L’ex enfant prodige che è maturato straziando corpi di giudici e poliziotti, strangolando bambini, sciogliendo i nemici nell’acido, oggi è un tranquillo pensionato del crimine. Si è definito lui stesso “un animale” e ha lasciato il carcere in virtù degli sconti di pena per i collaboratori di giustizia. “Un animale” in libertà.
È uno che a verbale, quando gli chiedevano quanti omicidi aveva commesso, rispondeva: “Molti più di cento, sicuro meno di duecento”. Adesso il suo biografo don Cozzi ha inanellato nel volume “Uno così”, 192 pagine in brossura, la storia di un uomo che ha condotto un’esistenza “nella violenza come sistema di potere”: il libro è delle Edizioni San Paolo, e il pensiero corre all’immagine di quel santo spesso rappresentato con in mano la “spada a due tagli” che consente all’uomo di distinguere il bene e il male.
Teniamola a mente quest’immagine. La spada, il bene, il male.

Si narra che la rubrica del telefonino di don Marcello Cozzi sia piena nomi in codice, sigle, nickname: tutti collaboratori di giustizia che vedono in lui un’occasione di liberazione, dell’anima o di suoi surrogati più terreni. Don Cozzi è un prete coraggioso, dà attenzione a tutti, parenti delle vittime, testimoni di crimini gravi, ma soprattutto carnefici. “Quanto più ascolto il tormento di Caino, tanto più posso capire quanto sia lancinante il dolore di Abele”, ha scritto. È così che i tormenti dei killer, i loro dilemmi esistenziali (sparare o non sparare?), la loro vulnerabilità carceraria hanno cominciato ad affollare l’agenda di don Cozzi: stragisti, mafiosi siciliani, carnefici casalesi, assassini di preti, di magistrati, di ragazzini. Tutti in cerca di un altissimo dialogo, nel nome del padre, del figlio e di uno spirito perduto. Sullo sfondo una umanissima voglia di riconciliazione. In filigrana il grande e mai risolto equivoco della ricerca di una (falsa) universalità che in qualche modo rischia di mettere aggressori e vittime sullo stesso piano.

Ci sono vari modi di ascoltare un mafioso. Con tutta una serie quasi infinita di varianti: se è latitante, se è pentito, se è credente (al netto delle bibbie sui comodini e sui segni della croce prima di premere il grilletto), se è ignorante, se ritiene il suo dio accessibile tramite un rito, se ha problemi di contante, eccetera.
Un esperto in tal senso era il carmelitano Mario Frittitta, morto a 83 anni lo scorso anno, sacerdote della chiesa di Santa Teresa nel quartiere Kalsa di Palermo. Negli anni ’90 celebrava messa nel rifugio segretissimo di un latitante ai tempi leggendario, Pietro Aglieri, mafioso e pluriomicida cresciuto in seminario, appassionato di filosofia e pallottole. Fu seguendo il prete che gli uomini della Squadra mobile riuscirono a prendere Aglieri. Frittitta venne arrestato e con molta poliziesca perfidia fatto sfilare davanti ai fotografi con le manette ai polsi e l’ordinanza di custodia cautelare in mano. Si fece solo quattro giorni di carcere. Fu condannato in primo grado per favoreggiamento nonostante lui si fosse giustificato adducendo il tentativo di convertire il boss a domicilio. Alla fine la Cassazione gli credette, ribadendo che un sacerdote non è obbligato a informare le forze dell’ordine degli eventuali reati dei quali viene a conoscenza confessando i criminali. Frittitta rientrò da eroe nella sua chiesa alla Kalsa, tra gli applausi dei fedeli e gli sguardi prudentemente distratti delle alte sfere ecclesiastiche. Che però dovettero tornare a occuparsi di lui quando, nonostante il divieto del questore, celebrò una sorta di funerale prêt-à-porter per il boss Masino Spadaro che della Kalsa era signore e padrone. E non contento, minacciò il cronista di Repubblica Salvo Palazzolo che gli chiedeva ragione di quell’elogio della “pecorella smarrita” con parole non proprio tratte dai Salmi: “Stia attento a come parla, perché altrimenti lei la paga. Perché il Signore fa pagare queste cose”, sibilò al giornalista. L’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, nel sottolineare “l’inconciliabilità dell’appartenenza alle organizzazioni mafiose con l’annuncio del Vangelo” fece quello che fanno tutti quelli che hanno un problema che non sanno come risolvere: stigmatizzò.

Chi si mostrò molto comprensivo con don Mario Frittitta ai tempi del caso Aglieri fu un altro prete, Vincenzo Noto, giornalista a tutto campo: redattore al Giornale di Sicilia, direttore del settimanale cattolico Novica e dell’agenzia Mondo Cattolico di Sicilia. Noto scrisse un libro interamente dedicato al parroco della Kalsa, intitolato “Da sacerdote tra i mafiosi” nel quale riassunse: “Mario ha vissuto in maniera drammatica, ‘disprezzato’, a suo giudizio, dalle forze dell’ordine e dai magistrati, ‘infangato’ dai cronisti di giudiziaria, ma sempre ‘difeso’ dalla sua gente che lo conosceva abbastanza bene”. E lasciò intendere che se mai di colpe si fosse potuto parlare, Frittitta non poteva essere il solo: “Sarebbe particolarmente interessante occuparsi del cammino spirituale che Aglieri ha affermato di avere iniziato in una lettera a don Lillo Tubolino, parroco della parrocchia della sacra Famiglia, a pochi metri dalla stazione Centrale di Palermo, nel periodo della latitanza, come anche di tutta l’assistenza spirituale che ha avuto e non soltanto da parte di padre Mario Frittitta”.
Insomma se è guerra, è guerra per tutti.

Lo sapeva bene Ennio Pintacuda, gesuita e movimentista, sociologo e guerriero votato al cambio di fronte. Francesco Cossiga, da presidente della Repubblica, lo dipinse come “prete fanatico” che avrebbe esiliato volentieri in Paraguay. Bettino Craxi lo chiamava “Padre Barracuda”. Il suo slogan contro la mafia (e contro tutti quelli che non essendo con lui diventavano di default contro di lui) divenne la bandiera di un movimento di grande impatto civile e politico nella Palermo dei primi degli anni Novanta, la “Rete” di Leoluca Orlando: “Il sospetto è l’anticamera della verità”. Ma erano parole vaganti come i proiettili che in quegli anni attraversavano le contrade siciliane, parole che allarmarono lo stesso Giovanni Falcone: “Il sospetto non è l’anticamera della verità, ma l’anticamera del komeinismo”.  

Il bene e il male. Nel suo sciabolare tra le stanze dei bottoni, Pintacuda (nome di battaglia tra i suoi, “padre Ennio”) ha spesso sovvertito l’ordine dei nemici politici, affilando la sua spada su mole molto diverse a seconda delle carni da incidere. Dalla Dc degli inizi alla santa alleanza col ribelle dello scudocrociato Leoluca Orlando, dall’Udr di Cossiga alla maledizione di Cossiga stesso, dalla fondazione della Libera università della politica con stage a Filaga (pellegrinaggio d’ordinanza per i giovani movimentisti cattolici) alla nascita di un partito autonomista quasi secessionista “Noi siciliani”, dall’avvicinamento al Pds all’allontanamento dal Pds stesso per una furibonda polemica sui mandanti occulti dell’omicidio del segretario regionale del Partito comunista Pio La Torre (che secondo Pintacuda erano nascosti nel suo stesso partito). E, gran finale, il Polo, l’ultima stanza da esplorare e dalla quale uscire con un paio di nomine al di sopra di ogni sospetto e lontane da ogni scomoda anticamera: responsabile del Laboratorio antiusura della Provincia di Palermo a guida Forza Italia, e presidente del Cerisdi, Centro ricerche e studi direzionali, la Master School della Regione governata dal Polo di centrodestra.
Il nome e la storia di Ennio Pintacuda si incrociano con quelli di un altro gesuita di audace fioretto anti-cosche, Bartolomeo Sorge. Entrambi politologi di razza, ma con chiavi ermeneutiche diverse si trovano a intessere la strategia politica, da veri spin doctor, di un importante movimento politico e sociale, la Primavera di Palermo, una stagione di complicato riscatto civile in una città che sfida il tritolo di Cosa Nostra coi lenzuoli bianchi e le catene umane. Tra i due tutto fila liscio sino a quando Orlando rompe definitivamente con la Dc. Pintacuda lo segue, mentre Sorge si tira indietro. In più, Sorge capo della scuola superiore di politica dei gesuiti di Palermo, l’Istituto Pedro Arrupe, caccia Pintacuda che gli ha dichiarato guerra con volantinaggi, sottoscrizioni e campagne di stampa. Ma padre Ennio non è uno che si lascia intimidire e nel suo incontenibile furore politico che tutto consuma e nulla mantiene, trova occasione di rompere anche con Orlando per motivi che mai furono ben chiariti (la tesi più accreditata si rifà a un presunto diniego da parte dell’ex sindaco a concedergli un ruolo nella macchina comunale). È così che Pintacuda consuma la sua vendetta nei confronti di Sorge e di Orlando facendosi mettere a capo dal centrodestra di una Master School, il Cerisdi, concorrente rispetto al centro Arrupe e di discreta vocazione anti-orlandiana.

La ricerca di un dialogo senza fraintendimenti con la metà oscura, il coraggio di andare a fondo nelle cose più complesse anche mettendo a rischio la propria vita, ha comportato la perdita di molte vite. Nella terra in cui, storicamente, il mafioso è quella persona che dice di non esistere a persone che dicono di non conoscerlo, svettano figure che armate solo della propria fede hanno usato la parola per strappare consensi alla mafia, ma senza scriverci un libro, senza indugiare nella pubblicistica. 

Uno dei più feroci killer di mafia, Salvatore Grigoli, oggi collaboratore di giustizia, ha raccontato che il suo esordio come assassino è stato l’uccisione di don Pino Puglisi, parroco del quartiere Brancaccio di Palermo, ammazzato il 15 settembre 1993 nel giorno del suo cinquantaseiesimo compleanno. “La Chiesa che conoscevamo è stata con noi sempre disponibile. – ha detto Grigoli – Intendiamoci, non perché era collusa (…) magari perché noi offrivamo piccoli favori. Voglio svelare un piccolo aneddoto: nel raggio di appena due chilometri dalla chiesa di don Pino, c’era un’altra parrocchia e un altro prete. Nei momenti di bisogno veniva sempre da noi. Come quella volta che era stato fatto un furto in Chiesa. Gli abbiamo detto: ‘Padre, ora vediamo’. E poi gli abbiamo ricomprato tutto”. Puglisi era di un’altra pasta. “Don Pino – racconta Grigoli – continuava a fare delle prediche, delle messe contro la mafia forse perché si rendeva conto di quanto la gente sentisse il fascino di Cosa Nostra. E allora cercava di allertare innanzitutto i giovani”. Nessun proclama, niente propaganda. Don Pino parlava ai ragazzini cercando di fargli capire che l’onore lo si ottiene stando alla larga dai criminali.
L’antimafia sottotraccia, niente militanza chiodata, niente effetti speciali, niente slogan, solo sostanza. L’unico insegnamento che galleggia nelle acque paludose della retorica tardiva, quella per la quale solo il morto insegna a piangere, è che servono molti preti come don Pino, però vivi.

Uno che resiste, dalle retrovie del quartiere Albergheria è Cosimo Scordato, teologo ed ex rettore della chiesa di San Saverio che sotto la sua guida è stata laboratorio di un esperimento quasi scientifico coi fedeli, qualunque fosse la loro fedina penale.  
Scordato negli anni ha ospitato Franco Scaldati e il suo teatro, ha narrato la grandezza dello scultore Giacomo Serpotta di cui è il massimo esperto, ha portato all’università ragazzi che prima non arrivavano manco alle elementari, ha aperto la sua chiesa alle assemblee cittadine, ha usato l’accoglienza come arma contro la discriminazione. Dall’Albergheria al Congo alla Tanzania, la tela intessuta da Cosimo Scordato è stata fitta e senza strappi: una scuola qui, un pozzo lì, un pronto soccorso da un’altra parte. Sempre in movimento. I soldi non ci sono ma si trovano, perché la fiducia è una forma di fede (in Dio, negli altri, in se stessi). Ed è contagiosa.
Questo energico ultrasettantenne è la dimostrazione semplicissima di una cosa complicata: un saggio può essere furbo, difficile il contrario. La saggezza di don Scordato è un incrocio di cultura e passione. La grande preparazione teologica e la curiosità verso l’arte in tutte le forme hanno dato corpo alla sua voce anche in momenti complicati, lo hanno aiutato a navigare controcorrente nei canali impetuosi di una città arcipelago dove le mille isole delle diversità difficilmente vedono un traghetto. La sua furbizia è invece il mezzo col quale ha saputo mettersi al riparo dal fuoco di fila che gli si è scatenato contro ogni volta che ha deciso di affrontare una situazione difficile. Quando, ad esempio, invitò la sua comunità a pregare per una coppia di lesbiche che di lì a poco si sarebbero unite civilmente, si mosse con grande abilità in un campo minato. Fece esattamente quello che voleva, sollevò un problema senza mai pizzicare una dottrina che conosce assai meglio dei suoi detrattori.

Non serve la spada quando hai le idee chiare.

Per chi suona Eddie Van Halen?

Per chi sta suonando ora Eddie Van Halen? Domanda oziosa. Eppure me lo chiedevo stasera mentre rientravo a casa ascoltando, a volume adeguato, “Main Street”, una delle canzoni meno memorabili dei Van Halen. Probabilmente è una cosa che succede sempre più di frequente con l’età che avanza, o è questione di influssi astrali, oppure ancora è semplicemente indole trasversale. Ma a me capita sempre più spesso di interrogarmi su ciò che potrebbe accadere là dove non sappiamo se davvero qualcosa accada. Prevalentemente roba di defunti quindi.

Giuro, non penso quasi mai alla morte. Ma ai morti sì. Del resto come faremmo senza i morti? O meglio, senza la gioia di quel che ci hanno lasciato.

Io a Oscar Wilde farei passare egoisticamente altre mille pene dell’inferno pur di avere un secondo De Profundis. O affonderei dieci Endurance per avere ancora il brivido di impersonare il capitano Shackleton che conta i suoi uomini dopo due anni di tribolazioni inaudite e scoprire che sono tutti vivi, grazie a me. O riascolterei mille volte la tragica avventura di Walter Bonatti sul K2 per ribadire che non si muore mai invano se in ballo c’è la più importante delle nostre missioni, quella di dimostrare che non si vive invano appunto.
Insomma chiedendomi che minchia sta facendo Eddie Van Halen adesso, lì nell’alto dei cieli con adeguata amplificazione I suppose, mi sono ricordato da dove originava questa domanda.
Dalla mia complicata visione dell’aldilà.

Premesso che non sono ancora – almeno lo spero – in età di rendiconti affrettati, è giusto che dichiari la mia provenienza incolpevole: sono cresciuto dai preti.
È un capitolo complesso della mia infanzia perché mi sono trovato, per scelte ovviamente non mie, a essere convogliato in una scuola di gesuiti nella quale stavo malissimo e dalla quale sono venuto fuori a tentoni. Dopo è stato tutto più semplice, ma durante è stato un casino.
In ogni caso – poi magari ne parliamo un’altra volta – in tutti quegli anni di scuola cattolica-bene-imbalsamata ci fu un solo avvenimento che mi colpì positivamente. Anzi che mi stravolse.

Era un pomeriggio di inverno, nel 1977.

Il mio insegnante di religione si chiamava Giovanni Pintacuda, ed era il fratello ignoto di Ennio un prete che di lì a un decennio sarebbe diventato un pilastro della società civile antimafia e della cosiddetta Primavera di Palermo.
Io a scuola non andavo bene. Facevo il chitarrista rock, scrivevo canzoni al limite dell’orribile, avevo ottimi voti nei temi d’italiano nonostante certi professori che 45 anni dopo hanno il coraggio di seguirmi sui social (probabilmente perché oggi come ieri non capiscono un cazzo di quello che scrivo), organizzavo cose teatrali, inseguivo le femmine, non mi drogavo e galleggiavo in quella realtà che mi era stata imposta (in buona fede) dalla mia borghesissima famiglia borghese.
In quel pomeriggio padre Giovanni Pintacuda mi aveva convocato per parlarmi. Io mi ero presentato, capelli lunghi e maglione alla coscia, annoiato a dovere: immaginavo la solita ramanzina. Tra l’altro mia madre aveva scoperto proprio pochi giorni prima che avevo marinato la scuola, falsificando le giustificazioni, tipo per due settimane di seguito… Quindi immaginate il clima.
Nel viale alberato dell’Istituto Gonzaga di Palermo padre Giovanni Pintacuda mi venne incontro e mi prese sottobraccio.
Lui era piccolo di statura e io, che non ero un gigante, lo sovrastavo di almeno una decina di centimetri di pura adolescenza post puberale.
Facemmo due passi e lui dal nulla disse: “Gery, parliamo di donne”.
Poteva dirmi qualunque cosa, tipo che cazzo combini, o che cosa ci fai qui, o fai finta di niente e parliamo in playback.
Invece disse proprio quella frase.
“Gery, parliamo di donne”. Un prete colto e un adolescente pulcioso.
Fu un flash. Una sventola. Un pugno e un abbraccio.
Una svolta.
Nessuno mi aveva mai parlato così. Anzi, nessuno mi aveva mai svegliato così.
Quel pomeriggio padre Giovanni mi porse il primo dei mattoncini di Lego coi quali edificare il mio castello. Mi insegnò a guardare dritto per capire cosa sta ai lati e cosa mettere al fuoco anche se non sta al centro, mi diede la prima lezione di vista periferica insomma. Come Messi.
Ci raccontammo cose che rimarranno sempre tra noi e che del resto non sarebbero interessanti per nessuno.
Però ci fu un concetto che allora presi sottogamba e che invece col tempo imparai ad apprezzare sino addirittura a farne un mantra (invecchiando ci rincoglioniamo di cose note, un tempo sottovalutate, fingendo stupore tipo scimmie primordiali davanti al Meteorite): la vita non è come il cinema, tra il primo e il secondo tempo quello che conta è l’intervallo.

Ecco, nell’intervallo io mi sono chiesto cosa accade quando la proiezione è finita.
Per chi lavorano gli artisti a sala chiusa.
Che pubblico ha il privilegio di godersi uno spettacolo che non va più in scena.
E da lì ho trovato la risposta alla domanda di stasera: per chi sta suonando ora Eddie Van Halen?
Magari l’avete trovata anche voi. Anche se non avete avuto il privilegio di aver conosciuto padre Giovanni Pintacuda.